Le otto montagne: tra rifugi e ricordi

In Letteratura

È nel ricordo il più bel rifugio, questa la lezione de “Le otto montagne” di Cognetti, candidato allo Strega 2017

Ho letto Le otto montagne di Paolo Cognetti durante i miei viaggi mattutini nel sottosuolo milanese. Ogni mattina, più scendevo sottoterra, più salivo in alta quota. Nella folla assonnata del metrò, camminavo tra il mirtillo e il rododendro che crescono nell’ombra degli abeti e dei larici. E’ il bosco dei 1500 metri. E poi il treno emergeva in superficie e nelle giornate fortunate, quelle in cui il cielo è trasparente e lascia vedere lontano, ecco che, senza preavviso, spuntava la Grigna in lontananza.

Le otto montagne è la carta geografica di una famiglia in cui i sentieri di ciascuno a tratti si intrecciano e a tratti si allontanano.

Giovanni Guasti e sua moglie hanno le montagne nel sangue: le Dolomiti sono le loro montagne passate, le vette segrete di quando erano ragazzi. Milano, invece, non fa per loro con il rumore e la frenesia che rende tutti nervosi. Così, con il figlio piccolo, Pietro, decidono di comprare una baita nel piccolo paese di Grana, nella valle del Monte Rosa, ancora incontaminata dai turisti. Queste Alpi sono più solitarie e schive del ricordo delle Dolomiti ma anche maestose, come le rovine di una fortezza distrutta.

Grana diventerà presto il centro del romanzo, il chilometro zero di un intero percorso di vita. Per il piccolo Pietro, e per l’intera famiglia Guasti, infatti, l’arrivo a Grana coincide fin da subito con un incontro che cambia per sempre il corso della loro quotidianità. Bruno è un ragazzino nell’aspetto ma è già adulto nel modo in cui porta le capre al pascolo. A Grana non c’è un tempo per l’infanzia: la montagna esige che i bambini diventino in fretta uomini. Da questo ragazzo selvatico, Pietro imparerà come suonano in dialetto i nomi degli alberi ed il motivo per cui le trote si ostinano a lottare contro la corrente dei fiumi. Imparerà il mistero del lato inverso della montagna, l’envers, quel versante selvatico dove il sole non arriva e dove non ci sono villaggi. La valle del Grenon presto non avrà più segreti per i due ragazzini che ne frugano tutti i nascondigli e che ricamano una storia per ogni rudere dimenticato e per ogni oggetto trovato per caso.

Ma non è solo Bruno a dominare il ricordo di questa montagna d’infanzia: Giovanni Guasti, agli occhi critici del figlio ormai adolescente, è un padre che ama gli indovinelli e le sfide, di un’ostinazione che solo la moglie, a tratti, riesce a mitigare, un uomo impaziente di arrivare in fretta in cima a quelle vette faticose, affrontate la mattina, rigorosamente troppo presto.

Il tempo passa per la famiglia Guasti, i ragazzi crescono e i genitori invecchiano. La strada di Pietro e quella di Bruno prendono direzioni diverse: entrambi stanno cercando di capire quali passi tentare in quelle vite che stanno iniziando a prendere una forma. L’uno parte, l’altro resta. Nuove città, nuove cime e nuovi indovinelli sono il futuro di Pietro che vaga tra Milano, Torino ed il Nepal, forse per sfuggire alla sua solitudine o forse per salvaguardarla. Il destino di Bruno invece è quello di rimanere sul Grenon. Allevando il lato più assoluto del suo carattere, egli impara a costruire muri e a fare il formaggio e a scuoiare un camoscio: a sopravvivere da solo in alta montagna.

Il tempo passa ma la valle del Grenon rimane immutata. È come se il muschio assorbisse i cambiamenti e ne ammortizzasse il frastuono rendendola un rifugio immune allo scorrere degli anni. La montagna segue un ritmo diverso da quello del resto del mondo, il ritmo circolare delle stagioni, fatto di continui ritorni. Eppure, il ricordo degli anni passati qui non scompare, anzi, viene protetto e conservato, pronto a riaffiorare per chi lo volesse ritrovare. La montagna ha molti modi per custodire l’impronta di ciò che è stato: l’inverno eterno del ghiacciaio conserva il ricordo di una neve antica di secoli e le piccole scatole di latta, lasciate dagli uomini sulle vette, proteggono con gelosia le firme degli alpinisti che le hanno scalate.

Sarà solo molti anni dopo che Pietro, ormai adulto, capirà questa verità custodita dalle pietraie. Capirà quel bisogno, istintivo per alcuni uomini come suo padre, di lasciare degli indizi del proprio passaggio, delle tracce, e, allo tempo stesso, di tracciare nuovi sentieri per coloro che potrebbero arrivare dal futuro e finire per perdersi. Fidandosi di uno degli indovinelli di suo padre, Pietro non perderà la sua strada e ritroverà Bruno, la sua infanzia e le sue radici, che fanno da àncora mentre il mondo va avanti a girare.  Insieme, i due amici, costruiranno la loro tana sul lato inverso del Grenon, una casa condivisa. Il guscio in cui rifugiarsi e lasciare al di fuori il resto del mondo ogni volta che ne avessero avuto la necessità. Forse, il tentativo estremo di realizzare un’utopia.

Le otto montagne è un romanzo commovente ma mai sdolcinato. È un romanzo che dice la verità, in cui le emozioni sono trattate in modo delicato ma deciso, come le mani di Bruno quando munge le sue mucche ogni mattina. Si parla di un rapporto irrisolto tra un padre e un figlio, troppo orgogliosi per capirsi fino a quando uno dei due non c’è più. Si parla dell’affinità elettiva tra due fratelli, non di sangue ma di vette scalate e di silenzi condivisi, la sera, guardando il tramonto. Si parla della lotta eterna tra l’uomo e quella che, di solito, noi di città chiamiamo natura, ma che in realtà è l’insieme concreto di boschi, pascoli, torrenti, roccia. Si parla della fatica di domare ciò che è selvaggio e che non vuole essere domato. Sia quando a essere “selvaggio” è l’uomo, sia quando lo è la terra. Là dove oggi noi vediamo alpeggi, pascoli, prati, ci sarebbero sassi e foreste: non appena i pascoli e i prati vengono abbandonati, la vegetazione torna ad avanzare e a ricordarci che niente è statico e definitivo, nemmeno in alta montagna. E forse, è proprio per questo che, anche se tutte le montagne si somigliano, è bello sapere di poter tornare sui propri passi, sui sentieri di sempre, anche dopo aver scalato il monte Everest, per poter riconoscere sé stessi in una solitudine che è familiare.