Quando il cinema illumina gli angoli bui

In Cinema, Weekend

Tre film, quello che sbanca i botteghini e tocca le generazioni firmato da Paola Cortellesi, l’ultimo di Woody Allen e il bel thriller psicologico ‘Anatomia di una caduta’ per ragionare di relazioni, patriarcato e potere

No, mio padre non ha mai preso a ceffoni mia madre, e la casa dove abitavamo era molto più bella e confortevole di quella di Delia e della sua famiglia.

La nostra, di famiglia, era invece molto più piccola: noi tre più la nonna cieca – e, come si diceva allora, un po’ arteriosclerotica – alla quale mia madre dava del lei.

Il capofamiglia era indiscutibilmente mio padre. Del resto era lui incaricato, credo per legge, di firmare le mie pagelle, mentre mia madre era relegata al ruolo di “chi ne fa le veci” nel caso lui fosse assente per lavoro. E naturalmente era solo lui a provvedere a ogni nostro bisogno.

Mia madre non doveva ammazzarsi di lavoretti per far quadrare il bilancio familiare e per quelli di casa aveva l’aiuto di una domestica. Poteva cucinare ottime pietanze avendo a disposizione il denaro per comprare gli ingredienti migliori. Non sapeva cucire e si faceva confezionare gli abiti da una sarta con un fasullo accento francese.

Però. Però come Delia dipendeva totalmente da mio padre e se voleva togliersi uno sfizio doveva fare la cresta sui soldi che lui le passava (settimanalmente? mensilmente? non so). E quando c’erano le elezioni mio padre le dava indicazioni su quale partito e quale candidato votare.

Mia madre era molto bella, e mio padre un po’ (molto?) geloso. Ma mia madre era anche un po’ ribelle, e ogni tanto (abbastanza spesso) alzava la voce. Insomma, i miei litigavano, niente di che, baruffe. Ma io lo sapevo che lei non era appagata, che avrebbe voluto una vita diversa.

“Devi laurearti, trovare un lavoro, renderti indipendente” era il suo mantra. “Non dovrai mai dipendere da tuo marito”. Che mi sarei sposata e avrei avuto dei figli, quello era invece sottinteso.

Ho ripensato alla vita della mia famiglia dopo aver visto C’è ancora domani, il bel film di Paola Cortellesi. E più ancora da quando il temine “patriarcato” è prepotentemente entrato nel lessico quotidiano. Mi sono chiesta se anche mia madre, come Delia, andò orgogliosamente a votare per la prima volta. E mi sono risposta che sì, avrà messo un bel vestito e i tacchi e sarà andata al seggio al braccio di mio padre, ancora più felice di lei dopo vent’anni di dittatura fascista e un anno e mezzo di esilio in Svizzera. E mi sono ricordata di quando hanno votato entrambi per il divorzio e, poi, per l’aborto. Ma pur amando molto i miei genitori, non li ho presi a modello per formare la mia famiglia.

Era un becero patriarca, mio padre? Non per quei tempi. Oggi probabilmente sarebbe considerato tale. Eppure le cose non devono essere tanto cambiate se nel suo ultimo film, Coup de chance, Woody Allen mette in scena una tipologia di maschio contemporaneo che se la gioca non certo con mio padre, ma con Ivano, il pessimo marito di Delia (l’ottimo Valerio Mastrandea).

Jean Fourier (interpretato da Melvil Poupaud) è il ricchissimo imprenditore sposato alla giovane e bella Fanny (Lou de Laâge), che mal sopporta il ruolo di “moglie trofeo”: amata, coccolata ma soprattutto esibita dal marito alle riunioni mondane o nei weekend nella villa di campagna dove ospita un entourage di ricconi che in fondo non lo ritengono alla loro altezza e hanno sospetti sulla natura del suo misterioso lavoro. Un parvenu nel bel mondo (a me ha ricordato, anche fisicamente, Silvio Berlusconi) che copre la moglie di complimenti e doni costosi ma che rischia di perderla quando lei incontra un vecchio compagno di scuola e fra i due si accende la passione. Quel che segue, è la guerra con ogni mezzo per l’eliminazione del nemico e la letterale presa di possesso di quella che il marito considera sua proprietà esclusiva. Nessuno spoiler, il film ha un’evoluzione e soprattutto un finale sorprendenti. Ma quel che mi ha colpito è, di nuovo, il rapporto sbilanciato fra marito e moglie (lei fra l’altro non è nullafacente, ha un lavoro interessante in una importante casa d’aste), l’ossessione di lui per il controllo, la convinzione di avere il diritto di fare quel che fa in nome dell’amore. Certo, è una commedia, per di più di Woody Allen, ma vista (in anteprima) nei giorni del sequestro e dell’uccisione di Giulia Cecchettin, ha assunto, per me, una patina di verità che non mi aspettavo.

Il cinema, il buon cinema, sa cogliere lo spirito del tempo, individuare le problematiche della società contemporanea, illuminare gli angoli bui dei rapporti umani, le dinamiche di potere, anche all’interno della coppia. È quel che succede in un altro film che in me ha lasciato un segno: Anatomia di una caduta, di Justine Triet, premiato quest’anno al festival di Cannes con la Palma d’oro e passato nelle settimane scorse sugli schermi italiani. Un legal thriller psicologico dove Sandra, scrittrice di successo interpretata da Sandra Hüller, è accusata di aver ucciso il marito Samuel (Samuel Theis) facendolo precipitare da una finestra dello chalet di montagna dove la coppia si è trasferita con il figlio adolescente e ipovedente.

La donna appare da subito poco empatica, fredda, scostante. Del marito sappiano poco, solo che ha voluto tornare nel posto dove è nato e dove pensava di trovare l’ambiente giusto per completare finalmente il romanzo che trascinava da anni. Un luogo difficile, addirittura ostile, comunque scomodo per Sandra che ha invece una vita professionale molto attiva e ha necessità di spostarsi spesso.

Gli indizi a carico della donna sono deboli, le testimonianze dei vicini e del figlio contraddittorie, ma Sandra viene rinviata a giudizio. Durante il processo la sua vita viene vivisezionata e così quella del marito, descritto come vittima sacrificale di una moglie manipolatrice e violenta. Ma le cose stavano davvero così? La registrazione di una lite fra i due, scoperta dall’accusa e ascoltata in udienza, dovrebbe provare l’intento persecutorio di Sandra. Ma al tempo stesso accende una luce sulla personalità di Samuel, scrittore fallito, invidioso del successo della moglie. Una luce che in aula non pare essere colta. Ma che in me ha fatto risuonare mille campanelli: quelli di tutti gli uomini che non accettano di essere “meno” delle loro compagne.

Non svelo il finale del film, ma non posso non collegare la frustrazione di Samuel a quella di Filippo Turetta, il ragazzo che non poteva sopportare che la sua ex fidanzata, Giulia Cecchettin, si laureasse prima di lui e che lo “abbandonasse” per seguire la sua passione, la scuola di fumetto a Bologna. Insomma, che Giulia vivesse la sua vita, già così meravigliosamente aperta su un luminoso futuro. E invece troncata dall’ennesimo maschio.

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