Il Centro Artistico Alik Cavaliere a Milano ha presentato durante la Milano Art Week “Diasporic Ecologies”, una realizzazione di Peng Shuai Paolo a cura di Angela Vettese ben inserita nel contesto dell’opera di Cavaliere. Una cartografia botanica, “composta da isole di fiori secchi, piante e radici”, che ha assunto il carattere di una preghiera laica per la sopravvivenza.
Angela Vettese ha allestito con grande sagacia la mostra “Diasporic Ecologies” di Paolo Shuai Peng nello studio di Alik Cavaliere. Per capire perché il risultato sia così convincente, bisogna risalire non solo all’intuito della curatrice ma anche alla natura dei due artisti che vengono messi in dialogo e della natura del luogo dove viene condotto l’esperimento.

Il palazzo di via De Amicis 17 è un caso di sovrapposizioni storiche (epoche, destinazioni), prossime ad una arena romana, forse non raro a Milano ma felice e accogliente per la natura delle sue condizioni. Quando ci ho fatto e ci ho imparato teatro, al famoso Trebbo del primo piano, mi sono sentito fuori dai condizionamenti, fuori da quello che “si doveva fare”. Niente di detto e di scritto e tutto di agito.
Quando Piero Quaglino mi fece conoscere e scoprire Alik Cavaliere, negli anni Novanta, ebbi subito l’impressione di avere capito cosa fosse un artista moderno – e la ebbi perché non avevo ricevuto mediazioni. Alik era una figura un po’ mitica nelle parole di Piero (il famoso pranzo delle anatre, ricorrente, organizzato in un giardino) e i suoi lavori mi sembravano attraenti perché uscivano da una figuralità metamorfica. Si capiva e non si capiva cosa rappresentassero e di cosa fossero fatti.
Però, “prendevano”.
Quando nello stesso periodo Alik venne invitato a lavorare per una giornata accanto a Vincenzo Ferrari, a Brera, ascoltai quello che dicevano i colleghi più grandi, Grazia Varisco in primis. Chi guardava era colpito dalla forza, dall’energia e dal senso del gioco che ci mettevano i due uomini.
Sembrava che rompessero un uovo e che lasciassero defluire un tuorlo gigante.

Credo che parte di queste suggestioni siano state presenti ad Angela al momento di organizzare la mostra con Peng – con la distinzione che nel frattempo Alik è morto e che il giovane artista cinese è stato invitato a esporre in uno studio che da quasi trent’anni ha arrestato il tempo creativo per generarne uno, non meno fattivo, di promozione e conoscenza.
Peng si muove sempre in punta di piedi e come spesso gli dico, più che un cinese sembra un artista giapponese. Nella stanza al primo piano, che gli è stata messa a disposizione, come prima cosa ha dipinto di verde la parete di fondo in modo che l’ambiente dialogasse sul piano del colore con gli alberi dei due cortili che si vedono dalla finestra.
Per terra ha disposto una serie di sassi da cui sembra che fuoriescano delle piante e dei fiori. Peng non è nuovo a operare recuperi dalla natura, raccoglie sul greto del fiume nell’Oltrepo’ Pavese e ama il film della Varda sul significato del “glaner”. Però questa volta non si è limitato a farci vedere il gesto, come in certi filmati molto belli proposti in precedenza : ha offerto, invece, il frutto della raccolta in una messinscena per terra, sinuosa, che segue un tracciato di sabbia bianca e esprime al meglio le potenzialità formali di quello che aveva fatto finora.

Peng, a contatto di Alik, ha ricomposto la sua natura di ragazzo di campagna silente in quella di un giovane artista maturo, in grado di rimettere a confronto i due termini (campagna e città) e le due identità. Nato nella Cina meridionale, arrivato in Italia da bambino, ha assorbito due tradizioni rappresentative e ne ha scelto una terza. Una specie di diario itinerante, esperito nelle case e nelle gallerie, di un trauma che si è fatto disagio e di una malinconia apparente che è solo il sottotono di una determinazione coriacea e poetica.
Peng senza casa crea casa.
Peng sfama.
E’ un nucleo interno, caldo, che si è raffreddato in occasione di questa esposizione : Peng si prende il tempo di guardare quello che sa fare e dà al sé glaneur significati più ampi e imponderabili. Il seme che un cinese porta dalla sua terra e pianta in un’altra terra – la spora che viene portata dal vento. Due incroci per un flusso nei confronti del quale l’artista ci invita all’empatia.

Il suo segno era sempre stato parco e trattenuto.
In questa occasione si è allargato fino a rappresentare i dodici mesi e altre serie sui fogli alle pareti con un linguaggio di nuova raffigurazione. Propone immagini di piante e fiori animati, a solo contorno, che ricordano i primi cartoon della Disney – quelli degli anni Trenta – ma senza averne l’iniezione di personalità colorata e rassicurante.
Le piante hanno gli occhi, la bocca, si muovono usando i piedi, ballano mentre un baccello perde i pezzi. Non fanno paura ma mantengono un certo mistero che le rende altre da noi : infatti il più delle volte, in un gioco proporzionale molto felice, mangiano un ragazzo nudo rimpicciolito o meglio lo assorbono.
Una specie di alfabeto tra corpo e pianta che se non fosse per la qualità differente nel senso, potrebbe ricordare quello che Erté faceva disegnando le lettere composte da figure di ragazze nude.
Forse, Peng ha messo le radici in una terra che non sente più matrigna. Disegnando una possibile nudità e mettendola in relazione alle piante, ci invita a un gioco delicato e a una confessione floreale risolta.
In copertina: Peng Shuai Paolo, opere create in occasione del progetto di residenza e mostra “Raccolti 2024” a cura di Provinciale 11. Photo credits Francesca Rossi