PordenoneLegge 2018 – Sette voci per un itinerario

In Letteratura

Romanzi, saggi, invenzioni: un itinerario in sette tappe tra le giornate della XIX edizione di PordenoneLegge, una vera festa del libro con gli autori.

PordenoneLegge 2018: diciannovesima edizione. Oltre seicento appuntamenti, cinque giorni di incontri, mostre, confronti, parole.
Mappare tutto: non facile.
Raccontare tutto: impossibile.
Ci abbiamo provato, qui di seguito, con un itinerario scelto: tra storie in rima per cambiare il mondo, sguardi al passato per capire il presente, immaginazioni gotico-tropicali e seconde vite di personaggi dal destino imbelle.

Delle code pazienti fin dalle nove del mattino, dei libri venduti e firmati come le ciliegie del manifesto, degli esordi e dei big, dei poeti e dei saggisti (e perfino della pioggia che ha graziato il programma) toccherà immaginarsi. Ma è stata, davvero una bella Festa del libro con gli autori.

 

foto Alberto Bogo

Tiziano Scarpa, Una libellula di città

Trenta racconti in rima pubblicati da Minimum Fax. Tempo di gestazione: quasi vent’anni.
Protagonisti: animali, alberi e uomini del margine. Elefanti con proboscide di ottone, alberi che non vogliono più stare radicati nel bosco ma sognano una aiuola solitaria, uomini che partoriscono coyote da uno specchio, per dirne qualcuno.
Tutti mossi da un comune desiderio di cambiamento.
Sulla scia della lunga tradizione italiana dei racconti fantastici, strani, meravigliosi a partire da Lo cunto de li cunti fino ai più recenti Landolfi, Buzzati e Mari, con quel po’ di levità ribalda modello Toti Scialoja/Bruno Munari.

Ma non pensate a un libro per bambini.

“I miei protagonisti sono sostanzialmente dissidenti: non sono d’accordo su come è impostata la loro specie, e cercano una possibilità per sfondare le cose come stanno. Pagandone le conseguenze.
In fondo, si tratta di storie che hanno un carico drammatico forte: per lungo tempo mi sono chiesto come renderle con un po’ di leggerezza, evitando il patetico. Le rime mi hanno aiutato.
Ho lavorato gomito a gomito con i rimari della Hoepli, della Garzanti e della Vallardi.
È come se io e la lingua vivessimo delle nottate da amanti: in trance puro. La lingua mi tiene bordone. Purtroppo mi è successo solo trenta volte in vent’anni, però mica è poco! A un certo punto suona il campanile delle cinque del mattino, delle sei, e io mi dico: ma come?”

È il rovescio del mondo?
“Penso che un artista per prima cosa debba credere allo slancio della sua visione. E sicuramente, sì, sono storie di misantropia, intolleranza per il conformismo, dissidenza. C’è un aspetto satirico, di cui mi sono fidato. Non sono andato a cercare in prima battuta la critica sociale. Certo, se poi da fuori, dopo, nella lettura, si riesce a scorgere significati ulteriori, grasso che cola”.

foto Alberto Bogo

John Banville, Isabel

Centoquarant’anni dopo la pubblicazione di Ritratto di signora, Isabel Archer, la creatura di Henry James, torna a vivere in un sequel d’autore. In Italia lo pubblica Guanda, e a prendersi la briga di dare una seconda vita alla tormentata signora Osmond ci pensa uno scrittore di levatura come John Banville.

E tutto parte da una domanda di sua moglie.

“Riscrivere Henry James? Un atto di presunzione imperdonabile. Poi però mi sono riletto il romanzo, e mi sono detto: ma perché non cercare di aiutare Isabel? Mi sono divertito tantissimo; ho lavorato in uno stato di sospensione della coscienza, come se fossi sotto ipnosi. A volte guardavo la mia mano scrivere da sola”.

Ma quindi questa è una storia di riscatto?
Ritratto di signora termina con una situazione di profonda tristezza, di umiliazione: la mia idea era quella di far vivere ad Isabel una seconda possibilità, non però per un sentimento di vendetta. Volevo mettere a posto le cose. Ce l’ho fatta? Macché. Quello di James è un romanzo terribile: lui sapeva cos’era la vita e cos’era il male, ovvero la costrizione imposta da persone ad altre persone. Isabel è stata posseduta, è stata imprigionata. Io volevo per lei una nuova vita, ma non ci sono riuscito. Infine, posso dire che quello di James e il mio sono entrambi romanzi sulla natura del male, e mi è venuto di nuovo un finale ambiguo.
A questo punto spero che ci sarà un sequel del sequel. E, sinceramente, mi auguro che sia una donna a scriverlo: non perché le donne possano fare di Isabel una lettura diversa, ma perché hanno un approccio differente”.

Cioè?
“La mia idea personale di inferno è una cena, magari seguita da una festa, con soli uomini. Niente di più noioso di questo eccesso di testosterone e corollario di barzellette sporche. Ma metteteci insieme anche una e una sola donna, e tutto è destinato a cambiare”

 

Andrea Marcolongo, La misura eroica

Un appello al mondo di oggi che parte dalle nostre radici. Non un libro che parla dell’antico, ma che ai più antichi dei nostri dubbi si rivolge: cosa vuol dire partire? cosa vuol dire abbandonare? cosa vuol dire rimanere? a cosa siamo destinati? chi vogliamo essere?

Dopo La lingua geniale, confessione d’amore per una lingua – il greco – che non ne vuole proprio sapere di morire, Andrea Marcolongo pubblica per Mondadori un nuovo lavoro, che parte dal mito degli Argonauti.

“La prima nave costruita da mani umane e parte, Argo, non lo fa per una guerra, ma per una ricerca, per la scoperta: il racconto del viaggio per tappe e per acquisizioni successive ha formato il nostro modo di vedere. E noi, oggi, vogliamo sempre stare a bordo di un piccioletta barca, come ci chiede Dante, o vogliamo andare su di un naviggio?”

 

Ma chi sono gli eroi di ieri?
“I Greci non valutavano mai attraverso il tempo, ma dal loro modo di porsi di fronte al tempo. Eroe era chi sceglieva di essere sé stesso, di non tradirsi mai, di conoscersi, di agire con mai niente di troppo, di non temere di conoscere il proprio livello per spingersi sempre più in alto. Eroe non è, per il mondo greco, chi vince o chi nasce tale”

Cos’è una misura eroica nella vita di oggi?
“Siamo al mondo per fare le cose grandi, ognuno secondo la propria misura (che sia cucinare una torta meravigliosa, o scrivere libri, o dedicarsi alla grammatica greca): non per scendere al livello della mucillagine. Certo, lo spettacolo di chi diventiamo quando andiamo fa paura, ma serve mettersi in viaggio per arrivare alla meta – e questa è proprio una splendida parola. La vedete, la meta, a Roma: in mezzo al Circo Massimo, mezza sepolta nell’erba. Non è il punto di arrivo: è il punto oltrepassato il quale non è più possibile tornare indietro. Questo significa che devi essere vivo per resistere”

Conclusione?

“Non esiste al mondo uomo così vigliacco che Amore non possa trasformare. Lo ha detto Platone, duemilacinquecento anni fa. Ma io ne sono convinta anche oggi”

(Applausi a platea stracolma, e una fila di libri da firmare lunga decine e decine di volti sorridenti).

foto alberto bogo

Margaret George, Nerone

Un imperatore che voleva essere artista, un adolescente che si ribella alla madre, un progettista dalle idee ambiziose e visionarie, un despota feroce, un uomo la cui storia è stata tramandata dalle fazioni a lui avverse. Ma chi è stato davvero Nerone? È possibile oggi raccontarlo da dentro?

Margaret George ha lavorato cinque anni, ed ora esce per Longanesi il suo nuovo romanzo storico.

Per prepararlo, è stata otto volte in Domus Aurea e, all’ultima, si è commossa indossando gli oculus che l’hanno proiettata nella ricostruzione virtuale dell’architettura neroniana.

 

In mancanza di fonti e di fronte a tutto quello che è stato scritto e detto su Nerone, non si è sentita paralizzata?
“Ho una regola ferrea: darmi dei tempi. A metà mi fermo e mi costringo a cominciare a scrivere. Bisogna imparare a gestire il sovraccumulo”

Perché proprio Nerone?
“Sono affascinata dai personaggi che stanno in bilico. E lo trovo molto moderno: in fondo, qualsiasi adolescente maschio ha, nei confronti della propria madre, un rapporto complicato. Lui aveva 16 anni quando si è trovato sulle spalle un impero: non aveva più voglia di obbedire ad Agrippina, che per di più non considerava come una cosa seria la sua aspirazione all’arte”.

Ma è un tentativo per riabilitare Nerone?
“È piuttosto un intento di dare strumenti per percepirlo in modo più completo, più umano: al di fuori della satira o del disprezzo. Se potesse parlare si riabiliterebbe da sé: in fondo, la sua storia è stata scritta dai suoi nemici”

Non trova che ci siano delle somiglianze tra l’imperatore e qualche personaggio della nostra attualità?

(Margaret George sorride e prende fiato).
Poi risponde.

“No, per immaginarmi da dentro l’imperatore Nerone non ho pensato a nessun personaggio contemporaneo. Se vuole saperlo, ho iniziato a scrivere ben prima dell’avvento di questa amministrazione Trump. Benché, ecco, devo dire che questa domanda mi viene posta spesso…”

 

Andrés Barba, Repubblica luminosa

Vi toccherà leggervi tutto il libro di Barba per scoprire il perché di questo titolo: la voce narrante è quella di un testimone dei fatti che, a vent’anni di distanza, racconta di quando a San Cristóbal, all’improvviso, si materializzarono 32 bambini violenti, selvaggi, scatenati e totalmente ignoranti di qualsiasi lingua conosciuta. La nave di Teseo pubblica la parabola gotico-tropicale dell’autore spagnolo: una riflessione morale e pedagogica sul senso dell’educazione sociale e sulla diabolica fandonia illuminista della connaturata felicità dell’infanzia.

“Stavo traducendo da un anno Cuore di tenebra di Conrad quando mi è capitato di vedere il documentario Children of Leningradsky: bambini che vivevano nelle fogne e avevano creato una società orizzontale, basata su una utopia anarchista. Qualcosa di estremamente diverso rispetto alla società verticale degli adulti. Ho cominciato a pensare: l’infanzia è il luogo in cui vogliamo tornare continuamente, ma basta pensarci un po’ seriamente per ricordare che è anche, in molti sensi, un inferno. L’infanzia è sempre una invenzione degli adulti: cosa rappresentano i bambini per noi e come reagiamo quando non fanno quello che ci aspettiamo – ma, per esempio, fanno esattamente i bambini?”

C’è una morale?
“C’è una morale, ma non del moralismo. Voglio dire: alla fine, la letteratura moralistica ti fa dire cosa è buono e cosa è cattivo in una storia. È per esempio, nel Signore delle mosche, l’atteggiamento di Golding,: che era protestante, e che intendeva dare un monito ai lettori (del tipo: ecco cosa vi succederà se non imparate ad essere razionali). Nel mio libro, no. Ho cercato di far entrare nel discorso del romanzo il numero massimo di voci possibili: testimonianze, articoli, diari, relazioni universitarie sono tutti materiali che concorrono a dare le dimensioni di questa storia. Io penso che la verità alla fine è un consenso; una verità consensuale non è necessariamente una verità moralistica, ma provoca finalmente un riconoscimento dell’ambiguità.

La riflessione di fondo, voglio dire, è questa: quale è la società più naturale per noi esseri umani? Forse i bambini, lasciati soli, sarebbero in grado di creare una struttura più umana? Non dimentichiamoci che è dalla Rivoluzione Francese che il bambino è istituzionalizzato: cioè si lavora per fargli terminare di essere il più velocemente possibile un bambino, e trasformarlo in cittadino”.

foto Alberto Bogo

Rosella Postorino, Le assaggiatrici

Un articolo di un giornale tedesco racconta la storia di una donna, ormai anziana: è stata una delle assaggiatrici di Hitler, una delle cavie scelte per mangiare il suo cibo ed eventualmente crepare al suo posto. La testimonianza è labile, ma potente. Rosella Postorino ne è profondamente colpita, e si mette sulle sue tracce: la stessa settimana in cui riesce finalmente a trovare il suo indirizzo, e a scriverle, la donna muore. Ha 96 anni.

Prima è la disperazione; poi la storia, troppo potente per essere ignorata, decide di uscire in forma di romanzo, libera da condizionamenti: forte del fatto, tremendo e lucido, che il nazismo è un’ambientazione che appartiene a qualsiasi epoca. Così nasce Le assaggiatrici, pubblicato da
Feltrinelli.

Fresco di Premio Campiello.

“Mi è capitato di trovare echi linguistici, oggi, di cose che sono successe allora: persone che dovevano fuggire, ma che non sempre potevano, e che quando andavano non venivano accolte da paesi che oggi noi giudichiamo democraticissimi. Perché prima ci siamo noi. Questa consapevolezza mi ha fatto venire i brividi: è possibile ancora oggi essere di fronte al compromesso con il male? È chiaro che ogni volta che siamo vittime di sopraffazione siamo nel male.
La forza rende oggetto sia chi la esercita sia chi la subisce”.

Il male passa attraverso il cibo delle assaggiatrici?
“Mangiare è un atto profondamente umano. Ma è anche una metafora del fuori che entra dentro: il grado zero dell’uomo, senza il quale non possiamo vivere. Per vivere dobbiamo assaggiare il mondo: accettare di farci avvelenare. La mia protagonista non è nazista, ma ha accettato di rischiare la sua vita per il capo di tutti i nazisti”.

Rosa è docile?
“Rosa va a compromesso col male. Il difficile di questo libro è stato darle la prospettiva: lei racconta dopo che le cose sono successe, dunque sa che quello che ha vissuto era male; tuttavia ho voluto che la narrazione fosse in un presente storico, in presa diretta. Lei ha fame e rischia di essere avvelenata per salvare Hitler, non sa che fine ha fatto suo marito e va a letto con un nazista, si sente di aver tradito il padre anti-nazista eppure non è nazista. Che vuol dire, questo? Foucault direbbe che i corpi sono funzionali a un sistema sociale. E io non credo che il male abbia una consistenza ontologica, tanto quanto il bene”.

 

Mariapia Veladiano, Lei

Dopo dodici anni di studi teologici, Mariapia Veladiano, per scelta, non ha scritto una riga di teologia: perché è convinta che il ragionamento su certi temi (a partire da quello del Male), non può essere un cerchio che si chiude, ma che sia invece un’idea continua di ricerca, come il finale sospeso di un romanzo.

Non è un caso, insomma, se nel portare avanti la sua riflessione ha scelto proprio di scrivere un romanzo, Lei , pubblicato da Guanda: per parlare di una bambina che ha dovuto imparare in fretta a diventare donna e ad essere mamma, che ha dovuto fare i conti con qualcosa di impensabile, che ha visto la nascita di suo figlio nel momento in cui i figli innocenti di tutti gli altri venivano uccisi.

“La Madonna? È una che contempla il Male del mondo. Da qui parte tutto”.

E il figlio?
“Lei non sa chi sia questo figlio, non sa cosa gli accadrà come succede a tutte le mamme del mondo; però fa un atto di totale fiducia nella vita, accettandolo. Le donne del tempo passavano un terzo della loro vita a fare il pane. Quando Gesù se ne va, lo fa con un gesto fondamentale: il gesto dei gesti è spezzare il pane – lo stesso visto fare mille volte da sua madre. Io ci penso a questo particolare, e mi sembra che non sia stato considerato con tutto il peso che merita”

Ma che salvezza c’è per Maria?
“Nel libro in tanti se lo chiedono. Il fatto che la domanda sia difficile non ci abilità a risposte facili. Perché il tema è che, di fatto, il Male non se n’è andato dalla terra.
Una risposta classica della teodicea è perché Dio sa perché. È, consentitemi, una risposta enormemente irriverente: vuol dire che noi non contiamo nulla, siamo come i topi sulla nave.
Oppure, dice sempre la teodicea, però noi siamo ancora qui. Provate a dirlo a quei sei milioni di ebrei morti in modo atroce, per esempio”.

Allora: cos’è che salva la vita?
“L’umanità: togliere il male dentro di noi, saper vedere l’altro. Perché Giuda uccide Gesù? Nel mio libro Giuda dice: io non lo capisco. Maria gli risponde: io ho visto con i suoi occhi l’amore per il mondo – tu hai visto i pericoli.
Allora, in tutto quello che è accaduto nel tempo, mi chiedo: dov’è che si è salvata l’umanità? Ogni volta che si è stati capaci di cambiare la propria vita, di fare uno scarto, di guardare agli altri non dal proprio preconcetto, senza giudicare. L’amore è più grande dei nostri giudizi”.

 

Vi state chiedendo perché?
Idealmente, il motivo lo dice Marguerite Duras, citata d’imperio:

“l’amore è magari una frattura nelle logiche dell’universo”.

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