Medea rinasce a Saint Omer: Alice Diop e il mistero dell’infanticida

In Cinema

E’ uno dei migliori film dell’anno il debutto della regista franco-senegalese, che all’ultima Mostra di Venezia ha vinto il Leone d’Argento. Partendo dal processo seguito a un fatto di cronaca nera, si delinea il complesso rapporto tra una donna che ha causato la morte della figlia, chiamata in tribunale a spiegare il terribile gesto, e una scrittrice che segue il processo in cerca di verità e finisce quasi per identificarsi con lei. Eccellenti le due protagoniste Kayije Kagame e Guslagie Malanda

Non c’è ancora traccia, purtroppo, sugli schermi italiani di All the Beauty and the Bloodshed, il bellissimo film di Laura Poitras che racconta vari decenni di creazione e battaglie sociali della grande artista multimediale Nan Goldin, vincitore pochi mesi fa dell’ultimo Leone d’Oro. Ha invece avuto migliore fortuna l’altro titolo rivelazione dell’ultima Mostra di Venezia tutto al femminile (regia, soggetto, protagoniste), cioè Saint Omer, arrivato in questi giorni nelle sale. Il debutto nel lungometraggio, dopo vari documentari tutti su temi vicini alla società francese contemporanea, della 43enne Alice Diop, nata a pochi chilometri da Parigi da genitori senegalesi, è stato scelto dalla Francia per concorrere all’Oscar 2023 al miglior film straniero dopo aver vinto il Leone d’Argento e il Leone del Futuro per l’opera prima. 

In apparenza la struttura è quella classica del dramma giudiziario. Rama, una giovane scrittrice (Kayije Kagame), d’accordo con il suo editore, decide di seguire a Saint Omer, cittadina nel dipartimento di Calais, un processo a un’infanticida, in cerca di spunti sul mito di Medea, su cui sta lavorando: il tema è presto richiamato da una lezione di lei su Marguerite Duras, autrice di un celebre saggio in difesa di un’analoga imputata e da una sequenza del film di Pasolini con Maria Callas. Laurence (Guslagie Malanda) è la giovane donna chiamata a spiegare il perché di un gesto orribile che non ha mai negato ma che lei stessa non sa spiegare e spiegarsi: o meglio che spiega in modi contraddittori, a volte alludendo in modo razionale alla sua vita molto difficile e nascosta, in altri momenti rifacendosi a sogni, fantasie, stregoneria.

Via via che le sedute si assommano, la rea confessa esercita sempre più su Rama un’influenza quasi incontrollabile, per molte e profonde ragioni. E’ colta, parla un francese forbito (che ha colpito anche la giudice che l’interroga, sempre più smarrita di fronte a una vicenda dai contorni sfuggenti, ambigui come la sua responsabile), ma soprattutto la coglie in un momento di incertezza e difficoltà: incinta di quattro mesi, allarmata dal futuro che l’aspetta e dalla reazione che avrà di fronte a un evento così sconvolgente come mettere al mondo una creatura, è turbata dai conflitti con la madre che sente raccontati con molte similitudini anche dall’imputata – entrambe hanno passato la vita cercando di non replicare psicologia e sconfitte delle loro genitrici – e finisce per sviluppare nei suoi confronti una sorta di disperata identificazione. 

E poi perché Laurence, la quale per tutto il film racconta un rapporto tenero, struggente con la figlia di appena 15 mesi di cui ha provocato la morte dopo averla accudita in modo quasi esclusivo, più parla e più sviluppa un senso di disagio in chi l’ascolta, in tribunale e in platea. Certo, lei incarna il doppio profilo dell’assassina e della vittima. La piccola Elisa è il frutto di una relazione segreta con un signore francese agée, dal quale dipendeva in tutto (danaro, alloggio), vivendo nel suo atelier in condizioni praticamente clandestine. Quasi a nessuno ha rivelato la sua maternità, e per sei mesi dalla nascita della piccola non è uscita dalla porta di casa. Le sue prospettive di vita sono nulle: lasciati i promettenti studi, ha anche quasi perso il legame con la famiglia che sta in Senegal. E anche nella Francia multirazziale di oggi, questo tipo di condizione materiale ed esistenziale per una donna africana resta una condanna, una prigione. Da cui è difficile uscire indenne. 

Saint Omer nasce dalla cronaca di un vero processo, del 2016, cui la regista ha assistito: la giovane Fabienne Kabou aveva affogato la figlia abbandonandola alle onde dell’Oceano. Diop ha poi lavorato sui verbali del dibattimento. E le sue riflessioni, che si sviluppano in parallelo alle deposizioni di Laurence, intrecciano diversi e complessi piani: l’identità razziale che in Francia può rendere “invisibili”, il rapporto punitivo con un partner anomalo per differenza di età e condizioni sociali, la depressione crescente, il richiamo indentitario a una cultura ancestrale che non è solo una debole scusante per un gesto estremo, per la rottura di un tabù etico e culturale. Tutti elementi che fanno breccia anche nella giudice (Valérie Dréville, bianca, terza protagonista).

“Non avrei mai fatto un film su un infanticidio se non fossi stata folgorata da questa donna – ha detto Alice Diop – e dal suo modo di raccontare la sua storia che suggeriva implicazioni psicanalitiche, mitologiche e tragiche sul tema della maternità. Mi ha colpito il primo resoconto di una giornalista che riferiva la tesi della ragazza: ho restituito mia figlia al mare. Mare, in francese, si pronuncia come mère, come madre. Infatti Fabienne non ha mai detto: Ho annegato mia figlia. Cerco di rappresentare la complessità della psiche umana e dei suoi abissi come forse l’avrebbe fatto Dostoevskji, ma anche attraverso l’obiettività dei fatti”. Collegandosi a questioni politiche che le stanno molto a cuore, a quella parte di società francese che “non viene né raccontata né rappresentata”.

La forza del film di Diop, sceneggiato dall’autrice con Amrita David e Zoé Galeron, sta nelle lunghe sequenze della camera di Claire Mathon che in aula inquadrano lo sguardo quasi ipnotico di Laurence e nel fatto che scommette sulla ricchezza, assai più che documentaria – almeno nel senso ristretto del termine – dei segni che emanano dai volti, dai corpi, dalle situazioni o dai paesaggi. Il film non è giustificazionista: Laurence è colpevole, a tratti manipolatrice, sfuggente e bugiarda su molti temi, ma in lei emergono i problemi delle figlie di madri migranti, il peso dell’esilio, il confronto con chi è rimasto in Africa. La maturità dello sguardo di Diop non è solo nel respingere in partenza l’idea dell’infanticida-mostro, e più in generale della mostruosità della psiche umana vista in superficie.

C’è in lei lo stesso atteggiamento della scrittrice che descrive nelle immagini, l’idea che la vita sia prima di tutto un’esperienza di ascolto, di osservazione. Anche l’evento all’apparenza più chiaro da definire, e quindi da giudicare, va raccontato nel suo svolgersi, e soprattutto dopo aver assistito ai fatti. “Ciò che ha reso questo film molto concreto è che ero ossessionata dal documentare il rituale della giustizia”, dice ancora Diop. E in questo processo, come accade spesso nei plot di Hitchcock, non si deve scoprire un fatto o un responsabile (certi già dalla prima sequenza) ma le ragioni, ancora misteriose, che hanno portato a ciò. Il mutamento, l’evoluzione sta nella testa di chi assiste (la scrittrice, ma anche il pubblico che vede questo film), mosso dal tentativo di capire realtà complicate. In fondo, anche se il paragone giudiziario è incongruo, viene in mente il reportage di Emmanuel Carrére sul processo agli assassini del Bataclan uscito su molti giornali europei: seduta dopo seduta, pagina dopo pagina, si dipana la ricerca di una verità che, forse è scontato, resterà in parte nascosta, inespressa. Ma che noi, che siamo nati “per seguir virtute e canoscenza“, abbiamo l’obbligo morale di cercare. Perché questo è il senso della vita.

Saint Omer, di Alice Diop con Kayije Kagame, Guslagie Malanda, Valérie Dréville, Aurelia Petit, Xavier Maly, Fatih Sahin, Berkay Akinci, Salih Sigirci, Atillahan Karagedik, Ege Guner

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