I mille fili, rossi (russi) e non, di Riccardo Chailly

In Musica

Prokoviev, Donizetti, il Mahler dell’ottava sinfonia detta “dei Mille”, e infine Brahms. Mai come oggi il direttore d’orchestra ha impresso un segno così distinguibile sulla Scala e sulla Filarmonica

Dicembre 2022: Boris Godunov per la prima volta alla Scala come Musorgskij la pensò, la scrisse e invano pretese che fosse eseguita; concentrata e modernissima come fosse già un’opera di Janacek.
Aprile-maggio 2023: Lucia di Lammermoor di Donizetti limpida, trascinante, con voci vicine all’ideale del belcanto (lei senz’altro: Lisette Oropesa).
Maggio (18, 19, 20): l’Ottava Sinfonia di Gustav Mahler, detta “dei Mille” , riportata alla Scala dopo 53 anni con la forza e la qualità che uno dei più colossali riti sinfonico-vocali chiede (pubblico in delirio).
Lunedì 22 maggio: il Brahms del Concerto per violino e della Sinfonia n.1 tornito con pienezza, senza retorica, smagliante.
Mai come oggi, da quando è direttore musicale (2017), Riccardo Chailly ha impresso un segno così distinguibile sulla Scala e sulla Filarmonica di questi anni. Potremmo dire cinque impronte, come le dita di una mano.

Il filo rosso /russo
Quando nemmeno si profilava all’orizzonte che un’operazione militare speciale facesse franare perfino le vie del pensiero – operazione specialissima, che pianta con orgoglio la bandiera su rovine fumanti –, Riccardo Chailly ha fatto sua la musica russa. Čajkovskij e Prokof’ev sono nelle sue corde più sensibili. Una fila di concerti, alcuni strepitosi, stanno a dimostrarlo (16, 18, 19 gennaio). Ma con il Boris Godunov dell’ultimo 7 dicembre si è toccato un punto estremo.

Boris Godunov (foto Brescia e Amisano)

Chailly ha avuto ragione su tutto: nello scegliere la prima versione che Musorgskij consegnò alla commissione per ottenere il via libera dei teatri imperiali (che non ottenne, almeno al primo colpo); nel difendere un’opera russa, in tempi bui, contro ogni obiezione sulla sua “opportunità”; nel fare quadrato attorno a una compagnia di canto di madrelingua (con chi la fai un’opera russa se non con cantanti russi? basta che non siano clamorosamente schierati con la Wagner sbagliata); nello sbalzare un’opera del 1869 come fosse un’anticipazione del nuovo secolo, pur dolorosamente sacrificando la musica bellissima (Atto polacco) scritta più tardi per assecondare il gusto del tempo. Generazioni di italiani, non solo alla Scala, hanno conosciuto l’opera russa più bella nella versione riscritta da Rimskij Korsakov. Con il Boris di Chailly viene difficile tornare indietro perfino alla versione più “onesta” di Šostakovič.

Lo spirito italiano
A un direttore che per otto anni si è fatto le ossa con l’Orchestra di Radio Berlino (1980-88), per sedici anni ha diretto il Concertgebouw di Amsterdam, per undici il Gewandhaus di Lipsia, che dal 2016 guida l’Orchestra del festival di Lucerna, schiere di melomani allarmati dal profilo “sinfonico” chiedono ogni volta di dimostrare che non si è dimenticato del teatro, soprattutto italiano (comunque coltivato anni fa al Comunale di Bologna). L’attesa per la Lucia di Lammermoor di aprile-maggio, fremeva di questa preoccupazione. Spazzata via.

Lucia di Lammermoor (foto Brescia e Amisano)

Chailly non ha perso minimamente il fluido che lo collega al canto e alla lingua più friabile del melodramma italiano anni Venti. Di più: nel ripristinare la scena della follia con l’accompagnamento della fisarmonica a bicchieri, non ha solo revisionato una parte dell’opera, correggendo l’idea della solita aria con strumento obbligato (il flauto). Immersa nel vapore lunare di uno strumento che amplifica la disarticolazione della musica, specchio dell’uscir di sé di Lucia, la scena della follia getta una luce diversa su tutta l’opera di Donizetti. Forse ancor più che nelle riletture di Verdi e Puccini, si è manifestato lo spirito italiano di un periodo d’oro dell’opera, delicatissimo da rendere. 

Il filo di Gustav
Con l’Ottava Sinfonia di Mahler, Chailly ha realizzato il progetto che Claudio Abbado accarezzava per il suo ritorno alla Scala. Nel 2012 non si realizzarono le condizioni per mettere letteralmente in scena un affresco sinfonico corale di dimensioni che impegnano non mille ma quasi quattrocento esecutori tra orchestra e cori (tre, uno chiamato dalla Fenice, ben fusi tra loro). Chailly non è solo il direttore che ha più confidenza (parola quasi ridicola) con una pagina smisurata come questa. Ha soprattutto un rapporto con Mahler che negli anni di Amsterdam si è affinato sulle partiture che più esplicitamente sono di mano dell’autore. Lì sono conservate le pagine su cui Willem Mengelberg annotava quel che Gustav gli consigliava per le esecuzioni che non Vienna, ma Amsterdam gli garantiva. Le conseguenze di questa (s)fortuna critica sono durate a lungo: i Wiener Philharmoniker non avevano in repertorio tutte le Sinfonie di Mahler finché non è venuto un americano con stivali yankee a fargliele eseguire tutte, Leonard Bernstein. Con la Sinfonia “dei Mille” ha debuttato anche una nuova conchiglia di legno che in parte ha aiutato l’immensità del suono a convogliarsi in sala. In parte. Tanto lo sanno tutti: la Scala non è nata per la musica sinfonica e nella sala del Piermarini nessuna orchestra dà il meglio di sé. Il che aggiunge valore al risultato dell’Ottava.

Gli altri
Se da Amsterdam soffia la “mahlerianità” di Riccardo Chailly, dagli anni di Lipsia discende, consolidata, una vena sinfonica profonda e sorprendente nei confronti degli “altri”, i tedeschi. Parliamo di Strauss, con la memorabile Salome del tempo di covid nello spettacolo altrettanto memorabile di Michieletto.

Salome (foto Brescia e Amisano)

Parliamo di Beethoven, con un’integrale delle Sinfonie, anche in disco (esclusiva Decca da quarant’anni), che non solo per l’analisi attenta dei metronomi d’autore ha fatto saltare sulla sedia musicologi e pubblico. E naturalmente di Brahms. Il concerto del 22 maggio doveva mettersi anche la corona di Hilary Hahn nel Concerto per violino. Congiure di viaggio l’hanno impedito, e se n’è sentita la mancanza. Il giovane entrato in corsa, Emmanuel Tjeknavorian, ha un talento enorme, piace a tutti, ha incantato con un bis di Kreisler quintessenza viennese, ma il violino ha dentro troppo metallo. Per una volta, l’orchestra suonava più morbida e preziosa del solista. In genere, con Hilary Hahn spesso, la situazione è a rovescio. Tutt’altra musica nella Sinfonia n.1, in cui si avvertiva il segno di ciò che Chailly, già a Lipsia, era riuscito a fare su Brahms, replicando con le necessarie differenze il nuovo sguardo inaugurato con Beethoven. 

Rating
Ultima e non ultima impronta, sulla Filarmonica. Nella stagione parallela alla principale del Teatro, l’orchestra è sì padrona di sé stessa, ma per una sola sera rispetto alle tre della stagione sinfonica. Il rischio della discontinuità è dietro l’angolo se, come capita, un direttore non entra con poche prove in sintonia con l’orchestra. Riccardo Chailly, che della Filarmonica è direttore onorario dal 2015, assicura continuità in casa e, anche grazie al suo incarico a Losanna – vetrina sinfonica per l’intera Europa -, accresce la “vendibilità” dell’orchestra all’estero. Una tournée di poco tempo fa in diverse piazze di pregio, con Prokof’ev soprattutto, lo ha dimostrato: sui mercati internazionali il rating della Filarmonica Scala è rispettabile. 

Foto di copertina: Brescia e Amisano

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