Decameron, un “fumetto” del Trecento

In Cinema

Più linguistica che filmica, coraggiosa, originale, la scelta di che portare sullo schermo 5 novelle poco note. E la peste a Firenze è un inizio folgorante

Un intelligente, affascinante esperimento letterario

Là dove gli eroi dei fumetti non riempiono più i cinema, arrivano in soccorso i padri della letteratura. Se la tivù ha resuscitato Dante, con la forza dirompente del “messia” Benigni, il cinema oggi celebra la penna del Maraviglioso Boccaccio. In attesa del prossimo film della Marvel, facciamo di necessità virtù.

E tanto meglio se gli esegeti sono anche in questo caso due toscani doc come i fratelli Taviani. Ridanno vigore al dialetto, comprendono lo spirito del testo e lo riportano alla luce. Come Benigni con la Commedia, sanno riprodurre il tono di una battuta senza snaturarne il significato. D’altra parte una novella di Catalina girata in Veneto non avrebbe avuto molto senso.

Durante qualche panoramica sulle maravigliose colline toscane però sorge il dubbio che i due registi si siano lasciati guidare più dall’amore per la loro terra che dalla potenza descrittiva del Decameron. La crudezza dei personaggi di Boccaccio a tratti viene offuscata dall’autocompiacimento dei Taviani. Evidentemente avevano in testa un film del genere da parecchio tempo, e quale occasione migliore di esprimere la ricchezza culturale del Gran Ducato per bocca di un loro illustre predecessore.

La loro affinità elettiva toscana, del resto, dà anche i suoi frutti. Dell’umana miseria, che nella narrativa italiana ha trovato così tanta fortuna, i due registi scelgono cinque novelle, tra le quali spicca quella di Federigo degli Alberighi (Josafat Vagni).

Il nobiluomo, pazzo d’amore, impegna tutto il suo patrimonio nella conquista dell’amata Giovanna (Jasmine Trinka), lei finalmente va da lui con l’intento di chiedergli in dono un falcone tanto caro al figlio, ma lui glielo cucina, non avendo più nulla da offrirle per pranzo. La pazzia dell’innamorato e il teso gioco di sguardi tra i due seduti a tavola riflettono, qui sì, lo stile vivido del capolavoro di Boccaccio. E anche il ritratto iniziale di Firenze colpita dal flagello della peste ha il potere evocativo dell’opera neorealista.

Prima che i dieci novellatori decidano di fuggire in campagna, infatti, viene rappresentato il terrore di una città ormai distrutta, dominata da una piaga tra le più tremende. È un’introduzione lunga, in cui lo sgomento è palpabile: e sono i trenta minuti più riusciti del film.

I Taviani devono essere due lettori voraci. Da un lato il loro cinema rimane inchiodato a schemi letterari che poco hanno a che fare col grande schermo, dall’altro sanno proporre sempre riletture originali, intelligenti, in questo caso spiazzanti. Ancora una volta dimostrano il loro tocco, la loro estraneità alla tradizione addirittura, quando, come ora, la fronteggiano a viso aperto. Hanno scelto novelle poco conosciute, le hanno raccontate a loro modo, si sono lasciati trasportare dal dialetto come pochi altri avrebbero saputo fare.

Eppure sono rimasti invischiati nel rassicurante solco della letteratura, senza sperimentare fino in fondo le possibilità che offre il cinema.

Federico Castelnovo

Da Pasolini ai Fratelli Taviani, via Boccaccio

Il Decamerone dei fratelli Taviani finisce là dove cominciava quello di Pasolini, e ne costituisce una sorta di prequel girato quasi mezzo secolo dopo. In questo paradosso temporale e artistico si nasconde la natura profonda dei due film, che andiamo subito a raccontarvi.

Pasolini prendeva, dal Boccaccio, un gruppo di novelle particolarmente adatte alla sua lettura antropologica e sottoproletaria, le trasferiva dalla Firenze rinascimentale a una Napoli vitale e quasi selvaggia, e tralasciava completamente la cornice creata da Boccaccio medesimo.

Paolo e Vittorio Taviani, estremizzando un poco il discorso (non tantissimo), fanno il film sulla cornice: in Maraviglioso Boccaccio la storia dei dieci giovani (sette ragazze e tre ragazzi) che abbandonano una Firenze in preda alla peste per rifugiarsi in campagna prevale nettamente sulle storie che i dieci, poi, si raccontano.

Verrebbe quasi da dire – è una forzatura, ma non eccessiva – che le novelle potrebbero non esserci. A parte quella di Calandrino e dell’elitropia, pietra magica che rende invisibili, non sono tra le più famose fra le cento scritte da Boccaccio. Ed è quasi superfluo aggiungere che i Taviani non usano le più “licenziose”, quelle sessualmente più esplicite che invece Pasolini raccontava con gioia.

Ce n’è una sola, quella della badessa Usimbalda che commette il grave errore di rimproverare la novizia Isabetta – colta sul fatto con il suo ragazzo – tenendo in testa, anziché il velo, le mutande del suo amante. È un pezzo abbastanza divertente, soprattutto per merito di Paola Cortellesi alla quale non pare vero di poter interpretare un simile personaggio immerso in un simile equivoco. Ma, sia chiaro, lo fa con grazia e ironia: è forse la novella in cui sia i Taviani, sia gli spettatori, si divertono di più.

Assai meno riuscita, ad esempio, è quella comica di Calandrino: Kim Rossi Stuart è eroico nell’andare in contro-casting, imbruttendosi e facendo la faccia da tonto, ma il problema ovviamente non è lui, il problema è la messinscena delle gag provocate dalla sua (presunta) invisibilità, per le quali ci sarebbe voluto un Buster Keaton. Non è roba da Taviani, e si vede.

Ma ciò che conta, dicevamo, è la cornice. Qui i Taviani cercano la metafora “alta”, e la centrano in pieno. La peste è sinonimo di tutto il Male che c’è nel mondo, è l’impazzimento di una civiltà che all’improvviso perde centro, senso, identità. Ed ecco che dieci giovani, la speranza del futuro, scelgono di dire “no”.

Certo, lo fanno dall’alto di una situazione economica favorevole – sono di famiglia ricca, vanno a rifugiarsi in un casale stupendo – ma non portano con sé né servitù né agi; tentano anzi la somma impresa di riscrivere le regole della convivenza, di ricreare da zero quel vivere civile che la pestilenza ha cancellato. Il raccontare, così come l’astinenza sessuale (non per moralismo, ma perché le quattro ragazze “single” non provino invidia), diventa parte di queste regole.

Che poi i Taviani privilegino novelle edificanti – ce ne sono, nel Boccaccio – rispetto a quelle più maliziose è ovviamente una scelta, ma quasi secondaria. Il messaggio forte del film è che bisogna credere nella gioventù e nella sua capacità di rigenerarsi, là dove gli adulti, i padri, hanno fallito. E in questo senso la pur tristissima novella del duca Tancredi e di sua figlia Ghismunda è la più potente, la più paradigmatica.

Fare la graduatoria degli attori, in film così corali, rischia di essere un gioco molto sgradevole. Della Cortellesi abbiamo detto, assieme a Vittoria Puccini (la donna “risorta” e contesa, Catalina) è forse la presenza più forte. Ma cavalchiamo la sgradevolezza e gridiamo al mondo che i dieci giovanissimi della cornice sono mediamente più freschi, bravi e convincenti delle star che popolano le novelle.

Tra di loro ci sono anche alcuni volti già noti, come Miriam Dalmazio, Fabrizio Falco e Rosabell Laurenti Sellers: ma sarà bello, nei prossimi 10-20 anni di cinema italiano, rincontrarli e ricordarsi di averli già visti, nella Firenze del 300, nel “maraviglioso” Boccaccio dei fratelli Taviani.

Alberto Crespi

Maraviglioso Boccaccio di Paolo e Vittorio Taviani, con Paola Cortellesi, Carola Crescentini, Vittoria Puccini, Kasia Smutniak, Jasmine Trinka, Miriam Dalmazio, Kim Rossi Stuart, Lello Arena, Riccardo Scamarcio, Michele Riondino

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