Marilynne Robinson saggista

In Letteratura

La raccolta di saggi di Marilynne Robinson “Quando ero piccola leggevo libri” affronta, con notevole intelligenza e da una prospettiva spesso insolita, temi di rilevanza morale, politica, culturale, teologica, letteraria senza che tuttavia uno di questi ambiti o interessi sia mai davvero isolabile dagli altri, tenendo sempre come sfondo comune una riflessione di lungo respiro sul valore della democrazia

La scrittrice americana Marilynne Robinson (Sandpoint, 1943) era poco conosciuta in Italia fino a poco tempo fa. Nicola Lagioia, che l’ha intervistata alla Fiera del Libro di Torino nel 2016, ha scritto di lei queste lusinghiere, altamente condivisibili, parole:

Leggendo e rileggendo i suoi libri ho più volte pensato – spaventandomi un po’, come accade quando proviamo a prendere sul serio una nostra sensazione in odore di iperbole – che la loro autrice fosse una delle cinque o sei persone al mondo attualmente più capaci di spostare l’arte del romanzo oltre i confini entro cui si riteneva fosse costretto, con lo stupefacente risultato di offrire al tempo in cui viviamo una possibilità.

Oltre a essere l’autrice riconosciuta di quattro importanti romanzi, Marilynne Robinson si è anche dedicata a un’intensa attività saggistica finora inedita in Italia. La scrittura dei saggi, perlopiù nati in occasione di lezioni o conferenze tenute presso università, ha impegnato i lunghi anni intercorsi tra l’esordio letterario con il romanzo Le cure domestiche (Housekeeping) del 1980 e la pubblicazione nel 2004 del primo volume della cosiddetta trilogia di Gilead, ma si è intensificata nell’ultimo decennio (in tutto la scrittrice ha pubblicato sei raccolte negli Stati Uniti, di cui quattro uscite dopo il 2008). Questa lacuna editoriale inizia oggi a essere colmata grazie all’iniziativa di minimum fax che ha da poco pubblicato nella collana Sotterranei una raccolta di dieci saggi riuniti sotto il titolo Quando ero piccola leggevo libri (When I Was a Child I Read Books, 2012) con la traduzione di Eva Kampmann.

Non è facile descrivere preliminarmente l’ambito in cui si collocano questi scritti. Viene da chiedersi, come già Nicola Lagioia a proposito dei romanzi, in presenza di cosa e dove ci troviamo: «Siamo nel campo dell’etica? Siamo nel regno della metafisica? O magari si tratta anche di psicologia (…)?», di un «tentativo di spingere l’indagine letteraria dentro il funzionamento della mente, o nei meccanismi di formazione della coscienza?» e leggendo i saggi simili interrogativi vengono persino rafforzati. Robinson affronta con notevole intelligenza e da una prospettiva spesso insolita e anche per questo tanto più preziosa, temi di rilevanza morale, politica, culturale, teologica, letteraria senza che tuttavia uno di questi ambiti o interessi sia mai davvero isolabile dagli altri. Lo sfondo comune è però costituito da una riflessione di lungo respiro sul valore della democrazia  (specie statunitense), delle sue istituzioni e delle sue radici ideali, politiche e teologiche. Chi scrive ha infatti «trascorso la maggior parte della sua vita a studiare la storia e la letteratura americana» ed è percepibile e sottesa a ogni pagina la preoccupazione circa il fatto che gli Stati Uniti vadano perdendo «l’ethos che ha sostenuto tutto ciò cui va attribuito più valore nella nostra civiltà», mentre «il nimbo dell’arte e del sapere e della riflessione » assomiglia sempre di più «a un’atmosfera che si va diradando» (e qui viene in mente un’altra scrittrice e pensatrice contemporanea ancora poco conosciuta e quasi per nulla tradotta in Italia, Annie Le Brun, in particolare Du trop de réalité, ma soprattutto Appel d’air). Nei saggi la scrittrice tocca quindi alcuni nodi maggiori del dibattito contemporaneo, in un posizionamento mai scontato e secondo un andamento mai davvero prevedibile (e una delle peculiarità dello stile di questi saggi risiede proprio nel fatto che nel cominciare a leggerne uno non si riesce mai a indovinare dove si andrà a parare). Alcuni in particolare conservano dalla loro prima stesura in forma di lectures una forte impronta orale, vicina in certi accenti alla predicazione (Robinson è di fede protestante congregazionalista e le è capitato di predicare in prima persona), seguendo piacevolmente le fluttuazioni di un pensiero lucido e rigoroso, pieno di pietà e ironia. Al contrario di quello che ci si potrebbe aspettare e di quanto sembra suggerire il titolo, la riflessione sulla letteratura non costituisce l’interesse primario del discorso, ma a ben vedere la sua importanza è insieme a quella del senso del sacro e della religione, l’intimo collante di queste pagine. A questo proposito va detto subito che la devozione della Robinson, o meglio quel sentimento da lei nominato “riverenza”, è un elemento forse inizialmente spaesante, ma costituivo e in fin dei conti molto ospitale del suo pensiero, anche per un lettore avulso da pratiche o preoccupazioni teologiche o religiose. Sebbene quindi non manchino i riferimenti alla sua esperienza di scrittrice, sia in quanto romanziera che come docente (dal 1991 al 2016 Robinson ha infatti insegnato scrittura creativa all’Iowa Writers’ Workshop), questi saggi si trovano più a condividere che a spiegare le grandi domande che animano la sua narrativa. Ricorrente e nodale è infatti «il problema riguardante noi stessi» ovvero l’interrogazione circa la natura umana (e la sua vulnerabilità all’errore), che è anche al centro delle preoccupazioni della Marilynne Robinson scrittrice di romanzi.

Spesso e volentieri la scrittura sembra animata dall’intento di porre apertamente in discussione e scardinare atteggiamenti intellettuali e quadri teorici con cui l’autrice si trova in palese e fondamentale disaccordo (e verso cui non lesina toni ironici, da pamphlet). Le sue critiche si appuntano spesso sul (presunto) razionalismo e sulle premesse riduzionistiche non di rado riscontrati in diversi campi delle scienze sociali e naturali, che portano a un’eccessiva semplificazione delle motivazioni e del comportamento umani o a rigettare indistintamente la religione come un fattore sintomatico di arretratezza culturale e ormai sconveniente in qualsiasi riflessione teorica («esiste una tendenza, ritenuta molto razionale, a ragionare partendo da un insieme ristretto di interessi, poniamo la sopravvivenza e la procreazione, che dovrebbero governare la nostra vita, e poi trattare tutti gli elementi che non rientrano in questo modello come una massa anomala, estranea a ciò che siamo e di cui forse è meglio fare a meno»).

Nel primo saggio, che significativamente si intitola Libertà di pensiero, ad esempio Robinson ironizza sul tipo di erudizione (e il conformismo) proposto da certa cultura accademica, e sulle basi epistemiche che al momento della sua formazione universitaria (e forse ancora oggi in parte) costituivano lo zoccolo duro dell’insegnamento rivolto agli studenti dei primi anni delle discipline umanistiche. Non è l’unico caso in cui Robinson arriva a mostrare come nuovi dogmatismi (a bene vedere di lungo corso, di cui ora si possono osservare le piene conseguenze e implicazioni non solo estetiche e teoriche, ma anche politiche) abbiano finito per imporsi nel dibattito contemporaneo in forme depositate e ormai inerziali, fino a sembrare quasi indiscutibili. In questo e altri saggi (come quello intitolato Cosmologia) non si ferma quindi a indicare i limiti della psicologia comportamentale e del freudismo (su cui ritorna, da una prospettiva lontana ma convergente, in questi giorni anche Paul B. Preciado), ma pone in relazione l’abbandono e anzi il disconoscimento della religione e delle sacre scritture con l’adozione di modelli di interpretazione del mondo provenienti dall’antropologia e certo a loro volta non innocenti, con il loro portato storico occidentale e coloniale, anche nella proposta di una visione troppo spesso cinica dell’umano:

Non sono la prima a suggerire che l’antropologia è emersa nel pensiero occidentale in un periodo infausto, caratterizzato dal colonialismo e dalla cosiddetta scienza delle razze. Ma a quanto pare sono praticamente l’unica a essere convinta che, per quanto primitiva, questa antropologia continua a influenzare il nostro modo di concepire la natura umana. E poiché conserva l’antica autorità attribuita alla «scienza» del tempo in cui nacque, non serve da ipotesi o modello teoretico, bensì da certezza assoluta.

In altri saggi di notevole impegno come Apri largamente la tua mano e Il destino delle idee Robinson si confronta quindi dialetticamente con una certa tradizione di pensiero novecentesca (di cui non manca di rilevare la matrice antigiudaica) che ha teso a marginalizzare e rigettare in blocco l’Antico Testamento, rendendo ai suoi occhi la presenza divina nel Pentateuco quella del «Dio del testamento svilito». Le riflessioni condotte secondo questi presupposti sarebbero spesso accomunate dal fatto che non solo tendono a fare di tutte le religioni «una poltiglia», ma il più delle volte non si appoggiano realmente sui passi delle scritture se non per deformarne il senso, finendo per non reggere a verifiche minuziose. Robinson si propone quindi di effettuare queste verifiche, nell’ottica di un recupero di quelle radici culturali americane (incarnate per lei oltre che dalla Bibbia, anche dagli autori del revivalismo teologico e del cosiddetto Rinascimento americano) basate su un «ethos di vera giustizia sociale». É infatti secondo la scrittrice questo principio di giustizia e di generosità incondizionata a informare, con le dovute contestualizzazioni, la legge mosaica, appoggiandosi anche sull’interpretazione misconosciuta degli scritti di un teologo a lei caro come Giovanni Calvino (tenuto ben distinto dal calvinismo successivo). Attraverso questo snodo Robinson rivendica tutti quei provvedimenti e quelle istituzioni, dati per scontati e oggi posti sotto attacco, dal servizio postale nazionale alla concessione di fondi demaniali per la pubblica istruzione (Land-grant universities), allo Homestead act («il testo legislativo più poetico dai tempi del Deuteronomio, cui somiglia») al sistema dei parchi nazionali e alla previdenza sociale, che  «erano e sono massicce distribuzioni o redistribuzioni di ricchezza volte a favorire la popolazione in generale» e che hanno fatto sì che gli Stati Uniti non siano mai stati un paese «particolarmente» (forse ormai noi diremmo “perfettamente”) capitalista. In L’austerity come ideologia il fondamento etico della munificenza serve quindi a condannare senza appello tutte quelle politiche economiche poste sotto il vessillo dell’austerity e volte al definanziamento (o quel che è lo stesso alla privatizzazione) dei luoghi di cultura e di trasmissione del sapere. Anche in questo caso problema è inquadrato da Robinson da un punto di vista largo e lungimirante, come qualcosa che riguarda la comunità intera, le sue più preziose risorse e il problema della sua eredità materiale e immateriale (riguardo ai tagli alle università pubbliche la scrittrice osserva: «sembra quasi che l’idea di una comunità storica sia morta senza aver fatto testamento, che tutte le sue ricchezze siano abbandonate al saccheggio»).

Alla base del suo argomentare Robinson pone alcune delle sue letture più care (principalmente la Bibbia, alcuni classici e poeti come Emily Dickinson e Marianne Moore) e in questo senso solamente il titolo della raccolta, che allude alla sua formazione intellettuale da bambina, acquista pienamente significato.

Nel saggio (quasi) eponimo, Quando ero piccola, si trovano oltre a un breve autoritratto della lettrice (leggi scrittrice) da giovane, della sua formazione scolastica in Idaho e dell’immediata predilezione per «i libri vecchi e grossi e duri», anche limpidi dettagli sulla genesi dei personaggi del suo primo romanzo, fortemente legati, come lei, allo «spirito dell’Ovest», che nel suo impulso ideale, nell’immaginario popolato di margini e di frontiera è per Robinson il «figlio orfano di un secolo magnifico». Si può quindi leggere a proposito di Sylvie: «La mia unica obiezione all’eroe americano era il suo essere inevitabilmente maschio, di un maschio tanto degradato da passare il segno. Allora ho creato un’eroe donna a sua volta outsider e forestiera».

La metafora utilizzata dall’insegnante di latino del liceo, di una statua rinvenuta da un pescatore nel mare senza che egli possa sapere da dove provenga o a quale uso fosse destinata, racchiude in sé perfettamente, raffigurando una «cosa tanto umana in un luogo tanto freddo», il senso profondo di un apprendistato umano e letterario avvenuto in una terra “imprevista”:

Sono andata al college nel New England e ho vissuto nel Massachusetts per vent’anni, e a mio avviso la fatica più grande del mondo – in effetti, potrebbe essere impossibile – è persuadere quelli dell’Est che crescere nell’Ovest non è disastroso dal punto di vista intellettuale.

Viene quindi esplicitata l’idea di una cultura che non si realizzi in un sistema di distinzione e ripetizione sociale («Almeno a quell’epoca la società dell’Idaho sembrava priva di quel senso di classe sociale che altrove trasforma la cultura in un sistema di segni e di parole d’ordine, più o meno senza il benché minimo significato se non quello di identificare gruppi e sottogruppi»), ma come qualcosa di cui ci si possa appropriare per fabbricarsi ciò che ci occorre personalmente per vivere. A proposito dell’educazione di Ruth (voce narrante in Le cure domestiche) cui Robinson ha prestato la sua, scrive: «Usa quel che sa, come usa gli occhi e le mani. Si appropria delle rovine di Cartagine ai fini delle sue speculazioni personali. Ero convinta che il sapere che gli insegnanti mi inculcavano fosse destinato a un uso del genere». Trasferendo la sua esperienza su un piano sociale quindi, l’accesso universale all’istruzione universitaria avrebbe l’obiettivo specifico di «formare un’élite così vasta da rendere il termine superfluo, di formare una classe dominante che coincidesse praticamente con la popolazione stessa».

Anche nel saggio Immaginazione e comunità, tra i più belli del volume, la scrittrice parte dal suo rapporto con i libri e con la sua biblioteca, per poi arrivare a una personale e ispirata definizione di democrazia. Secondo Robinson infatti la sua biblioteca privata e la comunità si legano in vari modi: innanzitutto per il fatto che entrambi condividono una lingua che è una «forma di arte collettiva», ma soprattutto sulla base di un’esperienza autobiografica: i libri hanno insegnato a Robinson tutto quello che sa e soprattutto le hanno instillato «il senso del possibile, che è il grande servizio – e troppo spesso, quando è avara – il grande disservizio – che una comunità rende ai propri membri».  Esattamente come scrivere, immaginare i personaggi, consiste per lo scrittore nel «percepire l’impatto della realtà su un sistema nervoso che non è assolutamente il suo», leggere, secondo Robinson, ci insegna il rispetto e l’amore per l’altro immaginato (the imaged other), «l’uomo, la donna o il bambino che non conosceremo mai» che fondano il riconoscimento reciproco nella comunità. E la democrazia «nella sua essenza e nel suo spirito, è amore e identificazione immaginativi nei riguardi di una comunità con la quale, sovente e per molti aspetti, ci si potrebbe trovare in profondo disaccordo». Anche l’idea della comunità come frutto dell’immaginazione potrebbe trovare un riscontro poetico in Emily Dickinson (penso in particolare a I dwell in Possibility).

Innumerevoli gli spunti, le massime pieni di acume, su cui si può continuare a riflettere a distanza di tempo dalla lettura. Dalla definizione dell’ideologia come «un righello dal bordo dritto in un universo frattale», alla riflessione sull’impiego del termine «eterogeneo», prelevato dalla geologia per essere impropriamente utilizzato in ambito sociologico, alla suggestione del pensare la poesia come un modo «assai rispettabile di impiegare la solitudine». Anche quest’ultimo pensiero mostra chiare ascendenze nella poesia di Dickinson e non a caso, in un’intervista recente la scrittrice, alla domanda circa quale autore del passato sentisse più vicino, abbia risposto proprio con il suo nome, specificando: «è una perfetta fusione tra un poeta e un metafisico».

Anche su questo versante della sua produzione Marilynne Robinson si conferma quindi come una voce di notevole impegno, originalità e spessore. Alcuni potrebbero trovare ostici i riferimenti culturali spesso poco o affatto noti (e avrebbero senz’altro giovato alcune note per il lettore italiano su personaggi come Burrhus Skinner, Jonathan Edwards, William Tyndale, Ayn Rand o Peggy Noonan o su cosa sia un Chautauqua o ancora sul sistema statunitense delle Land-grant universities e sulla storia appassionante dell’Underground railroad) o a tratti spiazzante il suo fervore religioso e il fatto che l’autrice non esiti a usare la parola anima. Ma in fin dei conti anche questi apparenti ostacoli hanno più di un merito, ci costringono a farci domande su alcune cose su cui non siamo più abituati a riflettere come il nostro personale rapporto con il sacro ed eventualmente sul perché della sua scomparsa dai libri che abitualmente leggiamo e sulla possibilità di averne nostalgia.

Roxana Robinson sul Washington Post ha elogiato il linguaggio di questi saggi per la sua precisione e la sua eleganza, paragonandoli significativamente a «qualcosa di gratificante e atteso, anche se ce ne rendiamo conto solo adesso», «come una sorsata d’acqua attinta direttamente dalla sorgente».

La loro indubbia freschezza, la loro eccentricità persino nel panorama letterario contemporaneo (americano e non solo), derivano infatti sia dallo stile che da qualcosa di più profondo, e strettamente inerente al punto di vista dell’autrice. Il periodare elaborato e meditativo tradisce infatti una rara impronta classica (oltre che biblica, che in Quando ero piccola l’autrice riconosce spiegando come abbia letto molto più Cicerone che Hemingway e come questo si traduca nella sua scrittura). Ma soprattutto l’elemento di scarto è dato dal fatto che Robinson non si posiziona e non posiziona quindi la letteratura in uno stato di minorità rispetto agli altri campi o le altre forme del sapere, ma anzi senza neanche il bisogno di argomentare, talmente è naturale e forte in lei questa intuizione, la colloca dove anche noi possiamo ancora sentirla: al centro vitale di ogni altro discorso. A partire dalla consapevolezza che pur non sapendo perché esattamente ne abbiamo bisogno, «il fatto che la creiamo e la bramiamo è fuori questione».

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