Debutti italiani tra paura e speranza

In Cinema

Ottimo debutto, applaudito a Berlino, per i fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, che raccontano l’educazione alla carriera criminale di due ragazzi qualunque della periferia romana. Senza brutalità esibite, compiacimenti, spettacolarizzazioni di genere, ma rimarcando con realismo la violenza sostanziale delle azioni e delle psicologie. Renzo Carbonera rende omaggio in “Resina” alla musica come strumento che lega le persone in un piccolo universo alpino, dove vivono gli ultimi individui di etnia cimbra, ma anche come mezzo per riscoprire il senso della propria esistenza

debutti italiani 1 / In due nella nera terra dell’abbastanza

La terra dell’abbastanza è l’interessante esordio del duo romano composto dai fratelli-registi Damiano e Fabio D’Innocenzo, passato con molto apprezzamento nella sezione “Panorama” del Festival di Berlino, un film oscuro e tormentato come un noir, che esplora l’educazione criminale e l’amicizia di due giovani uomini. Benché inizialmente questa storia di formazione sembri percorrere acque familiari, il suo titolo semplice ma rivelatore indica le profondità drammatiche in cui i registi s’immergono con uno stile così maturo, impressionante.

Ambientato nella periferia di Roma, lontano dallo splendore turistico e culturale dei depliant turistici, il racconto si apre con un’alba che s’infrange su una desolata, deserta area urbana. Due amici adolescenti Mirko (Matteo Olivetti) e Manolo (Andrea Carpenzano) scherzano sulla strada verso casa dopo la fine dei loro turni di consegna della pizza. Attraverso la loro spensierata conversazione apprendiamo che sono agli ultimi anni del liceo e spaziano, nei loro progetti, tra le carriere di ristoratori, agricoltori o baristi. Il loro scambio di battute viene bruscamente interrotto quando una sagoma oscura sbuca sulla strada e Mirko, che è alla guida dell’auto lo colpisce a tutta velocità. Dopo un momento di panico, Manolo riprende rapidamente il controllo e dice all’amico di andare a casa di suo padre Danilo (Max Tortora). La prima risposta di Danilo è istruire i ragazzi a far finta che nulla sia accaduto per non cadere ed essere risucchiati, impotenti, nel vuoto.

Ma presto si scopre una realtà ben più promettente: la vittima era un uomo “segnato”, doveva esser presto giustiziato dal clan della mafia locale, così il padre di Manolo dice al figlio di prendersi tutto il merito dell’incidente, nel tentativo di ingraziarsi la banda. Infastidito dall’idea di essere escluso da un’occasione d’oro, Mirko affronta Manolo, che gli fa un’offerta: se la coppia uccide un membro di una banda marocchina rivale, saranno ufficialmente “dentro”. Lo fanno e, improvvisamente, irrevocabilmente, lo sono.

All’inizio si avvicinano alle loro nuove responsabilità come fossero davanti a un videogioco, rifiutando – almeno in superficie – di riconoscere quali sono le loro vite. «Smetti di pensare», è il costante ritornello di Manolo. Perché in effetti Mirko rappresenta il fulcro drammatico della storia, con i suoi dubbi e le sue paure, mai espresse verbalmente ma attraverso le espressioni dolorose e la fatica di guardare chiunque negli occhi: e mentre diventa sempre più evidente la distanza da sua madre, preoccupata per le sue scelte, dai suoi amici e dalla sua ragazza, lui, che chiaramente non è tipo da divertirsi così tanto nel suo nuovo stato, si scopre impotente, incapace di cambiare la situazione.

Nella sceneggiatura e nella regia i fratelli D’Innocenzo mostrano una misura notevole, che serve a mantenere l’attenzione sui ragazzi piuttosto che sulle loro azioni: i momenti di violenza accadono fuori dallo schermo e quelli che vediamo sono gestiti bene, sono azioni marcate da un realismo sobriamente concreto. La cinepresa mantiene una rispettosa distanza dalla brutalità e preferisce soffermarsi sui volti dei ragazzi, in dettagli intimi e scultorei. E l’azzurro cielo romano è in costante contrasto con lo squallido suburbio urbano, in sequenze spesso tinte di verdi o gialli foschi.

I due giovani cineasti offrono un lavoro molto maturo, e con la languida colonna sonora jazz di Toni Bruna sfidano le aspettative di genere. Facendo prevalere la poetica di un film tecnicamente compiuto e intuitivo, che segna un altro debutto promettente per il cinema d’autore italiano.

 

Anna Chiara Bertoli

 

 

Debutti italiani 2 / maria e La montagna delle voci del cuore

Nel mondo immacolato racchiuso nella cerniera alpina, quello raccontato da Renzo Carbonera in Resina, sono rimasti pochi individui di etnia cimbra, popolazione montana con un forte attaccamento alle radici e alla propria identità. Una delle ultime realtà in cui si vive con poco e si apprezza la bellezza della semplicità e l’importanza delle cose semplici, dello stare insieme. Ma il presente è difficile e c’è tanta paura per la propria terra e il futuro di ciascuno. Il cambiamento climatico e il disboscamento preoccupano, così come il cambiamento culturale e la perdita linguistica e delle proprie tradizioni. L’etnia cimbra rischia di estinguersi insieme alla natura e agli alberi che circondano le poche persone rimaste della comunità.

Tutto ciò rischia di svanire e perdersi, ne è un esempio la famiglia di Maria: sua madre non comunica più, si chiusa in un guscio invalicabile e sua cognata, che ha importanti problemi economici, è preoccupata per il futuro. Maria è tornata nel suo paesino dalla città, delusa dal mondo della musica; è di poche parole e non ha più obiettivi né speranze. Quirino invece si, perché è l’essenza viva della comunità, l’ultima persona che davvero spera in una rinascita dei suoi coristi, nel ritorno alla vecchia gloria. Lui ha una profonda nostalgia per il passato felice e glorioso e da questa scaturisce la volontà di far rinascere il suo coro polifonico, oramai disgregato e composto da quattro amici da bar. Sarà anche l’occasione per riunire la comunità e per affrontare le sfide del presente e del futuro. E lui vede nella ragazza un’opportunità per riscattarsi, una possibile soluzione per rimettere insieme il suo scarno coro e rinfrancare la comunità. Lei è la speranza.

I giorni passano e la giovane violoncellista comprende che per raggiungere la propria felicità deve ripartire da ciò che aveva lasciato: il proprio strumento musicale. Le vibrazioni delle corde del violoncello che suonano sotto le sue dita sono piccoli passi in avanti verso la riscoperta della bellezza e potenza della musica, e più si riapre verso il suo strumento, più Maria vede un percorso da seguire, finché sarà lei a prendere la guida del gruppo di coristi. Grazie alla sua determinazione e testardaggine, e all’amicizia con Quirino, riscoprirà la musica in un percorso che passa dallo smarrimento e dalla paura alla speranza, fino alla rinascita. Un viaggio che si muove in simbiosi fra l’esistenza della ragazza e la sua famiglia, e la ricostituzione del coro di soli uomini che farà emergere un rinnovato senso di vicinanza, appartenenza e unione della comunità.

Il ruolo di Maria e della musica sono essenziali in questo percorso, così come la resina del titolo, perché, come dice Quirino, tengono insieme tutto: come il collante naturale, la violoncellista, diventata direttrice del coro, sarà un fondamentale elemento di unione comunitaria, ma anche l’anello di congiunzione, la figura intermedia e centrale, fra sua madre e sua cognata. Maria è la resina, per il coro e per la sua famiglia.

 

Sabrina Pusterla

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