Il dolore dell’altro

In Letteratura

Con “Lincoln nel Bardo” ci troviamo immersi nella ferita aperta, perché attuale, di una nazione divisa, in piena guerra civile, dove le voci e i punti di vista si scontrano e si moltiplicano.

Il 2017, per me, è stato l’anno di tre cose. Una è stata la nuova stagione di Twin Peaks, che fortunatamente si è rivelata nulla meno che un punto di svolta per la serialità televisiva; un’altra è il sequel di Blade Runner diretto da Denis Villeneuve, a cui mi sto sobriamente approcciando urlando capolavoro a ogni trailer che esce; la terza è Lincoln nel Bardo, primo romanzo di George Saunders.

In quasi tutti gli articoli riguardo Lincoln nel Bardo si sottolinea proprio questo aspetto: che sia, cioè, il primo romanzo di Saunders. Vorrei che fosse chiaro, però, che Lincoln nel Bardo è un libro che riesce a sostenersi indipendentemente da qualsiasi attesa: è un libro bello e forte, e forse anche importante, per quello che dice e per come lo dice.

La storia si svolge in una unica notte, nel cimitero di Washington, quando il figlio di Abraham Lincoln, Willie, morto di tifo ad appena dodici anni, viene seppellito. Il padre, incapace di accettare la morte del figlio, torna a visitarlo. Al contempo anche Willie, non rendendosi conto di essere morto, si trova in una sorta di limbo di stampo buddhista, il Bardo del titolo, insieme a tutta una serie di persone che, come lui, si definiscono malate, negando la propria morte, rimanendo legate, chi per un motivo, chi per un altro, alla vita terrena.

Le prime due cose che colpiscono di Lincoln nel Bardo sono la scelta dello stile quasi orale della narrazione da una parte, e l’ambientazione durante la Guerra Civile dall’altra. Su questi due elementi è steso e pulsante il dolore. Lincoln nel Bardo è, infatti, un romanzo ammantato di dolore: lo strazio di un padre che ha perduto il figlio; lo spaesamento del bambino, strappato dalla sua famiglia; gli infiniti rimorsi, rimpianti e recrimini, tutti diversi e personali, degli spiriti del cimitero. Eppure, o forse proprio per questo, che Lincoln nel Bardo è un romanzo anche colmo d’amore e di umanità.

 

IL CORO
Peculiare è, prima di tutto, lo stile della narrazione. Il punto di vista scelto da Saunders, infatti, non è né a un narratore esterno omnisciente, né uno interno, privilegiato, bensì è una sorta di coro di voci, composta dagli spiriti e da citazioni letterarie, che raccontano quello che accade.

Apparentemente Lincoln nel Bardo si presenta come una sceneggiatura teatrale, essendo composto unicamente da dialoghi. Però, qua i personaggi, in particolar modo tre, spesso raccontano lo svolgersi delle azioni al lettore al passato remoto, diversamente da come potrebbe accadere in un monologo o in un solloliquio teatrale. L’idea che si ha leggendo Lincoln nel Bardo, più che trovarsi di fronte a uno spettacolo teatrale, è quella che Saunders sia riuscito a rendere il romanzo racconto orale. Emblematico è quando due o tre diverse voci si susseguono nel racconto, intercambiandosi e spalleggiandosi, magari riferendoci cosa ha detto un qualche altro spirito. Proprio come se stessero raccontando una storia davanti al fuoco a noi, ascoltatori.

Se da una parte abbiamo il coro delle voci degli spiriti, dall’altra, Saunders usa come contrappunto tutta una serie di lettere e citazioni letterarie. Personalmente, non so quante siano opere reali e quante inventate. Sono così tante che, in tutta onestà, è impossibile da capire. Ma questo, d’altronde, importa fino a un certo punto, essendo tutte verosimili. Quello che è ben più rilevante è il modo in cui Saunders mette sullo stesso piano citazione scritta e racconto orale. L’idea è che, in fondo, quando scrive di Lincoln nel suo Behind the scenes of thirty years a slave and four years at the White House (questa, ho controllato, è una citazione reale), Elizabeth Keckley sia come uno spirito che racconta dell’arrivo del reverendo Everly Thomas. Un altro dettaglio che concorre a questa sensazione – e che non riesco a togliermi dalla testa – è la scelta di mettere il soggetto che parla non all’inizio, ma alla conclusione del periodo, proprio come nelle citazioni letterarie (o nelle epigrafi).

Inoltre, essendo un romanzo composto da voci, è fondamentale che ogni voce sia più o meno distinguibile dall’altra. In particolar modo, essendo la sua voce l’unica cosa che captiamo direttamente dal personaggio, è necessario che essa sia sua e sua e basta. Per questo, Saunders ricorre a tutta una serie di sgrammaticature, neologismi, singhiozzi e tic, per far sì che non solo la voce sia peculiare di un personaggio, ma ne indichi anche il suo rapporto con il mondo. Si arriva, per esempio nel caso della bambina ormai smarrita nei propri orrori, a una decostruzione totale e abominevole del linguaggio.

Tutti questi accorgimenti, come già detto, vanno a delineare una struttura profondamente orale del testo. Lincoln nel Bardo più che leggerlo, lo si ascolta. Non a caso enorme cura è stata messa nella produzione dell’audiolibro, con oltre cento interpreti nella versione americana.

LA GUERRA CIVILE AMERICANA
Il fatto che uno dei personaggi principali sia Abraham Lincoln in persona è, di primo acchitto, difficoltoso, essendo un personaggio, almeno per me, così storicamente grande e iconico, tanto da aver pochissimo di umano. Il rischio, quindi, era di non riuscire a sentire realmente vicino i personaggi, specialmente Abraham o Willie Lincoln, prigionieri della propria grandiosità storica. Saunders, però, riesce ad avvicinare la Storia, a far emergere l’umanità dei suoi personaggi. Lincoln, cioè, viene tratto fuori dalla storiografia, e viene reso nuovamente uomo. Quando leggiamo dello strazio e dei dubbi che assalgono Lincoln di fronte al corpo privo di vita di Willie, non ci troviamo più di fronte al personaggio storico, granitico e distante, bensì abbiamo a che fare con lo strazio di un padre di fronte alla morte di suo figlio. “L’ho scambiato per qualcosa di durevole e ora devo pagare”, pensa Lincoln in uno dei passaggi più intimi del libro. I dubbi che rodono il Presidente, dopo la morte del figlio, su quanto, in fondo, possa avere senso la guerra civile che sta portando avanti, osteggiata da molti e che sta portando morte e distruzione nelle case della loro stessa nazione, non sono più soltanto i freddi dubbi politici e calcolatori registrati in una storiografia, ma sono anche i dubbi di un padre su quanto possa aver senso continuare a vivere dopo la morte del figlio.

A questo proposito, particolarmente interessante è la scelta del periodo storico (ovviamente, obbligata anche dall’intenzione di narrare della morte di Willie Lincoln). Grande importanza ha in Lincoln nel Bardo, infatti, la Guerra Civile Americana. Un tema che Saunders, proprio come i suoi personaggi storici, riesce a rendere caldo e universale, senza, però, che se ne perda il suo significato preciso: molti sono i personaggi di fantasmi neri o schiavisti; o, ancora, i passaggi di alcuni testi ci ricordano dell’importanza storica di quel momento. Con Lincoln nel Bardo ci troviamo immersi nella ferita aperta, perché attuale, di una nazione divisa, in piena guerra civile, dove le voci e i punti di vista si scontrano e si moltiplicano.

Prima e dopo Lincoln nel Bardo, ho letto L’ultima vedova sudista vuota il sacco di Allan Garganus. Curiosamente, in entrambi viene affrontato il tema della Guerra Civile e di una nazione divisa, dove colui che dovrebbe essere il tuo connazionale diventa il tuo nemico, dove il noi per eccellenza si frammenta. In entrambi i romanzi, la Guerra Civile diventa l’ambientazione privilegiata per mostrare l’abisso che separa ogni uomo e la necessità di superarlo. D’altronde, quale momento più critico per mostrarlo di quando colui che dovrebbe essere parte di un noi condiviso diventa il Nemico?

INTUARSI
Lincoln nel Bardo è un continuo, sorprendente e straziante superare l’abisso fra gli uomini con un duplice movimento. Il primo è quello del lettore verso i personaggi del libro. Non a caso il romanzo si apre con Hans Vollman, uno degli spiriti, che racconta la propria storia. Questo raccontare la propria vita sarà una costante di tutto Lincoln nel Bardo. Questo perché è ascoltando le storie dei singoli personaggi (ricordiamo l’enorme caratteristica orale della scrittura di Saunders) che noi riusciamo a empatizzare con loro. Il secondo movimento con cui si supera l’abisso è interno al racconto, e lo compiono i singoli personaggi, quando scoprono che possono letteralmente entrare l’uno dell’altro condividendo uno spazio comune. In questo modo, possono non solo ricordare la vita dell’altro, ma viverla come se fosse stata la loro. Dante, nel IX Canto del Paradiso, dà un nome a questa compenetrazione spirituale: intuarsi. “Già non attendere’ io tua dimanda / s’io m’intuassi, come tu t’inmii”. E’ questo che fanno i singoli spiriti l’uno con l’altro, e quello che facciamo noi lettori con i singoli spiriti a nostra volta: c’intuiamo. Soltanto così è possibile rammendare la frattura che corre fra di noi. Questo ruolo della narrazione e delle storie ricorre anche nel già citato L’ultima vedova sudista vuota il sacco: ascoltando una storia, noi ci immedesimiamo nell’altro, anche solo per un attimo il punto di vista dell’Altro diviene il nostro punto di vista (l’importanza della scelta di Saunders di non imporre un narratore unico, ma di far sì che ogni personaggio lo sia; la sorprendente capacità di Garganus di modificare il proprio stile di scrittura a seconda del narratore).

E in questi anni, negli anni del trumpismo, delle grandi migrazioni di massa, del terrorismo, in questa costante e fluida guerra civile fredda – ma forse nemmeno troppo fredda – che stiamo vivendo ora, l’unica cosa che possiamo fare, che dovremmo fare, anzi, prima di tutto, prima di fare ciò che è giusto fare, prima ancora di capire quale sia la cosa giusta da fare, prima di tutto questo ciò che abbiamo l’obbligo morale di fare è intuarsi l’uno nell’altro, cercare di guardare oltre quest’abisso spaventevole fra di noi e provare a renderci conto che “Sebbene all’apparenza sembrasse che ogni persona fosse diversa, non era vero. Al cuore di ognuno c’era la sofferenza; la nostra inevitabile fine, le tante perdite che dovevamo subire nel cammino verso la fine. Dovevamo provare a vederci in questo modo gli uni con gli altri. Come esseri sofferenti, limitati…”

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