Love me Tender, il corpo come arma contro sé stessi

In Teatro

Foto tratta da https://www.elfo.org/spettacoli/2022-2023/love-me-tender.htm

In Love me Tender, in scena all’Elfo, la confessione di un giovane uomo affetto da una dipendenza sessuale, mette in scena le battaglie interiori di tutti. Intervista alla regista Marcela Serli

Il corpo di “Marco” è un campo di battaglia. In Love me tender, in scena al Teatro Elfo Puccini , a dispetto (parziale) del titolo, più che il sesso e l’amore è il mezzo di entrambi, il terreno di scontro. Il corpo di un uomo che, fin da subito, si definisce come funzione. A partire dal proprio nome, se è vero che Marco altro non è che quell’uso sottilmente colonialista di tradurre i nomi propri di una seconda generazione cinese la cui identità ci viene più facile banalizzare.


Uno dei tanti strumenti per costringerli a rivendicare se stessi dimostrandosi migliori, compensare con il proprio esistere il fallimento percepito innanzitutto dalla famiglia e dal contesto di appartenenza. Lo scotto dell’aspettativa è una ferita che si paga sul corpo, e la risposta non può che passare dallo stesso canale. Così, l’apparente ingenuità di un bambino costretto ad adeguarsi a un mondo troppo stretto per i suoi bisogni di bambino costretto a crescere dentro una sola stanza, e i suoi desideri di giovane maschio che si scopre attratto dagli altri maschi, poco alla volta si restringe e soffoca, piega la realtà e la distorce, la trasforma.

Quando, insieme a lui, apriamo gli occhi sul suo presente, lo scopriamo come il doppio o l’esito forse inesorabile di un futuro già scritto: il chiuso oppressivo di una clinica, dentro cui si dibatte su un tappeto di farmaci per guarire la dipendenza dal sesso in cui ha cercato di affogare il suo corpo e disperdere la mente.

Riavvolge la sua vita, per strappi e immagini. spietate, spesso, sempre evocative, in una prigionia asettica che prende la forma del cerchio che si stringe, un po’ tribunale e un po’ gruppo di mutuo aiuto, un po’ dark room, nella regia sapiente di Marcela Serli, che tiene al centro del suo lavoro il corpo in movimento. In ognuna delle sue declinazioni, Marco, l’attore Shi Yang Shi è chiamato a giocare coi registri, in uno sforzo interpretativo significativo, diviene così l’oggetto inerte e irrefrenabile insieme su cui si concentrano l’aspettativa, la subalternità sociale e di classe.

Le forme, insomma, dell’agire del potere, che, sempre si disinteressa, ti agisce intorno senza vederti. Il potere – che qui ha il volto di un preciso Marco Ottolini – sono gli altri, soprattutto quando prendono la forma di un amore mai davvero in grado di accogliere ma sempre pronto a rendere più profonda la ferita, quando afferrano il protagonista e lo tirano più a fondo di un dolore che ha il calore di qualcosa di rassicurante, a suo modo familiare.


Love me tender è un testo potente, ricco di piani sovrapposti e chiavi di lettura, immaginifico e brutale, che rende evidente la molteplicità dei volti da cui Renata Ciaravino è partita per costruire il suo personaggio. Una densità che deve essere affrontata, per sperare di riemergere, offrendo alla propria cicatrice “la stanza più bella”.


Del percorso del progetto e dei suoi significati abbiamo parlato con la regista:

Sei abituata a costruire gli spettacoli in cui sei coinvolta in modo molto personale, anche partendo da vissuti altrui ma dando loro una forma che rispecchia molto la tua mano: cosa ti ha indotto a far parte del progetto Love me tender?

Sono stata spinta a lavorarci, in prima battuta dal fatto che il protagonista fosse cinese, perché il mio vissuto resta quello di una donna straniera. Poi dal racconto della dipendenza affettiva, e soprattutto dall’avere l’occasione di lavorare con Renata Ciaravino, su un suo testo.

Firmi una regia che ti è stata chiesta: come sei entrata “operativamente” dentro il testo?

Quando Renata Ciaravino e Shi Yang Shi mi hanno chiamata per coinvolgermi come regista In questo testo, il materiale di partenza era molto, ed era un monologo. Il primo intervento per me fondamentale, quindi è stato inserire un’altra presenza in scena. Si parlava di dipendenza, di conseguenza mi interessava rappresentare la dipendenza da qualcuno.
Da sempre Lavoro sulle minoranze e i miei progetti includono proprio la dipendenza dalle definizioni di sé; legata alla società, alla politica, allo Stato. Se tu sei una minoranza esiste una maggioranza e quindi per me era fondamentale crearla in scena. Ho chiesto poi di ridurre sostanzialmente il testo, perché avevo bisogno di vuoti all’interno dello spettacolo, di inserire di più il pubblico e che il pubblico potesse diventare autore di quegli spazi vuoti all’interno del testo. Questo mi ha permesso di portare il lavoro dove adesso sta tendendo, nello spazio stretto, in cui c’è dialogo tra il pubblico e lo spettacolo, tra la scena, il testo e il progetto.
Voglio sempre di più avvicinarmi a quel luogo simbolico, perché lì mi sento a mio agio, e sento che siamo in quella direzione.

È un testo che costringeva a raccontare un abisso. Come si fa secondo te a raccontare “il buio”, la dipendenza, la violenza, la caduta?

Mi sono occupata spesso, nei lavori precedenti, di tematiche sensibili, di lotta, di rivendicazione.
Il buio ne è una componente inevitabile. Io posso dire solo che certe cadute, la violenza, il buio interiore, più che di situazioni hanno bisogno di immagini, perché la parola è ciò che manca di fronte all’abisso. Quando c’è la dipendenza la parola perché la la verbalizzazione in se è già un luogo di cura, una via d’uscita. Anche se, come sappiamo, la parola può essere violenta, spesso è il primo punto di partenza verso qualcosa di migliore.

Ti sei occupata spesso di identità: nel tuo lavoro il corpo è uno strumento, se non lo strumento, dell’identità. Di fatto hai trovato in questo testo un discorso che continua?

Il corpo in Love me tender è più al centro che mai, rispetto agli altri miei spettacoli, perché in questo caso è un corpo “nascosto” anche quando è in vista. È il dialogo di un corpo individuale con il corpo di un altro, quindi sembrerebbe quasi uno strumento nascosto. È anche lo stesso strumento che fa male, l’arma per creare la dipendenza. A partire dal concetto di definizione identitaria, questo lavoro mette in campo la riflessione sull’autodeterminazione, ma ancora di più su come noi fuggiamo dalla forma di chiarezza che può dare il saper riconoscere i propri limiti.

In questo testo, il sesso è, in fondo, uno strumento per parlare di amore. Mancato, imperfetto, manipolatorio, anche: che cosa insegna, se insegna, sulle relazioni umane?

Tutti noi siamo sempre stati minoranza di qualcuno, siamo sempre stati dipendenti di qualcosa.
Dentro questo protagonista coesistono molte minoranze: è un uomo cinese gay che soffre di una patologia. La ricerca, però, è rendere universale un tema così specifico, farci riconoscere che ogni aspetto può in qualche modo riguardare noi. Per questo, la cosa che ho cercato di più è il rapporto con il pubblico, che non è altro neppure da questo, così come non è esente della dipendenza affettiva che è alla base di tutte le fragilità di cui la patologia si nutre. Forse in qualche momento ci sono riuscita, spero.

Sulla scorta delle acquisizioni di questa esperienza, in quale direzione proseguirà la tua ricerca?

Quello che sto per affrontare è la minoranza che accomuna tutti noi: la malattia. Una persona malata immediatamente viene relegata a uno specifico un luogo, viene classificata, stigmatizzata. La malattia è il più grande stigma perché quello più comune: prima o poi tutti saremo malati e quindi prima o poi tutti noi porteremo questo marchio. Nel prossimo progetto sperimenterò il rapporto con il pubblico in modo più diretto, ancora più da vicino: questo lavoro è un passo in quella direzione.

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