I due clown di Pinter

In Teatro

Nel “Calapranzi” i due sicari Alberto Onofrietti e Fabrizio Martorelli conducono il gioco di humour nero dell’autore inglese le cui domande esistenziali non sono invecchiate nel tempo

Note di musica jazz. Le sagome di due uomini nel buio si dirigono insieme ai bordi di una camera. A poco a poco ci si catapulta nel paradossale universo pinteriano del Calapranzi, rinnovato dalla regia di Antonio Mingarelli sul palco del Teatro Out Off di Milano.

La misteriosa missione dei gangster protagonisti si svolge tra le pareti di una stanza quasi vuota, in cui due letti separano i caratteri dei protagonisti: a sinistra la serietà e la compostezza di Ben, a destra la curiosità ingenua di Gus, che come uno strano acrobata invade lentamente l’intero spazio sotto gli occhi spazientiti del compagno. Due anime contrapposte, eppure due facce della stessa medaglia, attorcigliati nelle corde di un microcosmo enigmatico, a cui tentano di dare la medesima soluzione però secondo direzioni diverse.

In una sorta di concertato teatrale Alberto Onofrietti e Fabrizio Martorelli vestono rispettivamente i panni di Ben e Gus e s’ispirano nella loro interpretazione a un intreccio di modelli espressivi: subito Martorelli afferra l’energia della rappresentazione con la purezza infantile e il piglio evocativo di un clown rosso, intonato allo sguardo razionale di Onofrietti, degno clown bianco; entrambi si addentrano, per così dire, con cautela nella complessa partitura comica di Pinter, rispettandone la delicatezza e alternando sempre ritmicamente un passo tra l’umorismo nero e ironico e un altro nella tesa serietà della circostanza vissuta in scena. Il flusso emotivo dei dialoghi diventa allora una sinfonia di accordi molteplici, che non esclude la violenza di brevi momenti e una malinconica commozione, più vigorosa di fronte al destino inesorabile dei due sicari.

Ciò rivela un’attenzione paziente e un rispetto della drammaturgia che per primo opera Antonio Mingarelli. Il regista cerca di decifrare e nello stesso tempo si pone al servizio del testo, senza voler tuttavia svelare a tutti i costi le risposte dietro al codice pinteriano ma valorizzando le parole dell’autore. Ecco allora che il meccanismo del drammaturgo inglese può mostrarsi al pubblico nelle sue forme più profonde, dall’eloquenza del non detto, alla sorprendente scoperta di ciò che si nasconde tra le righe delle frasi pronunciate, fino agli indizi sibillini che verso il finale presagiscono l’inevitabile. Mingarelli sospende la conclusione; ciò che conta è mettere a nudo gli ingranaggi di un sistema che due personaggi cercano a loro modo di interpretare e governare.

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Il piccolo mondo di Ben e Gus dai muri del famoso scantinato s’ingrandisce e si proietta nell’esistenza del pubblico. Harold Pinter con il Calapranzi sembra lasciare un eredità anche per il nostro tempo: un groviglio di schemi e discorsi apparentemente alla rinfusa, una matassa che solo in parte può essere districata; le domande che emergono sono importanti tanto quanto le risposte; alla fine noi, come i protagonisti dell’opera, forse non possiamo fare altro che affrontare con calma quel rebus di contraddizioni e quesiti, scegliendo simbolicamente da che parte stare per vivere all’interno dei suoi contorni.

Il calapranzi di Harold Pinter, regia di Antonio Mingarelli, al teatro Out Off fino al 28 giugno

(foto di Attilio Marasco)

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