“Days”: perché lasciarsi tentare da un film antispettacolare

In Cinema

Torna il raffinato, complesso e malinconico cinema del taiwanese Tsai Ming-Liang, Leone d’Oro a Venezia nel ’94 con “Vive l’Amour”. In “Days” racconta due solitudini contemporanee e un momento di sensuale incontro in una megalopoli caotica. Con uno stile quasi pittorico, che aiuta a riflettere sul tempo e sullo spazio nella realtà quotidiana e nell’uso creativo del nostro immaginario

Che cosa racconta davvero Days, l’ultimo film del 64enne regista taiwanese, di origine malese, Tsai Ming-Liang, di cui molti ricorderanno il Leone d’oro 1994 per il poetico e malinconico Vive l’Amour, o Il gusto dell’anguria o ancora il più recente Stray Dog, pure premiato alla Mostra di Venezia? Secondo i canoni di uno spettatore occidentale poco, quasi nulla. Due uomini sono mostrati a lungo nel film nelle loro vite parallele, assai diverse e non solo per l’evidente divario socio-economico: l’uno, il cinese Kang (Lee Kang-sheng, attore simbolo e partner storico del regista), è prima ripreso in diversi momenti contemplativi nella sua casa bellissima immersa nella foresta, ma presto lo vediamo aggirarsi, in cerca di sollievo per i dolori alla testa e al collo, in una città caotica (Bangkok). Una seduta di agopuntura piuttosto invasiva, e forse non fruttuosa, lo induce poi a cercare un rimedio più piacevole ed efficace nelle braccia dell’altro protagonista del film, il più giovane Non (Anon Houngheuangsy, che nella vita reale lavora al mercato che vediamo in una scena). Laotiano emigrato in Thailandia, massaggiatore forse prostituto, lascia la casa modesta dove cucina zuppe sul pavimento per incontrare Kang in un albergo. Fra i due, dopo un inizio terapeutico, c’è un momento sessuale piuttosto sensuale, ricco di pathos nonostante il legame “economico” tra loro sia chiaro. Prima di lasciarsi, Kung regala a Non un carillon con la musica di Luci della ribalta di Chaplin, ma la melodia si perderà, alla fermata dell’autobus dove il film si chiude, nei rumori del traffico della grande città. 

Se il plot non offre molte svolte o colpi di scena, neanche lo stile registico di Tsai è in sintonia con i canoni consueti per un pubblico più o meno condizionato dalla velocità e dalle violente suggestioni hollywoodiane: Days si divide in un certo numero di inquadrature per lo più senza movimento di cinepresa (viene in mente quasi Andy Warhol e le sue provocazioni di molte ore a sequenza fissa, qui in tutto siamo invece a poco più di due ore) in cui anche la dinamica interna all’immagine è spesso piuttosto lenta, anche se via via che il film si immerge nel caos notturno di Bangkok i singoli frame si animano con nuove figure, sfondi illuminati, e soprattutto cambi di luci e di fuochi. Quasi totale è anche l’assenza di dialoghi, dato che i pochi previsti sono incomprensibili, e non solo per motivi di lingua (all’inizio una scritta avverte “il film è intenzionalmente non sottotitolato”, e si capisce) ma soprattutto perché spesso coperti dal rumore di fondo della vita, vero protagonista sonoro della pellicola.

Dichiarati subito i motivi che inducono a suggerire a chi vuol vedere, Days, passato alla Berlinale e al New York Film Festival, di armarsi di impegno, concentrazione, ma anche di disponibilità a lasciarsi andare al flusso delle immagini, va detto che è un film di grande fascino e maturità espressiva, aperto a molti spunti di senso e riflessioni sulla creatività dell’immagine e sui mezzi che ha a disposizione. Pur all’interno di un ragionamento complessivo sulla solitudine contemporanea, è chiaro che Tsai è interessato a declinarlo nelle opposizioni offerte dalla realtà, da quelle sociali (ricchezza/povertà, ma anche prestatore d’opera/cliente) a quelle ambientali: la privilegiata quiete lontana dal caos metropolitano è mostrata come radicalmente contraria alla vita nel pieno di un vicolo sudicio di una megalopoli. Gli uomini, in senso letterale come accade nel film, o magari metaforico, finiscono spesso per incontrarsi, ma questo non modifica affatto la distanza che rimane inalterata tra loro. Kang e Non, che non condividono neanche il linguaggio, anche dopo un momento intenso di condivisione dell’esperienza tornano inesorabilmente alle loro vite lontane.

La scelta stilistica di Tsai Ming-Liang suggerisce poi una serie di riflessioni, per esempio sul rapporto tra il tempo del racconto, che nella sua attenzione alla quotidianità dei due personaggi allinea anche frammenti di “tempo reale”, quasi documentario, e tempo della vita collettiva, che può apparire uno sfondo non essenziale, in un film molto centrato su queste due individualità, ma in realtà contribuisce efficacemente a delineare il discorso sulla dialettica interiorità/esteriorità, o quella su libertà dell’io/determinazioni create dal contesto sociale, tendenzialmente condizionante. E la volontà di lavorare dentro l’inquadratura più che sul montaggio o il movimento della cinepresa, oltre a richiamare le inclinazioni pittoriche, da realizzatori di quadri in movimento, di altri grandi autori degli ultimi decenni (facile citare Lynch, che fa solo l’artista da oltre 15 anni, lontano dal cinema) suggerisce l’idea di un approfondimento sempre più marcato sullo sguardo, e anche di un lavoro sull’attenzione dello spettatore, che solo concentrandosi sui particolari può davvero gustare la maestria e l’originalità di questo autore.

Il quale non disdegna però affatto, e sa anche usarli davvero con maestria, elementi linguistici assai diversi della visione per immagini, per esempio il campo lungo, presente qui in alcune affascinanti sequenze notturne. Dunque il cinema di Tsai è antispettacolare? Forse nel senso occidentale del termine, ma come lo è quello di Kiarostami o lo era quello di Anghelopoulos. C’è sicuramente un uso personale, diverso da tanti altri, del tempo (narrativo) e dello spazio (nell’inquadratura). Ma questo fa di lui un regista “nemico” dello spettacolo o del piacere della visione? Non credo.

Days di Tsai Ming-Liang, con Lee Kang-sheng, Anong Houngheuangsy

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