Il paradosso di Bramante

In Weekend

Ha trasformato la faccia di Milano, ma di suo è rimasto ben poco. Itinerario urbano sulle tracce di colui che fu artefice dell’architettura nuova

Qual è il paradosso della mostra Bramante a Milano  in corso a Brera?  E’ che di suo ci sono solo poche opere e non perché sia un’esposizione incompleta, ma perché di sicuro, autografo, a Milano non è rimasto quasi nulla. La parte interessante è che, invece, attraverso l’analisi di documenti e opere della sua cerchia si ricompone un ritratto di un artista che ha trasformato la faccia di Milano.

Quando ci arriva nel 1481 è un qualsiasi architetto marchigiano che aveva lavorato in diversi cantieri, l’unico documentato a Bergamo. Nello stesso anno esce un’Incisione dell’orafo Prevedari che riproduce un suo disegno. Strepitosa. E’ un interno visionario di un edificio all’antica con una scenografica pianta a corona su cui si apre una fuga di celle. Di dimensioni eccezionali: 700 x 510 mm, ne restano solo due esemplari. La stampa diventa una specie di manifesto della nuova architettura e tutti gli artisti fin della provincia ne saccheggeranno gli elementi: volte a cassettone o forate, oculi, fregi, archi poggianti su pilastri anziché su colonne, formelle in cotto alle pareti e soprattutto l’unità compositiva data dalla vertiginosa prospettiva del colonnato per organizzare lo spazio. Nella mostra di Brera sono tutti bramanteschi gli sfondi delle pale di Zenale, Foppa (in alto La Madonna del Tappeto), Bramantino.

Chiamato a lavorare a San Satiro, Bramante ne travolge l’impianto carolingio applicando le sue soluzioni che sembravano fantastiche. La chiesa è in via Torino, incassata tra due palazzoni. Soffocata, di piccole dimensioni, entrando ha invece  un respiro monumentale. Le navate sono coperte da grandiose volte a botte con cassettoni dipinti; all’incrocio dei bracci si apre una cupola emisferica, che resta la cifra stilistica di Bramante. Ma la magia vera è l’abside, profonda, con una fuga infinita di volte. Da vicino, spostandoci di lato, ci accorgiamo che è un’illusione, una finta fuga prospettica in stucco. Non si riesce a credere alla meraviglia, all’inganno. La profondità è di soli 95 cm: il mago Bramante inventa il trompe l’oeil. Tutto l’edificio è decorato con formelle e stucchi in bianco, azzurro e oro. Magnifica la Sagrestia, a pianta ottagonale, fra le lesene si aprono nicchie concave e a conchiglia. Ad aumentare l’illusione spaziale, una finta galleria aperta da bifore sostiene la cupola, qui gli stucchi sono dipinti a bronzo.

Bramante insomma adatta il linguaggio al contesto, capisce cosa vuole la sua committenza. Fonde il classicismo rinascimentale con la tradizione lombarda, inventando un linguaggio nuovo, fatto di illusioni spaziali, di materiali poveri, terracotta colorata, stucco, affresco, fortemente emotivo e insieme facilmente riproducibile. In pochi mesi e con poca spesa (cotto e stucchi costano poco e si riproducono in serie con stampi) riesce a completare l’opera, a differenza della tormentosa ricerca del contemporaneo Leonardo. Purtroppo non resta un disegno preparatorio; si ipotizza che Bramante fosse un uomo di cantiere, schizzava e lavorava insieme alle sue maestranze e i disegni si passavano e si consumavano.

Visto il successo, Bramante partecipa a tutti i concorsi importanti, dal Duomo, alla Certosa di Pavia, alla deviazione del Po… Di suo però resta poco o niente, salvo Santa Maria della Grazie del 1490. Anche questa volta deve progettare su una chiesa già esistente. Ma il committente è Ludovico il Moro, i mezzi non mancano. Fa abbattere il coro e costruisce una grandiosa tribuna, alta il doppio rispetto alla precedente. Percorrendo la chiesa, è fortissimo il contrasto tra le navate tardo-gotiche del Solari e l’impianto rinascimentale del Bramante. Sembra di entrare in un altro mondo, un trionfo di luce, di geometrie. La tribuna è un grande cubo sormontato da quattro arcate che sostengono la cupola bianca, semisferica, la più alta mai costruita dopo Santa Maria del Fiore. All’apice si apre il foro del lanternino, altra costante del suo stile. L’abside centrale e le due laterali sono sostenute da fughe di arcate, lesene; al centro si ripete il motivo della ruota radiante, dischi di vetri policromi da cui filtra, magica, la luce.

Accanto, il Chiostrino, piccolo cortile quadrato, cinto da portico ad arcate dalla ghiera in cotto, altro imprinting dei palazzi lombardi.Ma i prototipi dei chiostri sono per il convento di Sant’Ambrogio, inglobati oggi nell’Università Cattolica. Le colonne sono rispettivamente di ordine dorico e ionico, novità vitruviana per quei tempi, e le arcate sono altissime: 7,5 metri, modello ideale per i soffitti di mense e biblioteche.

I lavori vengono interrotti nel 1499 dalla partenza improvvisa per Roma, dove Bramante diventa il primo architetto di Giulio II: lo vediamo ritratto in una medaglia in bronzo con la personificazione dell’Architettura e S. Pietro sullo sfondo. Ora l’influenza è quella delle rovine classiche, il linguaggio si fa severo, monumentale, il marmo è il suo materiale, abbandona il decorativismo degli anni milanesi, ma resta la concezione organica dell’architettura, la rispondenza cioè di ogni particolare con la visione d’insieme.

Bramante a Milano. Le arti in Lombardia 1477-1499. Alla Pinacoteca di Brera fino al 22 marzo

(Visited 1 times, 1 visits today)