Pollini, un pianismo toccato dalla bellezza

In Musica

Schivo, orgoglioso, nemico di lusinghe e retorica: l’uomo. Mani e memoria prodigiose, talento, rigore, etica e tanto studio: il musicista. E per i milanesi, che l’hanno salutato ieri nel foyer della Scala, compagno di vita, maestro di rivelazioni. Ultimo di una generazione di “mostri”

Ieri, alla Scala, l’ultimo concerto di Maurizio Pollini. Suonato per lui dai primi archi dell’orchestra: struggenti miniature di due autori sui quali Pollini ha lasciato la sua impronta per sempre, Beethoven e Webern. Nel foyer d’ingresso, davanti alla sua salma, è sfilato un sobrio corteo di milanesi per i quali Pollini è stato un compagno di vita, maestro di rivelazioni, dispensatore di sbalordimenti con il suo pianismo toccato dalla bellezza. Sembra impossibile non scorrere più i calendari del mondo per trovare l’appuntamento da non mancare. L’artista è tornato fra le stelle, dopo averne sparsa polvere a piene mani in ottantadue anni di vita. E c’è il fondato sospetto che con lui sia tramontato anche il capitolo Grande Pianismo. Una generazione di “mostri” se n’è andata. Qualche coetaneo è rimasto. Martha Argerich tiene duro, caparbia, Daniel Barenboim ha dovuto lasciare. Il resto è un’altra storia.

Con Abbado (foto @ Erio Piccagliani)

Ci mancherà anche l’uomo Pollini, schivo, orgoglioso, nemico di lusinghe e retorica, pieno di ironia anche nel commentare sé stesso e le sue imprese. A cominciare dalla prima, sempre citata anche a sproposito.

Diciott’anni.
«La prova finale del concorso a Varsavia? Non so, non ricordo bene. Ero in trance». Nel bellissimo A Musical Profile alla fine l’intervistatore osa: «Mi sembra che lei sia in qualche modo un missionario». «Ah no, per carità. Missionario no! – ride Pollini –. Faccio tutto per il mio piacere e basta. O quasi». Alla parola “leggenda” s’inalberava: «Non mettiamo subito in difficoltà il discorso». E in questi giorni è la parola che più si spende. Comoda e anche vuota, ma come sostituirla? Resta di suggestione irresistibile per tutti quel Concorso Chopin che Pollini vinse di slancio nel 1960, quando, diciottenne inquieto, di famiglia milanese colta e democratica, con origini nell’Italia “di confine” (Rovereto) e radici ricche di genio, prese un aereo per Varsavia, solo, senza parenti al seguito, per mettersi alla prova. Sbaragliò tutti. Come andò, nessuno l’ha mai ben raccontato. Nemmeno lui. 

Con Riccardo Chailly (foto Silvia lelli © Filarmonica della Scala)

Ricordi? «Dalle eliminatorie, i cinquanta partecipanti erano stati ridotti a venticinque. Alla finale saremo stati in undici, e si arrivava con una sola prova d’insieme. Suonavo quel Concerto (il n.1 di Chopin, Ndr) per la prima volta. L’avrò studiato un mese, al massimo due». Giudizio a distanza di tempo? «L’ho riascoltato per controllare se fosse pubblicabile. Ho giudicato che si poteva». Così, semplice semplice. E quando ebbe la sensazione di poter vincere? «Dopo le eliminatorie incontrai Agosti, che era in giuria, e mi disse che ero molto ben piazzato». Puro understatement.

Arthur Rubinstein, presidente della giuria, avrebbe detto: «è il più dotato di tutti noi». Un’altra leggenda? «Non so chi abbia manomesso la citazione. Lui disse: è tecnicamente più dotato di tutti i membri della giuria. Ma Rubinstein, che era arrivato solo alle prove finali, dopo due osannati concerti a Varsavia cui assistetti anch’io compresso fra la gente, credo volesse dare una stoccata ai colleghi. Lui sì era circondato di leggenda. Mi parlò con aria molto sostenuta e mi diede il classico consiglio: suonare facendo sentire il peso delle spalle». Niente di più, niente di meno. Nessun castello di carte (false). 

Dna 
Dell’infanzia e degli anni di studio, Pollini ha sempre detto poco o nulla. Riluttanza, mistero, dimenticanza? «Non ne ho mai parlato, non so perché – ammetteva sorridendo –. Forse perché non ricordo nulla di speciale». Eppure nel marchio di famiglia c’è scritto molto, se non tutto quel che Pollini sarà: mani e memoria prodigiose, talento naturale coltivato da solo fin dai cinque anni, guidato da maestri, sì, Lonati e Vidusso, ma che alla fine si riducevano a fare una cosa: «mi facevano suonare». E poi rigore, etica, studio, studio, studio.

Con Daniel Baremboim (foto @ Rudy Amisano)

L’istinto verrebbe dalla madre Renata, esuberante, cantante, pittrice di un certo talento, presto accantonato perché in famiglia c’era già un artista, Fausto Melotti, fratello “di mezzo” tra Lidia e Renata, pianista anche lui, laureato in ingegneria al Politecnico, compagno di Lucio Fontana in studi d’arte, pittore che alla tela avrebbe sostituito la tridimensionalità della scultura, l’artigianato delle dita che forgiavano capolavori di gesso, ottone, ferro, ceramica e tela, ispirati alle forme della musica, alla fuga, al contrappunto. Il padre, Gino Pollini, faceva la sua parte sul violino in gioventù (a Rovereto suonavano tutti, compresi i parenti Fait, uno dei quali organista del Duomo di Milano) e come architetto avrebbe costruito sull’insegnamento di Le Corbusier la sua identità razionalista. In più, nel “giro” degli appassionati c’era anche uno scrittore formidabile e studioso d’arte, Carlo Belli, che scrisse un libro dal titolo Kn, pubblicato a Milano da Scheiwiller: Vasilij Kandinskij lo definì “L’évangile de l’art dit abstrait” (il vangelo dell’arte detta astratta). Può bastare per definire il milieu?

Pensiero.
L’astrattismo e il razionalismo che giravano per casa lasciano il segno nel Pollini prossimo futuro, facendone il pianista “di pensiero” passato alla storia, che legge la modernità fra le pieghe di Chopin, Beethoven, Schubert e Schumann, la riconosce “al naturale” in Stravinsky, Debussy, Bartók, Schoenberg e Webern, l’innalza all’ennesima potenza in Boulez, Stockhausen, Nono e Sciarrino accostandoli a sbalzo. Perché di contemporaneità Pollini artista aveva assoluto bisogno, come l’uomo di idee e di libero pensiero, a costo di provocare reazioni scomode.  

Il razionale e l’apollineo
Contatti e qualche lezione di pianoforte ci furono anche conl’altro Grande, Benedetti Michelangeli, rispettato senza alcuna malattia competitiva che avvelena tanti artisti.«C’era una grande differenza di età: aveva ventidue anni più di me. Una persona di grande bontà e qualità umana, anche se, lo sappiamo tutti, con personalità assai particolare». E musicalmente? «Un punto di riferimento. Alcune interpretazioni restano assolute: Ravel, la Totentanz…». Su Chopin strade invece diverse, molto diverse: Michelangeli più ”erratico”, meno sistematico e rigoroso nelle scelte. «Perseguiva una sua ricerca della perfezione, concentrata su determinati pezzi». Profilo esemplare.

Pollini “razionalista”, Michelangeli “apollineo”: le distanze fra i due più grandi pianisti italiani dopo Busoni – l’ha detto la storia – sono sempre apparse incolmabili. Il tempo le ha un poco assottigliate negli ultimi dieci anni, quando Pollini, nella sua terza “stagione”, ha come riscoperto il piacere della materia pianistica, del suono. E anche verso Michelangeli, onestà e perfino gratitudine: «Mi ha suggerito una diteggiatura molto speciale sui trilli, che adotto ancora oggi». 

Senza fine
Nessuno ha mai osato tanto sul pianoforte. Nessun altro ha lanciato e governato con tecnica prodigiosa intrecci così incredibili di Chopin e Boulez, Debussy e Stockhausen, Schubert e Schoenberg, Schumann e Webern. E programmi con Machaut, Ockeghem, Monteverdi e Palestrina, accostati a Nono, Berio, Donatoni, Sciarrino. Per scuotere estetica e coscienza insieme.  
«Constato che i programmi in cui propongo – come ho fatto a Salisburgo e a New York, a Tokyo e a Roma –, accanto al repertorio tradizionale anche affondi nella musica antica da una parte e contemporanea dall’altra, stimolano davvero un ascolto nuovo. Quando si creano situazioni inedite e si mettono in atto strategie diverse di coinvolgimento, i risultati si vedono. Altrimenti, con tutto il rispetto per il vecchio pubblico, il discorso della musica classica rischia di inaridirsi». 
Pollini era questo: la musica del passato che il pensiero del nostro tempo trasforma in vita quotidiana. Chi riuscirà a raccogliere il suo approfondimento senza fine? 

In copertina: Maurizio Pollini (foto @ Rudy Amisano)

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