Elvis Presley, l’uomo che volle farsi Re del Rock

In Musica

Figlio di bianchi poveri, pochi e svogliati studi, la musica appresa in chiesa ascoltando i cori gospel, Elvis The Pelvis agguanta il successo nel 1956. E non lo mollerà più fino alla fine. E oltre

Il 1956 è l’anno magico del ventunenne Elvis Aaron Presley, nato l’8 gennaio 1935 a East Tupelo nel Mississippi, a 150 chilometri da Memphis. Figlio unico di bianchi poveri che lo hanno avuto giovanissimi, 19 anni il padre Vernon che campa di lavori precari, appena 17 la madre Gladys. White trash, feccia bianca, come quei personaggi senza arte né parte che popolavano un decennio prima i romanzi di Erskine Caldwell e di James Cain. Fanciullezza e adolescenza solitarie in una baracca di due stanze costruita dal padre, pochi e svogliati studi conclusi a Memphis dove si erano trasferiti nel 1948.

La musica Elvis l’ha imparata in chiesa, nei cori gospel della “First Assembly of the Church of God” che frequentava con i genitori. E gironzolando nel quartiere dei neri di là della ferrovia. Ha vinto il suo bravo concorso per dilettanti nel 1945, cantando una canzone di cui si ricorderà per il secondo album (Elvis) uscito giusto sessant’anni fa, nell’ottobre 1956, e subito volato in vetta alle classifiche: Old Shep, una ballad un po’ melensa dedicata a un vecchio cane morto. A undici anni, nel 1946, gli hanno regalato una chitarra da due soldi, ma lui avrebbe preferito una bicicletta.

Fino a due anni prima il giovane Elvis faceva il camionista per un’azienda di materiali elettrici e in questo effervescente 1956, dopo una gavetta neanche troppo lunga, si ritrova re incontrastato di un nuovo genere che mischia country bianco e rhythm & blues nero. Lo chiamano rock ‘n’ roll e, nelle varianti più bianche e sudiste, rockabilly, il rock dei campagnoli come lui che fanno storcere il naso all’élite bianca.

Le cose hanno cominciato a girare veloci nel 1955 quando Elvis si è trovato un manager, o meglio quando un manager ha trovato lui, cantantino country di belle speranze, intuendo la miniera d’oro. Il manager si fa chiamare colonnello Tom Parker ma il titolo è onorario, falso quanto una stella di latta, gliel’ha concesso nel 1948 il governatore della Louisiana, Jimmie Davis, al quale ha fatto da galoppino durante la campagna elettorale. Il colonnello in realtà si chiama Dries Van Kuijk, è nato nel 1909 a Breda in Olanda e ha un passato di imbonitore da fiera, di immigrato clandestino, di disertore dell’esercito americano e di impresario del giro country.

Elvis, quando il colonnello Parker butta gli occhi su di lui, è sotto contratto con una piccola etichetta di Memphis, la Sun Records di Sam Phillips. Ha cominciato a incidere nel 1954: il primo 45 giri, che rifaceva con uno splendido swing country e una voce duttile e inedita un blues del 1946, That’s alright mama di Arthur “Big Boy” Crudup, è stato trasmesso da un’emittente locale suscitando eccitazione ed entusiasmo e arrivando a vendere 20mila copie. Il dj della radio lo ha cercato per intervistarlo, le ascoltatrici assediavano l’emittente e facevano andare in tilt il centralino, e sono dovuti andarlo a prendere al cinema, dove si era rifugiato a vedere Mezzogiorno di fuoco. L’anno dopo, con Mystery train, il “bianco che canta come un nero” ha centrato il bersaglio, il primo posto nella classifica country nazionale, e ha cominciato a esibirsi in tutti gli stati sotto la linea Mason-Dixon.

Con la sua giovane promessa il colonnello Parker brucia i tempi, mettendolo letteralmente all’asta. Le grandi case discografiche fanno le loro offerte: 10mila dollari la Mercury, 15mila la Columbia, 25mila la Atlantic. Si porta a casa Elvis per 40mila dollari la Rca: 35mila finiscono nelle tasche di Sam Phillips, che cede tutte le incisioni e le matrici precedenti e usa il denaro ricevuto per avviare le carriere di Carl Perkins e Johnny Cash, e 5.000 vanno a Elvis che si compra la prima di tante Cadillac.
Il contratto con la Rca è siglato alla fine di novembre del 1955, agli inizi del gennaio 1956 Elvis è già in sala di registrazione ed è buona la prima. La canzone che fa di lui un idolo istantaneo è Heartbreak Hotel, gliel’hanno confezionata Mae Axton e Tommy Durden ed è un concentrato di spleen adolescenziale.

Ora da quando la mia ragazza mi ha lasciato
ho trovato un nuovo posto dove stare.
È in fondo a Via Solitaria
all’Albergo del Crepacuore.

Sono così solo, così solo, così solo
che potrei morire.

E anche se è sempre pieno
c’è sempre qualche stanza libera
perché gli amanti col cuore spezzato
possano piangere al buio.

Ed essere così soli, oh così soli, oh così soli
che potrebbero morire.

Heartbreak Hotel esce il 27 gennaio 1956, il giorno dopo Elvis la presenta allo show televisivo dei fratelli Jimmy e Tommy Dorsey, la settimana dopo è prima in classifica e resisterà per otto settimane, superando il milione di copie vendute.

Elvis Presley non è il primo, forse neppure il più bravo fra i giovani interpreti. Ma è l’uomo giusto al momento giusto. Un’avvisaglia di rock era già nell’aria dagli anni Quaranta: nel “reeling and rocking” delle chiese nere, nel blues elettrico di Chicago, nelle joint band, nel primo rhythm & blues, nel country elettrificato e ritmicamente più mosso di Hank Williams & c. E canzoni che avevano “rock and roll” nel titolo o nel testo (un eufemismo gergale afro-americano per l’atto sessuale) circolavano già da tempo: come Good rockin’ tonight di Ray Brown, 1948, la rifarà anche Elvis, o come Rocket 88 di Jackie Brenston e Ike Turner, 1951.

Nel 1954 è esploso il primo hit della nuova musica, Rock around the clock, spinto dal film sulla delinquenza giovanile Il seme della violenza. Ma il cantante, Bill Haley, ha già trent’anni, è grassoccio e stempiato e si presenta in scena con un ridicolo tirabaci appiattito sulla fronte. Non esattamente un teen idol. E il 1955 ha acceso i riflettori su tre grandi rocker neri e un bianco: Chuck Berry (Maybellene), Fats Domino (Ain’t that a shame), Little Richard (Tutti frutti) e Carl Perkins (Blue suede shoes). Ma Chuck Berry, il migliore del mazzo, è un ex ladruncolo che ha fatto il riformatorio, Fats Domino un pacioso e pingue cantante di New Orleans poco avvezzo agli urletti delle ragazzine, Little Richard uno sguattero su di giri della Georgia sulla cui presunta omosessualità si mormora, Carl Perkins uno zotico tanto bravo quanto irrimediabilmente privo di appeal.

Elvis ruberà a molti di loro (le sue cover di Little Richard e Carl Perkins, meno belle degli originali, tuttavia li surclasseranno) e si proporrà come l’idolo capace di mettere d’accordo tutti, o quasi. Giovane e belloccio, armato di ciuffo, basette e vestiti sgargianti (una propensione per il lamè e per il kitsch più disarmante lo accompagnerà sino gli ultimi show a Las Vegas). Con i suoi contorcimenti (Elvis the Pelvis lo chiameranno, Elvis il Bacino) che fanno infuriare benpensanti e predicatori e sono tuttavia meno estremi del “passo dell’anatra” di Chuck Berry o dei pianoforti incendiati di Jerry Lee Lewis. Con la sua voce che sa essere affilata nel rock, ma anche morbida e mielosa, quasi da crooner, nei lenti. Ribelle ma con giudizio, in anni che vedono affermarsi al cinema Marlon Brando e James Dean. E con un repertorio che pesca a piene mani da tutti i generi cercando a volte di strizzare l’occhio ai genitori dei suoi fan.

All’inizio non tutti lo reggono. «Il signor Presley non ha alcuna discernibile abilità canora. Le sue specialità sono canzoni ritmiche, che interpreta con un rumoreggiare indecifrabile. Il suo fraseggio, se è lecito definirlo in tal modo, consiste nelle stereotipate variazioni che sono caratteristiche di un principiante nella vasca da bagno», lo stronca il New York Times. Rincara la dose Newsweek: «Elvis Presley non sa cantare affatto e compensa le carenze vocali con i più bizzarri ed evidentemente calcolati movimenti allusivi, al limite di una danza di accoppiamento primitiva».

Esagerati, oggi che abbiamo visto cose che voi umani…, a riguardare quelle esibizioni televisive ci inteneriamo, tanto sembrano robe buone per il tinello dei nonni. Ma tant’è. Eppure la televisione che tanto lo espone alle critiche lo porta in tutte le case: dodici ospitate nel biennio 1956-57, con punte di 54 milioni di spettatori e uno share dell’82,6% all’Ed Sullivan Show del 9 settembre 1956. Dicono le leggende del rock che i suoi contorcimenti pelvici e il suo ancheggiare furono per l’occasione censurati ma, se guardate i video, vi accorgerete che non è vero. E quando canta una ballad di pasta dolcissima come Love me tender, anche l’arcigno Ed Sullivan, un equivalente yankee del nostro Mike Bongiorno, è costretto a ricredersi: il ragazzo non è un teppista, non è il delinquente del rock ‘n’ roll, ma un bravo giovane che sa il suo mestiere.
Il giorno dopo Love me tender, che compare nella colonna sonora del suo primo film Fratelli rivali (Elvis ne girerà ben trentatré dal 1956 al 1970) ma non è ancora un disco, riceve prenotazioni per oltre un milione di copie, e la Rca è costretta a chiedere aiuto ai rivali Decca, Capitol e Mgm per poterlo stampare rapidamente.

Aiutate dalla televisione, le vendite dei dischi sono vertiginose: due album al primo posto che superano il milione di copie e sbarcano trionfalmente in Inghilterra (anche di noi, facendo di Elvis l’incubatore dei vari Celentano, Little Tony, Michele e Bobby Solo), mentre i singoli fanno registrare undici presenze nei Top 40 di Billboard, e cinque scalano le classifiche restando numeri uno per 25 settimane. Le canzoni, oltre a quelle di cui abbiamo parlato, sono I was the one, I want you I need you I love you, Don’t be cruel, Hound dog, Teddy bear.

In quell’anno irripetibile, Elvis riesce anche a fare ritorno alla Sun di Memphis, per una visita agli amici, e a incidere il 4 dicembre due ore di jam informale con Jerry Lee Lewis, Carl Perkins e Johnny Cash. Nasce il mito del Million Dollar Quartet, i nastri verranno pubblicati soltanto nel 1981. Insomma, in quel 1956 è nata una stella, non si appannerà più. Anche se Presley si limiterà a fare musicarelli per tutti gli anni ’60, a mandare in classifica persino ‘O sole mio (It’s now or never) a ritmo di beguine e Torna a Surriento (Surrender) a ritmo di rumba. Anche se il matrimonio con Priscilla Beaulieu, celebrato dopo il suo congedo, finirà con un divorzio nel 1972. Anche se trascorrerà quasi vent’anni, fino alla morte nel 1977, nell’isolamento malato del villone mausoleo di Graceland, a Memphis, circondato da una corte di parenti scrocconi assistenti e parassiti, a sparare contro gli innumerevoli televisori, ne aveva uno in ogni stanza. Anche se torna sulle scene nei ’70 – ormai pesa 150 chili, è bulimico e si ingozza di tranquillanti, amfetamine e barbiturici – ridotto all’ombra di se stesso. Anche se si fa ricevere da Richard Nixon alla Casa Bianca, chiede e ottiene il distintivo onorario dell’Fbi e dichiara di essere pronto a combattere “il comunismo nel rock”.

Nel 1956 il lungo tramonto non è ancora scritto o intuibile, il ragazzo col ciuffo continua a spopolare nel 1957 (Jailhouse rock, All shook up) e il colonello Parker gli ha costruito un impero dei gadget e del merchandising che, già allora, vale 20 milioni di dollari all’anno. E quando nel 1958 parte per fare il servizio militare, Elvis diventa un cantante patriota e un beniamino delle famiglie, evitando la lunga scia di catastrofi che segnano la fine del rock ‘n’ roll, in attesa della resurrezione dalle parti di Liverpool e di Londra: Chuck Berry in galera perché ha cercato di fare entrare illegalmente negli Usa una minorenne messicana, Little Richard in preda a crisi mistica, Jerry Lee Lewis con la carriera rovinata dallo scandalo del suo terzo matrimonio, lui bigamo, con una cugina tredicenne, Buddy Holly morto in un incidente aereo e Eddie Cochran in un incidente stradale. Al carrista Elvis, matricola US 53310761 di stanza a Bremerhaven, Germania, le voci del disastro arrivano attutite, da lontano. Lo scettro di re del rock è suo, definitivamente. Anche per mancanza di concorrenti.

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