Il lettore curioso: giugno-luglio 2025

In Letteratura, poesia, Saggistica, Weekend

Altro che consigli per letture vacanziere e sia detto senza snobismo. Asclepiade, analisi comparate a sfondo giallo di edizioni del maudit Villon – scoprirete perché – lo sterminato, interessantissimo elenco dei libri messi all’indice e molti altri titoli tra saggistica e storia da appuntarsi. Il lettore va in vacanza ma ci lascia i compiti, bei compiti, si potrebbe dire..

Fine stagione, per me l’anno termina con l’approssimarsi delle vacanze estive. Qualche novità, alcune letture di lavoro e/o tardive (mi ritrovo sempre con più libri di quanto non riesca a leggerne) e qualche repechage. Congedo la rubrica e vado a scegliere i libri che metterò in valigia per la villeggiatura in montagna. Arrivederci a settembre.

Asclepiade, Epigrammi, traduzione di Alceste Angelini, Einaudi, 1970

Intervallo sempre libri di voluminosa, se non ardua, lettura con smilze plaquette che mi offrono rapide istantanee di un autore. È il caso di questo volumetto, ospitato nella prestigiosa e storica Collana di poesia Einaudi. 
Trentasei composizioni delle quarantacinque al massimo che gli vengono accreditate: Asclepiade di Samo, concittadino di Epicuro, nato forse nel 320 a. C., è tutto qui, nell’ottima versione del grecista senese Alceste Angelini. 
Quando Asclepiade si fa conoscere Alessandro è morto, la libertà greca è un ricordo e gli orizzonti poetici si sono ristretti al quotidiano, al transitorio, all’occasionale. Ogni mitologia è bandita, se non come piccolo aneddoto; ogni tensione all’assoluto o anche solo al grandioso, all’epico, è stata archiviata. 
Restano baruffe e tormenti d’amore, banchetti, liti con i servi, epitaffi. La misura è l’epigramma, componimento breve che è nato per essere inciso nella pietra e nel bronzo e che, a partire dal V secolo, avrà usi profani e una codificazione metrica in distici elegiaci (un esametro e un pentametro) destinata a farsi moneta corrente con l’avvento dell’ellenismo. 
Un poetare conciso ed elegante, il più delle volte di maniera. Ma le sparse gemme rifulgono. Componimenti sull’amore carnale e il tempo che trascorre: 

Mi divertivo un tempo con Ermione 
sempre così arrendevole. 
Una cintola aveva, o dea di Pafo, 
ricamata di fiori e lettere d’oro. 
“Amami – vi leggevo – amami tutta 
e non esser crucciato 
se anche un altro mi possiede”. 

Recriminazioni contro l’amata che si nega, a inaugurare un genere, il paraklausithuron, lamento davanti alla porta chiusa, che godrà di ampie fortune. 

Notte lunga e burrasca: 
a mezza via le Pleiadi sommerge. 
E io grondante di pioggia 
rasento le sue porte, 
trafitto dal desiderio 
di quella ingannevole. 
Non amore ma un fuoco disperante 
Cipride m’ha scagliato! 

Epitaffi tra i più belli dell’Antologia Palatina:

Tu che t’accosti a questa tomba vuota, 
viandante, se giungi fino a Chio, 
dì a mio padre Melesàgora 
che me e la nave e il carico 
disperse l’Euro maligno, 
e che d’Evippo resta solo il nome. 

Che toccano il vertice in questo omaggio a una cortigiana: 

Archeanassa racchiudo l’etera di Colofone. 
Anche nelle sue rughe si posava Amore. 
Voi, amanti, che coglieste al primo erompere 
il fiore della sua giovinezza, incauti, 
che grande incendio avete attraversato! 

Marco Belpoliti, Pianura, Einaudi, 2021

Ecco, diciamo che di solito non stravedo per narrazioni che cominciano così: «A M…, importante città dell’Alta Italia, la marchesa di O…, una vedova di ottima reputazione…». Poi, certo, La marchesa di O… di Kleist è un capolavoro, ma preferisco carte, mappe, stradari. Date, nomi. Una topografia del luogo, del tempo, dell’anima. 
Leggete questo incipit: «Piatta è piatta. Su questo non c’è alcun dubbio. Si stende a perdita d’occhio interrotta solo da filari di pioppi e piccoli boschetti sopravvissuti alle trasformazioni agricole dell’ultimo secolo e mezzo». Siamo nella Pianura Padana, in Emilia (ma ci saranno deviazioni nella Milano della Colonna Infame, di cui racconta la rimozione; nell’hinterland milanese dove l’umidità mangia case e capannoni facendoli appassire e sembrare più vecchi di quanto non siano; nel Veneto del Delta dove le anguille mangiate da John Berger, scrittore pittore e critico d’arte inglese, rimandano all’anguilla di Montale), in un viaggio sentimentale e letterario che si immerge nei luoghi e persino nella loro geologia, nella storia e negli affetti.
Non è facile anche solo definirla. Che cos’è la Pianura Padana e, tramontata fortunatamente l’invenzione della tradizione, la Padania di bossiana memoria, e che cosa non è? Fin dove si stende, che cosa lambisce e che cosa esclude? E che cosa definisce i luoghi, gli abitanti e i loro caratteri? C’è la nebbia, non soltanto d’inverno. «La nebbia ha a che fare forse con la noia? Una delle domande suggerite dalla nebbia non è: dove sono? Ma piuttosto: dove sono gli altri? E anche: cosa lega i miei pensieri alle cose che ci sono? La nebbia consente di immaginare, di guardare, di vedere quello che non si riesce a vedere quando tutto è completamente visibile». 
La nebbia in cui ci si perde come in Amarcord, l’umidità che rende umorali, lunatici, come nel romanzo di Ermanno Cavazzoni che Fellini, ancora lui, ha fatto approdare sullo schermo. Ha detto Belpoliti, in un’intervista: «Secondo me un filo sotterraneo c’è. Il filo è proprio la forma della Pianura. La nebbia, il magone, la solitudine. Il senso di spaesamento. Il Po. Il fatto che ti senti piccolo dentro la Pianura. Che l’orizzonte è sempre irraggiungibile». E allora il contrasto tra umori terragni e goderecci (Guareschi, certi banchetti contadini del Mulino del Po, anche se questo Belpoliti non lo dice) e una più generale coscienza della finitezza che si fa umore malinconico e nostalgico, struggimento. Belpoliti pesca dal dialetto reggiano per definirlo, questo “magòn”, ricordando che il magòn è anche il ventriglio, il luogo della digestione. Colpa dell’umido, della nebbia e della piattezza, non c’è dubbio.
Immaginari che si sovrappongono e si mescolano: la lunaticità, un certo carattere eccentrico, che si associa con la concretezza e la praticità (la centuriazione romana che ha modellato, ritagliato e diviso il territorio dandogli ordine e forma) e con la cordialità e l’estroversione (la pianura, fra tutti i luoghi d’Italia che hanno conosciuto e subito invasioni, è quella in cui sono passati proprio tutti).
Difficile dar conto della ricchezza e della mole di materiale che, sotto forma di lettere a un amico accompagnate da disegni, Marco Belpoliti sparge a piene mani in Pianura: le città, Modena e Reggio Emilia, ma anche la Bologna dei suoi anni universitari e del grande Piero Camporesi, i paesini e il fiume, le soste con i piedi nell’acqua di un fossatello o in un’osteria a bere lambrusco.
C’è, in Pianura, una sfilata interminabile e affettuosa di narratori e poeti, teatranti e artisti: Gianni Celati camminatore instancabile; ma anche Giuliano Scabia con la sua barca-teatro che coltiva il sogno-delirio dei Giganti del Po; Pier Vittorio Tondelli con il suo magone e l’irrequietezza che lo tiene in perenne movimento; il pittore Giuliano Della Casa che a Modena vede “l’ora blu”. L’inarrivabile fotografo Luigi Ghirri (c’è una sua immagine in copertina: un’edicola sacra e un cipresso immersi in un grigiore lattiginoso, che s’intravedono nella coltre della nebbia). Giovanni Lindo Ferretti con i CCCP e il loro punk filo-sovietico. E tanti, tanti altri.
C’è soprattutto, e oltre ai passaggi su Celati è la parte del libro che più mi ha emozionato, il modenese Antonio Delfini, autore di racconti bellissimi e di un singolare “manifesto conservatore e comunista”, ritratto da Cesare Garboli in un colloquio con l’autore: «Era, disse Garboli, uno strapaesano e un ribelle. E con queste parole quel giorno sanzionò in modo definitivo il carattere di chi vive in questo pezzo della pianura: puerile, strapaesano e ribelle. Delfini era un modenese; meglio, un emiliano allo stato puro… Con quella definizione, per quanto oscura e tortuosa, aveva spiegato… gli aspetti salienti del carattere di noi emiliani. Forse non proprio di tutti, ma almeno quelli che avevano cercato di essere artisti e scrittori, contravvenendo in questo modo alla natura pratica e edonistica di chi vive dalle nostre parti. E c’era un altro paradosso che mi si illuminò allora: proprio perché sono puerili, paesani e ribelli, gli emiliani appaiono così goderecci e pratici. Antonio Delfini aveva compiuto un capolavoro: fallire in modo perfetto scrivendo dei capolavori». 
Fin qui Pianura, che ho recuperato fra i molti, troppi arretrati di lettura. Marco Belpoliti gli ha aggiunto un nuovo capitolo fresco di stampa, Nord Nord, sempre per Einaudi. Lo leggo quest’estate e a settembre vi so dire.

Umberto Eco, Elogio del riassunto, Henry Beyle, 2025

Quando frequentavo la scuola di giornalismo, nei primi anni ‘80, il riassunto era esercizio frequente, come alle elementari. Ci davano una lenzuolata di cronaca che doveva essere ridotta a trenta righe, poi a quindici e a dieci, per approdare infine a un dispaccio di agenzia di cinque righe. Il nostro venerato maestro, Manlio Mariani, ci suggeriva di prendere a modello di concisione la Garzantina, un’enciclopedia universale assai compatta oggi rimpiazzata dalla fluviale Wikipedia. «Se doveste riassumere in una riga il nostro secondo dopoguerra» diceva «non potreste fare a meno di scrivere: “L’Italia visse quarant’anni di pace, prosperità e progresso”». Noi protestavamo: e le stragi, la mafia, il padronato? Ma aveva ragione lui.
Ha fatto molti riassunti anche Umberto Eco, intellettuale onnivoro e onnisciente dotato di una robusta vena pedagogica (il suo Come si fa una tesi di laurea del 1977 è tuttora un testo prezioso). Alla Rai, giovane aspirante telecronista negli anni ‘50, e poco dopo, aspirante filosofo, con centinaia di schede bibliografiche per la Rivista di Estetica. In questo prezioso volumetto illustrato da Tullio Pericoli ricapitola così il suo apprendistato: «Il riassunto ha due funzioni, una per chi lo fa e una per chi lo legge. Ritengo che sia molto più importante farlo che leggerlo. L’arte del riassunto è importante e utilissima, e la si impara facendo molti riassunti. Fare riassunti insegna a condensare le idee. In altre parole insegna a scrivere». 
Il libretto che ho fra le mani offre dodici riassunti di altrettanti romanzi, pubblicati in due puntate dall’Espresso nel 1982. Li avevano scritti romanzieri e poeti fra i nostri massimi, con Umberto Eco a guidare le danze. «È chiaro che non si può riassumere tutta la trama. Scegliere non significa soltanto selezionare dei fatti, ma pronunciare implicitamente un giudizio critico. Quindi il riassunto di un romanzo non è mai un caso di semplice informazione: è un atto critico. Una volta Francis Ferguson ha detto che il riassunto dell’Edipo Re era “Cercate il colpevole”. Non c’è male, sottintende persino l’interpretazione freudiana».
Così, in sedici righe, Giovanni Mariotti condensa la Divina Commedia, Luigi Malerba L’Orlando furioso, Italo Calvino Robinson Crusoe, Ruggero Guarini Le affinità elettive, Attilio Bertolucci La Certosa di Parma, Piero Chiara I promessi sposi (trovando lo spazio per dare del minchione al povero Renzo Tramaglino), Giovanni Giudici David Copperfield. Mentre Alberto Arbasino maramaldeggia con soave perfidia su Madame Bovary («La Biblioteca ha colpito ancora. Dopo Don Chisciotte sul campo dell’avventura cavalleresca, la nuova vittima della iper-letteratura sconsiderata si chiama Emma Bovary, nella sfera dell’evasione romantica e velleitaria dalle miserie senza splendori del quotidiano tran-tran»). Completano il gioco Cesare Garboli (I miserabili), Alberto Moravia (Delitto e castigo), Giovanni Raboni (Alla ricerca del tempo perduto) e Umberto Eco con l’Ulisse di Joyce.
Il più bravo di tutti è proprio lui, Eco. Non pago della sua schedina da sedici righe, offre quattro variazioni (quasi) telegrafiche. «Uscito dalla metafisica ricerca di un figlio, ebreo dublinese sensuale e pasticcione, mette un amante nel letto della moglie insoddisfatta». Oppure: «La vita quotidiana a Dublino, città-universo, vista in parte dal di fuori e in parte dal di dentro, attraverso la testa di tre persone». O ancora: «Il mito omerico rivisitato in chiave piccolo borghese, ovvero la nostra epica non può essere che in giacca e bombetta, e non sappiamo chi ci aspetta a Itaca». E infine: «Un giovane che filosofeggia, un uomo che vorrebbe far l’amore, una donna che lo farà, ma mentre loro pensano, chi fa davvero l’amore è il linguaggio». Chapeau.
Un caso estremo di riassunto letterario, da ascrivere a quella patologia innocua e non di rado divertente chiamata “enigmistica classica” è l’aureo All’alba Shahrazad andrà ammazzata di Giuseppe Varaldo, che Vallardi pubblicò nel 1993 con la dotta prefazione di Umberto Eco.
Il sottotitolo dice “Capolavori in sonetti monovocalici”. All’origine c’è il lipogramma, gioco di parole che consiste nel non usare sistematicamente, in uno scritto, una o più lettere. Esiste un’Iliade mancante di una lettera del poeta greco Nestore di Laranda, vissuto nel III secolo d. C. In ogni libro del poema era omessa una lettera: la prima nel primo libro, la seconda nel successivo, e così via. Esiste un romanzo di Georges Perec, La disparition (Denoel, 1969) in cui è stata abolita la lettera E. Meglio ancora, crudeltà estrema, c’è una sola E e nessun lettore è riuscito finora a trovarla. Esiste un racconto sempre di Perec, Les revenentes (Juillard, 1972) in cui, al contrario, l’unica vocale superstite è la E.
Giochi di letterati. Scherzi da preti (molti di questi letterati, non Perec, erano anche ecclesiastici). E giochi di lettori che diventano scrittori. Come Giuseppe Varaldo, del quale ignoro tutto, se non che era regolare lettore e puntuale corrispondente della rubrica giochi della Stampa di Torino. Varaldo segue il metodo del racconto di Perec: una sola vocale. Rende più severa questa regola scegliendo di riassumere libri. E di adoperare per questi riassunti, oltre a una sola vocale per volta, la forma canonica del sonetto. Il risultato è un triplo salto mortale carpiato all’indietro. Ecco per esempio il diluvio universale in A, ovvero Genesi 6-9:

La gran bagnata allaga la vallata, 
ma fra la malta, a galla, avanza l’arca, 
la vasta cassa fatta dal navarca;
la salamandra, l’anatra palmata,
la magra talpa, la farfalla alata
s’accalcan a carcar la sacra barca:
da tal marasma, dall’amara Parca,
dal patatrac la razza va salvata!
Al caval la cavalla, al can la cagna:
da casa-stalla la tartana fa…
La masnada, passata la magagna,
all’Ararat attracca, starà là;
alzata l’ara, arata la campagna,
mal farà Cam a maltrattar papà!

Oppure, tre libri al prezzo di un sonetto, il pezzo di bravura in O di I nostri antenati di Italo Calvino:

Col corpo tronco (colpo lo mozzò)
tosto l’opposto polo non conosco:
son solo pro o contro, probo o losco”.
Col corpo-tronco torno torno vo:
non torno, no, non smonto: son Rondò!
Sorvolo l’odoroso sottobosco
con l’ombroso cotogno o l’olmo fosco”.
Corpo non ho, non soffro, non godrò:
troppo ortodosso, troppo mondo sono, 
col mondo non concordo, ognor non moro…
Con vòto protocollo o dotto tomo
– non fo com’Omobo’ – lotto col Moro,
sfolgoro, mostro onor, soccorro, sprono”.
Con molto o poco corpo son costoro!

Il gioco è spinto all’estremo nei monoversi monovocalici, lapidari e sovente felicissimi nel sintetizzare un libro:

Corrado Alvaro, Gente in Aspromonte: Là la calabra razza campa mal.

Alberto Moravia, Gli indifferenti: Cinici vip, intrighi, grigi figli.

Eduardo De Filippo, Natale in casa Cupiello: Credere nel presepe, che demenze!

Dino Buzzati, Il deserto dei tartari: Sono Drogo, lo scontro non godrò.

Giordano Bruno Guerri, Benito. Storia di un italiano, Rizzoli, 2024

Scorrevole e per molti versi apprezzabile la biografia di Mussolini realizzata da Guerri, storico del fascismo dalle molteplici pubblicazioni, presidente del Vittoriale e, così si definisce, “libertario di destra”. Il suo Benito è insieme uomo fuori dall’ordinario – e lo è stato, ridurlo a macchietta serve a poco e risulta fuorviante – e autodidatta improvvisatore e non di rado pasticcione, abitato da impulsi contrastanti, sempre calcolatore e diffidente, accentratore e sopravvalutatore di se stesso, contraddittorio (in questo il suo M. non è dissimile da quello di Scurati, con cui Guerri fuori da queste pagine polemizza), nell’opera di governo spesso distolto dalla minuzia e dal particulare. 
È interessante, ma non compiutamente convincente, la tesi che gli italiani siano stati più mussoliniani che fascisti: se può risultare vera per il consenso di massa tributato al regime e per il culto della personalità (Guerri ha notazioni aguzze sulla tendenza nostrana ad affidarsi di volta in volta agli “uomini della provvidenza”, da Berlusconi a Meloni passando per Renzi e Grillo e Draghi, ma si potrebbe risalire a Garibaldi e Crispi) è meno vera per quanto riguarda il “nocciolo duro” del fascismo, l’essenza della dittatura, quello che la contraddistingue anche nelle inevitabili correzioni di rotta (il trasformismo è male endemico della storia politica italiana) e nelle non poche incoerenze. Se il fascismo è “autobiografia della nazione”, secondo la formula gobettiana, non può essere ridotto allo specchiarsi nel capo e deve avere dei tratti che si fissano sulla tela (e che permangono anche negli eredi e nei neofascismi contemporanei: poi va da sé che nessun fenomeno storico si ripete nei suoi tratti originari, sappiamo che Meloni non farà la marcia su Roma e che Afd non incendierà il Reichstag), e invece la tesi di Guerri sembra essere che il fascismo, fuori da Mussolini, non esiste o quasi. Che è, anche nei gerarchi più colti o indipendenti – Bottai, Balbo – un accodarsi o al massimo un fare la fronda. Con tutto ciò, Benito non fa sconti né a Mussolini né al regime, conosce bene la materia, è accurato e non omette né tace niente: al massimo sorvola o riassume alcuni passaggi. Elegante nella prosa da “narratore di storia”, da biografo classico, dotato di un buon apparato iconografico e da un’asciutta ma non banale bibliografia, si legge con interesse. 

Indice dei libri proibiti, Panda, 2018 (ristampa dell’edizione vaticana 1948)

Per un mio lavoro che doveva occuparsi di censure, sono andato a ripescarmi l’Indice dei Libri Proibiti. Ed è stata una lettura istruttiva. Se pensate che il primato dell’integralismo appartenga all’Islam, per esempio agli ayatollah iraniani, sentite qui: «La S. Chiesa attraverso i secoli sostenne grandi, tremende persecuzioni, moltiplicando via via gli eroi che suggellarono col sangue la fede cristiana; ma oggi una battaglia ben più terribile le muove l’inferno, quanto subdola e blanda altrettanto deleteria, ed è la stampa cattiva… I fedeli fin da principio, benché allora per mancanza dei moderni mezzi di comunicazione fossero scarsi gli scritti, vennero dalla legittima autorità premuniti contro i libri erronei ed immorali. Già l’Apostolo delle genti (san Paolo, ndr) ottenne con la sua zelante predicazione che i neofiti di Efeso bruciassero pubblicamente i libri superstiziosi».
Ho per le mani un’edizione del 1948 dell’Indice dei Libri Proibiti, tra le ultime date alle stampe prima che la censura vaticana venisse archiviata nel 1966. La prefazione, del 1929, è del cardinale spagnolo Rafael Merry del Val, segretario del Sant’Uffizio che ha preso il posto dell’Inquisizione. Anche nel ‘900, le idee non conformi è bene che nessuno le legga. «Soltanto gli infetti di quella peste morale che corre sotto il nome di liberalismo possono vedere inflitte ferite al libero arbitrio nei freni posti dal legittimo potere al libertinaggio: come se l’uomo per questo che è padrone dei suoi atti fosse autorizzato a fare sempre ciò che vuole».
La censura è servita. Sono passati poco meno di quattro secoli da quando, nel 1557, Paolo IV crea l’Indice che viene perfezionato nel 1559. Fior di fanatico militante l’ottantenne Gian Pietro Carafa. Il suo pontificato dura soltanto quattro anni, sufficienti però per bruciare eretici (lo studente Pomponio Algieri che non ritratta la fede luterana è immerso in piazza Navona in una caldaia di olio bollente, pece e trementina), perseguitare gli avversari in seno alla curia e istituire il ghetto di Roma, con cappelli e veli gialli perché i “perfidi giudei” siano riconoscibili: le stelle gialle dei nazisti hanno il loro abietto antenato.
Sono anni di controriforma, di guerra caldissima tra le opposte fedi. È del 1555, l’anno in cui Paolo IV diventa papa, la pace di Augusta da lui aborrita che sancisce la coesistenza fra cattolici e luterani. Riprenderanno presto a sbudellarsi allegramente, in quella Guerra dei Trent’Anni che farà otto milioni di morti. Intanto a san Pietro si attrezzano. E per far vedere che non scherzano, l’8 febbraio 1600 vengono messi al bando tutti i libri di Giordano Bruno, frate domenicano. Sistemata l’opera, il 17 febbraio tocca all’autore: lo ardono vivo in Campo de’ Fiori, e soltanto nel 2000 Giovanni Paolo II esprimerà “profondo rammarico” per quell’assassinio. Segnato da quel marchio di Caino, l’Indice farà vittime illustri, condannando al rogo ideale una parte cospicua della cultura occidentale.
È vero, gran parte degli scritti presi di mira riguardano questioni religiose e sono compilati da religiosi: l’eretico, poiché ti è vicino, è più nemico (e più pericoloso) del pagano. Così viene condannato nel 1668, e stupirebbe il contrario, Il puttanismo romano, ovvero conclave generale delle puttane della corte per l’elettione del nuovo pontefice, opera fra le tante del polemista calvinista Gregorio Leti, che è stato cresciuto a mollichelle dai preti. Ma poi, e qui la faccenda si fa meno divertente, si censurano i giansenisti, nell’800 i riformatori Gioberti e Rosmini e, nella prima metà del ‘900, i modernisti che cercano di raccordare la fede con il progresso. Per eccesso di zelo, sono bandite anche due opere di sant’Agostino e di san Giovanni Crisostomo.
Ma agli altri, quelli che non frequentano la sagrestia e non baciano l’ametista al vescovo, non va meglio. La filosofia innanzitutto. Finiscono all’indice, vado in ordine alfabetico, Bacone e Bentham, Bergson e Berkeley, Cartesio e Hobbes, Hume e Kant (la Critica della ragion pura, nientemeno), Locke e Stuart Mill, Pascal e Spinoza. Nel 1900, l’onore della dannazione toccherà ai dioscuri dell’idealismo, Benedetto Croce e Giovanni Gentile: al bando l’opera omnia.
Particolare accanimento la Congregazione dell’Indice riserva all’illuminismo: a Roma ogni accenno alla ragione scatena furori incontrollati. Così via l’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert (ma i reverendi padri sono distratti, avessero letto i Gioielli indiscreti di Diderot, che trasforma i genitali femminili nella bocca della verità, si sarebbero almeno divertiti prima di censurare), vade retro in blocco a tutto Voltaire e a tre quarti di Rousseau, e poi largo alle ronde della fede, che perlustrino e scovino anche i minori. Nella retata incappano Condorcet e D’Holbach, Helvetius e La Mettrie e Montesquieu. Né migliore sorte arride ai seguaci italiani: le biblioteche dei fedeli devono sbarazzarsi di Genovesi e Filangieri, di Melchiorre Gioia e di Pietro Verri. E soprattutto di Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, che aborrisce la tortura e la pena di morte: per chi ha appiccato i roghi fino a poco tempo prima, una sgradevole voce della coscienza.
Nell’800 toccherà a liberali, progressisti e socialisti (il socialismo utopistico di Fourier e Proudhon, di Marx ed Engels non c’è traccia, così come nel Novecento non compariranno Lenin e Stalin), ma soprattutto agli aborriti positivisti: Auguste Comte ed Enrico Ferri, addirittura l’apostolo del darwinismo Paolo Mantegazza con il suo fortunato Manuale d’igiene pratica che esorta la gente comune a lavarsi: avessero potuto, gli zelanti cancellatori avrebbero messo al bando anche il bidet. Colpisce, in mezzo a tanti uomini illustri inceneriti dalla folgore, anche l’interdetto a più innocenti opere: come il Segretario galante, per esempio, che insegna a scrivere le lettere d’amore, o addirittura il Dizionario Larousse. Ma l’istruzione è farina del diavolo.
La letteratura non può passarla liscia. Esecrati Vittorio Alfieri, Pietro Aretino e si può capire (secondo Paolo Giovio “di tutti disse mal fuorché di Cristo / scusandosi col dir: non lo conosco”), ma anche l’opera omnia di D’Annunzio, Madame Bovary e Salambò di Flaubert, l’Ortis di Foscolo, la monumentale storia della decadenza dell’impero romano di Gibbon (anche l’altrettanto monumentale storia di Roma del Gregorovius: chi tocca i fili muore), Francesco Guicciardini, le Operette morali di Leopardi, Heinrich Heine, i Miserabili e Notre Dame de Paris di Victor Hugo (oggi sarebbe finito all’indice anche Cocciante che l’ha messa in musical), i Saggi di Montaigne e l’opera omnia di Anatole France e di Zola, addirittura le Favole di Lafontaine. Per i francesi, lo avrete capito, c’è un occhio di riguardo. A San Pietro pensano che siano tutti cochon: e quindi diventano vietatissime “omnes fabulae amatoriae” di Balzac, Champfleury, Dumas padre e figlio (anche I tre moschettieri, dove D’Artagnan si infila nel letto di Milady), Feydeau, Lamartine, Michelet, George Sand, Stendhal e Sue.
L’edizione 1948 dell’Indice ha un’appendice che fa i conti con il ‘900. Pensate che ci siano il Mein Kampf di Hitler oppure i Protocolli dei Savi di Sion? No, ci sono gli “sporcaccioni” Jean-Paul Sartre e Curzio Malaparte, Alberto Moravia e André Gide. Che era omosessuale e non piaceva né ai cattolici né ai comunisti. Viene in mente una burla, un telegramma apocrifo che il giorno dopo la morte di Gide, nel 1951, un anonimo spiritoso spedì al romanziere François Mauriac, cattolico e gay non dichiarato (i due sarebbero stati uniti dal Nobel: Gide lo aveva ricevuto nel 1947, Mauriac lo avrebbe avuto nel 1952). “Inferno non esiste. Stop. Puoi divertirti. Stop. André”. 

Margaret Kaplan, Bere come un vero scrittore, traduzione di Camilla Pieretti, il Saggiatore, 2021

C’è l’idromele citato da Shakespeare (Pene d’amor perduteLe allegre comari di Windsor), il Negus di Jane Austen che mi pare una bella maniera per rovinare il Porto, l’atroce eggnog con uova latte e brandy caro a Edgar Allan Poe (e a Eudora Welty), il beverone sherry cobbler che Dickens scopre in America, il moijto e il daiquiri di Hemingway, il mint julep di Faulkner (in un western degli anni ‘30 del grande John Ford, doppiato male, lo chiamavano giulebbe alla menta).
Gli scrittori bevono forte, sembrerebbe, e in molti casi bevono male. Che dire dell’hot toddy francese di Flaubert? Sidro, calvados, brandy all’albicocca, panna e cannella (per i liquori all’albicocca nutriva un’insana passione anche Simone de Beauvoir). Non può mancare ovviamente l’assenzio, la “fata verde” (ma con l’assenzio di oggi a 30° visioni e allucinazioni stanno a zero), c’è Yeats che corregge il gin con vermut e lamponi (le variazioni su whisky e gin riempiono i tre quarti del libro, con rum e vodka nelle retroguardie), Virginia Woolf che sulla scorta di Aphra Benn prepara un punch al latte che mi pare complicato quanto evitabile, George Orwell che saggiamente detta istruzioni per preparare il tè, Eugene O’ Neill che sceglie il Gibson (interessante l’idea di complicare il gin, oltre che con il solito vermut, con la salamoia delle cipolline), un atroce “Morte nel pomeriggio” patrocinato da Hemingway (assenzio e champagne), il proto Cuba Libre di Flannery O’ Connor (rum, coca cola e caffè), il probabilmente ottimo Zubrowka di Somerset Maugham (vodka polacca con l’erba del bisonte, succo di mela, lime per guarnire) e il probabilmente pessimo Stinger di Evelyn Waugh (créme de menthe, vermut e brandy). 
Che altro? Frank O’ Hara, poeta americano a me ignoto, mescola Strega e coca cola, mentre Alice B. Toklas compagna di Gertrude Stein suggerisce un’affascinante macedonia estiva (la frutta, raccolta dentro un melone scavato, è innaffiata di champagne, con due cucchiai di kirsch e due di crema di menta). Eccetera eccetera.
Insomma, cento scrittori e cento bevande: idea carina, libretto simpatico, con qualche svarione: Steinbeck che avrebbe ricevuto il Nobel nel 1922, in realtà era il 1962; una polemica epistolare fra Byron e Hawthorne che pare improbabile controllando le date. 
La cosa più divertente sono i rimedi antisbronza, con molti scrittori che teorizzano la necessità del “richiamino”, cioè bere – in dosi più moderate – lo stesso bruciabudella che ti ha steso la sera prima. Inutile dire che, dal punto di vista medico, il richiamino – che postula una qualche crisi di astinenza – ha meno fondamento di quanto ne abbia curare il covid con la liquirizia, ma tant’è. 
Comunque, Raymond Carver e John Cheever preparano dosi da cavallo di un loro Bloody Mary “defibrillante” (un litro di succo di pomodoro, mezzo litro di vodka, più liquido di cetrioli sottaceto, limone, rafano, tabasco, worcester, sale kosher, gambi e semi di sedano, pepe, peperoncino e gamberi), mentre Noel Coward si affida all’Horse’s Neck (brandy, tre gocce di angostura, ginger ale) accompagnato da tre aspirine. Più familiarmente fantasioso Kingsley Amis padre di Martin, che si prepara un brodo con l’estratto e ci aggiunge vodka, worcester e limone. Gli altri? Più rudi e spicciativi: birra e succo di pomodoro (Hemingway), una nuotata mattutina seguita da un vodka lemon (Zelda Fitzgerald), tre whisky forti (suo marito Scott), quando non oltranzisti: sei uova fritte, laudano e seltz (Samuel Taylor Coleridge), dodici nitrati di amile e tante birre quante è necessario (Hunter S. Thompson). 
Popolare a suo tempo come lo erano il suo Bertie Wooster e il suo Jeeves il rimedio suggerito da P. G. Wodehouse – mio fratello Nino dice di averlo provato quando aveva vent’anni, dunque sessant’anni fa, su consiglio medico – che somministra salsa Worcestershire, un uovo crudo e un peperoncino di Caienna sbattuti insieme. 

Giles Milton, L’isola della noce moscata, Nutrimenti Mare, 2025

«La noce moscata, il frutto dell’albero, era il lusso più ambito dell’Europa del diciassettesimo secolo. Si trattava di spezie ritenute in possesso di tali formidabili virtù terapeutiche che gli uomini rischiavano la vita pur di ottenerle. Da tempo assai cara, lo era diventata ancor più quando i medici della Londra elisabettiana avevano cominciato ad affermare che le loro palline di noce moscata fossero l’unica cura certa contro la peste, quella “nociva pestilenza” che cominciava con uno starnuto e finiva con la morte. Da un giorno all’altro, questa piccola noce avvizzita – finora usata per curare la flatulenza e il comune raffreddore – divenne preziosa come e più dell’oro».
Ha mille altri usi miracolosi, il seme della Myristica fragrans: cura la dissenteria e la colite ulcerosa, regola la virilità mitigandone gli eccessi e risvegliandola quando è carente. E poi rallenta la putrefazione delle carni. Questa pianta prodigiosa, allora, cresceva soltanto nell’atollo vulcanico di Run, oggi neppure segnato sulle carte geografiche, ieri la più estrema delle isole Banda al largo dell’arcipelago indonesiano verso l’Australia. 
Tra il 1511, data in cui i portoghesi vi approdano per la prima volta, e il 1667, quando a Breda viene siglata la pace fra inglesi e olandesi, l’isolotto è oggetto di contese feroci. Questo libro affascinante le ricostruisce, facendo sfilare mercanti e avventurieri, pirati ed esploratori, marinai e militari. Dopo un secolo e mezzo di guerre, vincono gli olandesi e gli inglesi, assediati da anni, lasciano l’isola. Sarà una vittoria di Pirro, per due buone ragioni. In primo luogo, gli inglesi che abbandonano Run recano nelle stive cinquanta pianticelle di noce moscata che, trapiantate a Ceylon, toglieranno il monopolio della spezia all’atollo indonesiano. E in secondo luogo, l’accordo di Breda del 1667 scambia due territori: agli olandesi viene confermato il possesso del prezioso isolotto di Run che di lì a poco si sarebbe inaridito, mentre gli inglesi ricevono in cambio un altro isolotto di nessun valore strappato agli olandesi in terra americana: New Amsterdam, che viene ribattezzata New York. Un capitolo poco noto della storia delle esplorazioni, narrato con brio e gusto per il dettaglio romanzesco. 

Stefano Pelaggi, Il colonialismo popolare, Ed. Nuova Cultura, 2015

Sottotitolo, “L’emigrazione e la tentazione espansionistica italiana in America Latina”. Ovvero il colonialismo senza colonie dell’Italia fino all’avventura africana, che supplisce all’assenza di territori con un’attività di supporto agli emigrati. L’attenzione per l’America Latina è presto spiegata: sono nazioni di recente indipendenza, hanno scarso peso sulla scena internazionale e ospitano folte colonie italiane. Aiuto agli emigrati, soprattutto a chi si è fatto imprenditore, diventando una sorta di quinta colonna di Roma. Una politica rapsodica, contraddittoria, spesso improvvisata: nessuna linea guida, scarso personale diplomatico, poca attenzione ai diritti conculcati degli italiani quando siano povera gente (fa eccezione il caso Volpi-Patroni ingiustamente accusati di omicidio in Uruguay) e una difesa tignosa delle rivendicazioni dei nostri “uomini d’affari”, anche quando appaiono non del tutto limpide (le cannoniere italiane che in due occasioni minacciano di bombardare la Colombia per difendere lo spregiudicato Ernesto Cerruti contrabbandiere d’armi e monopolista del sale e del chinino). In altre occasioni (il blocco navale del Venezuela agli inizi del ‘900) un accodarsi alle grandi potenze di allora (Stati Uniti, Inghilterra, Germania) per “fare bella figura” sulla scena internazionale. Colpisce l’ampiezza dei moti anti-italiani (in Brasile, in Ecuador). Il ruolo di supplenza della marina militare rispetto alle vaghezze della Farnesina. Le “officine dell’espansione”: la Società Geografica Italiana, l’industria marittima ligure (come per il Corno d’Africa). Servirebbero altre storie e racconti sull’ur-colonialismo italiano in Madagascar, Argentina, Brunei e Papua. 

A. François Villon, Lascito, Testamento e poesie diverse, traduzione di Mariantonia Liborio, Rizzoli, 1990
B. François Villon, Opere, traduzione di Emma Stojkovic Mazzariol e Attilio Carminati, Mondadori, 1971 
C. François Villon, Il Testamento e la Ballata degli impiccati, traduzione di Antonio Garibaldi, Einaudi, 2010

Riprendere i classici è esercizio salutare, ogni tanto lo faccio. Stavolta mettendo a confronto tre versioni italiane del “poeta maledetto” per eccellenza, caro a De André quanto Rimbaud è caro a Dylan e Patti Smith.
A. François Villon è autore meno immediato di quanto si pensi, non date retta ai cantautori. Da studiare, come la Divina Commedia di Dante. O almeno da leggere con un minimo di attenzione e con qualche malizia, senza credere a tutte le storie sul poeta malvivente che componeva i suoi versi tra un furto e un’ammazzatina. Da seguire con le note per capire chi nomina, che cosa vuole dire, che giochi inventa e quali trucchi combina. Dice: ma sì, Paolo e Francesca, “amor c’a nullo amato amar perdona”, dove sta il difficile? Ulisse, “fatti non foste a viver come bruti”, lo capiscono tutti, no? No. Tutti possono capirlo, ma a meno di non leggere saltando di cantica in cantica e svolazzando di fiore in fiore (che in genere può andar bene, per Dante è un’occasione persa), Currado Moroello o Michele Zanche o Buondelmonte dei Buondelmonti servirà che ce li spieghi qualcuno. Un dantista eccelso come Gianfranco Contini, un divulgatore charmant come Vittorio Sermonti, ma va benissimo anche un attore innamorato di Dante come Roberto Benigni. 

Per Villon è lo stesso. Certo, uno si ferma a

Fratelli umani che ancora vivete,
Non siate duri di cuore con noi,
Se pietà di noi poveri avrete,
Dio avrà più presto di voi misericordia.
Ci vedete qui appesi, cinque, sei:
La nostra carne troppo nutrita
Da un pezzo è divorata e imputridita,
E noi, le ossa, siamo cenere e polvere.
Del nostro male nessuno voglia ridere,
Ma Dio pregate che ci voglia assolvere.

E dice, come no, La ballata degli impiccati, bellissima, che c’è da capire? Vero. Come è vero che scivolano via tranquille molte strofe del Lascito e del Testamento. Ma provate a decifrare senza una mano di aiuto gli otto versi che dicono:

Item, al signore di Grigny
Lascio la guardia di Nigeon,
E sei cani più che a Montigny,
Bicetre, castello e torrione;
E a quel maleducato bastardo del diavolo, 
Moutonnier, che gli ha fatto un processo,
Lascio tre colpi di scudiscio
E dorma in santa pace ben legato.

Il signore di Grigny è un nobilotto litigiosissimo e vanaglorioso, a cui vengono donate delle rovine. I cani stanno per sbirri, rappresentanti della giustizia (insomma, come a dire: che la giustizia gli corra dietro, come fa con lo scapestrato Regnier de Montigny). E Mouton o Moutonnier è un personaggio inventato: per l’esattezza è il falso nome che Villon (uno dei Villon, ci arriveremo) diede al barbiere da cui si fece medicare dopo avere ucciso un prete. Particolari. Pedanti forse, ma non inutili. Uno poi li dimentica ma intanto, mentre legge, capisce che razza di mondo giudica questo François Villon. 
Già, perché non vi sarà sfuggita l’analogia. Dante, con la Commedia, si toglie il gusto di compilare la sua personale classifica di cattivi e buoni, del passato e del suo presente (le cose non sono così semplici, ma insomma…). 
E Villon, sotto il pretesto del “testamento”, parodiando il linguaggio notarile (ma anche il latinorum dei chierici, l’osceno delle canzoni da taverna, il linguaggio cortese della “belle dame sans merci”, il languore esistenziale dei nati sotto Saturno), regala averi immaginari e calci in culo, tesori e frustate, a tutta Parigi e a mezza Francia. Due giudizi universali in versi. Uno cominciato “nel mezzo del cammin di nostra vita”, l’altro “en l’an de mon trentiesme aage”. Con una differenza. Di Dante sappiamo tutto, di Villon tutto quello che sappiamo (compresa l’interpretazione dei documenti dove compare il suo nome, ad opera di critici e scrittori che a fine ‘800 si lasciano sedurre dal maledettismo) è con molta probabilità falso, leggendario. In questa ottima edizione la curatrice Mariantonia Liborio lo spiega benissimo. 
Con un notevole spiegamento di filologia, ma senza neanche una punta di pedanteria. Anzi, se posso esagerare, usando la filologia come un detective userebbe i ferri del mestiere, quasi trasformando la caccia all’autore in un mystery letterario. Ecco, provate a prenderla così: tutte queste note, queste spiegazioni, come indizi di un giallo (in un bellissimo saggio del 1979, Spie. Radici del paradigma indiziario, Carlo Ginzburg paragonava il lavoro dello storico a quello di Sherlock Holmes). E allora, senza entrare troppo nei particolari, ci sono il Lascito del 1456, il Testamento del 1461, e una serie di “poesie diverse” composte fra il 1457 e il 1461. Talvolta firmate in acrostico Villon. In cui l’io narrante si chiama François. 
E ci sono dei documenti che parlano, per fatti identici (l’uccisione di un prete per cui viene “perdonato”, un furto per cui è condannato all’impiccagione, pena commutata nell’esilio) di “François de Monterbier maitre ès arts” e di “François des Loges autrement dit Villon”. 
I due malfattori sono la stessa persona che ha scritto quei versi? Oppure gli studiosi hanno fuso e confuso persone diverse? E chi ha scritto quei versi poteva frequentare con disinvoltura le taverne e le galere (nella biografia – reale, immaginaria? – che si è andata agglutinando attorno a Villon c’è anche un soggiorno in carcere, a Meung) ed essere al tempo stesso intimo e sfidante in versi del principe Charles d’Orleans alla corte di Blois? Mariantonia Liborio ha una certezza: «La ricerca andrebbe completamente riimpostata e dovrebbe diventare indiziaria». 
E suggerisce un’ipotesi: che ci sia un autore x che si è firmato con lo pseudonimo Villon. Raccontando di un personaggio Villon (studente squattrinato, malfattore, magro come un chiodo, affamato, ridotto alla disperazione da un’amante crudele ecc) che quasi certamente non corrisponde all’autore. Un bel colpo di scopa sull’immedesimazione tardo-romantica e maudit tra arte e vita. La Liborio dà conto anche degli studi più recenti, che identificano di volta in volta Villon con «un omosessuale al servizio dei corrotti ecclesiastici parigini», un rappresentante del partito borgognone o addirittura dell’università, un uomo di teatro» (lo stesso che avrebbe scritto l’anonima Farce de Maitre Pathelin).
In assenza di prove, con decenni di ricerche delle quali è lecito dubitare, la Liborio propone di partire dai testi. Che ci rendono un autore scaltrito, un eversore del linguaggio, un abile manipolatore e sabotatore di codici poetici diversi, che mette alla berlina le convenzioni “cortesi” ma possiede una straordinaria perizia nel fare rampollare poesia dai pretesti retorici dei verseggiatori di corte. Ecco allora, le note o una maggiore attenzione servono a questo: a cogliere la finzione letteraria, la recita, a vedere il giocoliere in azione. Per esempio, quando modula il tema del tempo che trascorre inesorabile, adattandolo alle “filles de joie”, ai santi apostoli e agli imperatori, o alle “dames du temps jadis” (provate ad ascoltarla su YouTube questa ballata, musicata da Georges Brassens nel 1953):

Ditemi dove, in che contrada
È Flora, la bella romana, 
Alcibiade o Taide,
Che fu sua cugina germana,
Eco che parla se la voce si rincorre
Al di sopra di un fiume o su uno stagno,
La cui bellezza fu troppo più che umana.
Ma dove sono le nevi dell’altr’anno?

C’è un commosso e misurato senso della caducità in questa come nelle altre ballate. Che ci giungono in un francese arcaico ma dolcissimo e musicale. Altrove, l’autore detto Villon mostra un’abilità suprema a comporre su un tema prestabilito, su un verso offerto come pretesto. 
Avviene in una delle poesie che preferisco, la cosiddetta Ballata delle contraddizioni, in cui gareggia con Charles d’Orleans. Comune ai due è il primo verso, “Je meurs de seuf auprés de la fontaine”, ma al garbo un po’ esangue del principe (la sua poesia si trova in appendice a questo volume) il nostro replica con una girandola d’invenzioni (in francese è meglio, andate a controllare):

Muoio di sete vicino alla fontana,
Caldo come il fuoco tremo verga a verga,
Nel mio paese sono in terra lontana,
Presso il braciere tremo tutto ardente,
Nudo come un verme, vesto da presidente,
Rido piangendo e attendo senza speme,
Mi riconforto in triste disperare,
Mi rallegro e non ho alcun piacere,
Sono potente senza forza né potere,
Ben ricevuto, da tutti rifiutato.

E via per altre tre strofe. Sembra facile, non lo è affatto. Anche perché tutti i contrasti devono comporre un ritratto in armonia con le altre raffigurazioni di sé che il personaggio-autore aveva dato. C’è chi strappa gli applausi con molto meno. Di fronte al tema delle contraddizioni, il grande Petrolini se la cavava con «Son contento di morire ma mi dispiace / mi dispiace di morire ma son contento». E veniva giù il teatro.

B. Villon uno e bino. Riassunto della puntata precedente. Nell’edizione Rizzoli di Lascito e Testamento, la curatrice Mariantonia Liborio sostiene che il François Villon ricostruito da storici e critici è, in larga parte, un personaggio leggendario. La documentazione persino eccessiva, è la tesi, mette in sospetto: e se fossero state fuse in una più persone? Se Villon fosse soltanto uno pseudonimo? Se la “vita spericolata” che la sua produzione poetica adombra appartenesse al personaggio e non all’autore? Se non fosse altro che una calcolata finzione letteraria?

L’edizione Villon curata da Emma Stojkovic Mazzariol nel 1971 per i Meridiani Mondadori, con una prefazione di Mario Luzi e la traduzione condotta dalla stessa curatrice assieme ad Attilio Carminati, non si discosta invece dal “canone Villon”: il chierico traviato che prende parte a risse, ruba e uccide, conosce la prigione a più riprese, evita per un soffio la forca e, dopo il bando da Parigi nel 1463, fa perdere le tracce. Un’ampia e dettagliata cronologia suffraga le sue imprese mariolesche e artistiche. 
Con qualche distinguo e qualche sottolineatura: Stojkovic Mazzariol dà conto della “leggenda Villon”, che già alla fine del XV secolo sovrappone al “vero Villon” un personaggio da farsa popolare, «homme diligent a tromper, devant et derriere», e della costruzione di Villon sino agli inizi del ‘900. Cita Rabelais che gli accredita un soggiorno inglese alla corte di Edoardo V dopo il 1463 e lo fa autore di una beffa atroce (e mortale) giocata, con i suoi attori vestiti da demoni, al frate Etienne Tappecoue. Ed è avvertita delle parti di parodia e sabotaggio (del linguaggio cortese, per esempio) che l’opera di Villon contiene.
Tutto qui però. E anzi la prefazione di Mario Luzi calca la mano, se non sul peccatore pentito, quanto meno sull’uomo combattuto fra peccato e pentimento, consapevole di avere infranto norme che egli stesso ritiene giuste. E colloca l’autore nel quadro della desolazione, delle macerie, della miseria e dell’anarchia civile che possiedono la Francia, lascito inevitabile della crudele Guerra dei Cent’Anni, con gli inverni polari e i lupi alle porte delle città. Un’edizione rassicurante, dunque. Piacerà al lettore che non si vuole discostare dal monumento tardo-romantico e maudit. Perché consigliarla comunque, pur con queste riserve (a me l’ipotesi avanzata dalla Liborio pare suggestiva e, per quello che posso capirne non facendo parte della confraternita dei filologi, fondata)? Perché la traduzione è eccellente, quasi sempre superiore a quella dell’edizione Rizzoli. Prendiamo per esempio la cosiddetta ballata del concorso di Blois, della quale avevo riportato la versione rizzoliana. Qui suona, ed è un gran bel suonare: 

Muoio di sete accanto alla fontana,
caldo di fuoco i denti sto battendo;
il mio paese mi è terra lontana;
presso un braciere abbrividisco ardendo;
nudo qual verme, in ricco vestimento,
rido nel pianto e sto senza sperare;
mi dà conforto il triste disperare;
gioisco eppur non ho piacere alcuno;
sono potente e nulla posso fare,
bene accolto, respinto da ciascuno. (…) 

Oppure prendiamo la Ballata dei proverbi:

Tanto raspa la capra che mal giace,
tanto va l’orcio all’acqua che si spacca,
tanto si scalda il ferro che par brace, 
tanto lo picchia il maglio che lo fiacca, 
tanto l’uom vale quanto lo si apprezza,
tanto va lungi che ignoto diviene,
tanto è malvagio che lo si disprezza,
tanto si grida Natale! che viene. 
Tanto uno parla che si contraddice,
tanto val fama che grazia ottenuta,
tanto promette l’uom che si disdice, 
tanto invochi una cosa ch’è ottenuta, 
tanto è più cara e più vien ricercata,
tanto si cerca che al fin la si ottiene,
tanto è più facile e meno invocata,
tanto si grida Natale! che viene. 
Tanto ami il cane che lo vuoi sfamare,
tanto vola canzon che la si apprende,
tanto si serba un frutto che va a male, 
tanto assalti fortezza che si arrende,
tanto ritardi che manchi l’impresa,
tanto si ha fretta che mal sopravviene, 
tanto si abbraccia che cede la presa,
tanto si grida Natale! che viene. 
Tanto ti beffi che poi più non ridi,
tanto si spende che nudi si resta,
tanto si è larghi che si è bell’e fritti, 
tanto val: “Prendi!” che cosa promessa,
tanto ami Dio che alla Chiesa ti unisci, 
tanto si dona che chieder conviene,
tanto va il vento che in borèa finisce,
tanto si grida Natale! che viene. 
Prence, tanto va il folle che rinviene,
tanto egli vive che alfin si ricrede, 
tanto lo battono che si ravvede,
tanto si grida Natale! che viene. 

Inoltre, l’edizione Mondadori possiede due interessanti “bonus”: sei delle ballate argotiche scritte nel gergo criptico e iniziatico dei cocquillards (sull’attribuibilità a Villon i filologi continuano a litigare) e i documenti giudiziari che hanno reso più vera del vero la vita scellerata del poeta. 

C. Un avvocato genovese, Antonio Garibaldi, offre una nuova versione di Villon, Einaudi anticipa con questa plaquette un lavoro più ampio. Garibaldi rende Villon in endecasillabi, senza rima. Avverte la quarta di copertina: «Il rischio è che la ricostruzione metrica faccia perdere troppo del senso, delle immagini o dell’impianto retorico del componimento». E assicura che, con Garibaldi, il rischio è scongiurato. Io non ne sono così certo.

La nuova versione è dignitosa e gradevole ma non offre elementi di novità e talvolta sacrifica troppo al dio colloquial-modernista. E al gusto di una semplificazione quasi da canzone. Prendiamo la sua resa della quarta strofa del Lais:
E se i suoi dolci sguardi mi hanno vinto
e mi hanno conquistato i suoi sembianti
– che in bocca mi han lasciato poi l’amaro
ma prima mi trafissero anche i lombi –
ora è tutto finito e mi ritrovo
solo e mazziato all’ora del bisogno. 
Sicché devo piantarlo in altre zolle
e battere monete d’altro conio.

A parte quell’atroce «solo e mazziato», ora tutto è finito in Villon non c’è: al traduttore serve come pleonasmo per riempire il vuoto lasciato dalla metafora che paragona i dolci sguardi a piedi bianchi. Almeno, Stojkovic Mazzariol, nella versione Mondadori, aveva azzardato (peraltro con molta maggiore letteralità complessiva) una similitudine, abbastanza pertinente nella poetica anti-cortese di Villon, degli occhi con le zampe di un cavallo:

E se troppo presi a mio favore
quei dolci sguardi e bei sembianti
di così perfido sapore,
che mi entravano fino ai fianchi, 
come balzani dai piedi bianchi
mi mancano nel gran bisogno (et me faillent au grant besoing).
Conviene che altrove io mi pianti
e vada a battere in altro conio.

Si potrebbero fare altri esempi dove Garibaldi arrotonda, aggiunge, ipertraduce: nei Rimpianti della Bella Elmiera, una delle ballate del Testament, le antiche grazie della vecchia vengono dettagliate più di quanto non faccia Villon. Così, «petiz tetins, hanches charnues» (piccoli seni, anche carnose) diventa un distico: «i seni piccoli ma sodi e a punta/ le anche carnose, robuste e elevate». 
Non so, sono perplesso. E continuo a preferire la vecchia edizione Mondadori. 

Giorgio Zanchini, La libreria degli indecisi, Mondadori, 2024

Un piccolo appunto per questo libro letto in treno. Garbato, stimolante e colto senza ombra di sussiego. Letture che ci insegnano il coraggio di non scegliere, dice il sottotitolo. Libri (ma anche dischi: Dylan, Springsteen, De Gregori) per non sentirsi soli, per rispecchiarsi e trovare conforto, conferme o smentite. L’elenco è lungo: Kafka a braccetto con Fellini (il circo dell’Oklahoma), Montale, i greci ed Hemingway, Zeno e Swann, san Paolo e Moretti, Conrad e gli “stranieri a loro stessi” (il Mersault di Camus e lo Stavrogin di Dostoevskij), Karenina e Bovary e Salinger, la cattedrale di Vargas Llosa, quelli che preferiscono di no (Bartleby, Oblomov, Buscaino, Ulrich). Per concludere con Don Chisciotte, Amleto e Claudio Magris. Un promemoria più che una recensione, per un libro al quale mi capiterà di ritornare, anche soltanto per controllare: vediamo che cos’ha detto Zanchini. 

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