Crescere tra bandiere rosse

In Letteratura, Weekend

‘La bambina che mangiava i comunisti’ è il romanzo di Patrizia Carrano che racconta un’infanzia degli anni ’50 all’ombra del Pci, scegliendo il punto di vista, innocente ma inquisitore, della bambina Elisabetta su un’epoca della nostra storia

«Sventola nel piatto la lasagna, rossa come la bandiera comunista disegnata sul manifesto appeso in fondo al salone. Quel vessillo di pomodoro scarlatto, abbondante, affettuoso, ricorda alla bambina tutte le bandiere rosse che ha visto nella sua breve vita, nove anni appena: nelle manifestazioni, nei quadri di un pittore di nome Giulio Turcato, anche in spiaggia dove segnala mare grosso. Le bandiere rosse sono allegre, vivaci, fanno festa sempre e comunque. Sono rosse persino nei film in bianco e nero, come sostiene la sua mamma, raccontandole Tempi moderni di Chaplin».

Dalla scena iniziale alla mensa della Cgil a quella finale a Campo Parioli, un romanzo – La bambina che mangiava i comunisti  di Patrizia Carrano – sui comunisti italiani degli anni Cinquanta tra epica pubblica e crepe private, visti con lo sguardo ‘innocente e inquisitore’ della bambina Elisabetta. Un tenero punto di vista rasoterra più utile di molte rievocazioni sul centenario del Pci appena trascorso, che è partecipe di quei nobili afflati e insieme ne svela, affettuosamente implacabile, contraddizioni e incoerenze, slanci e velleità che si sgonfieranno nel 1956, l’anno della grande nevicata che imbianca Roma («Sono sicura che questa neve è molto più bella di quella dell’Urss» dirà Elisabetta, che la neve non l’ha mai vista e ha sognato quella delle fiabe) e dei carri armati sovietici che invadono l’Ungheria, domando nel sangue la rivolta operaia.

Elisabetta, l’assennata e curiosa protagonista tormentata da ansie e assalita di notte dagli incubi, è figlia di separati e vive con la madre, bella e altera, sola e comunista. Meglio, come le rimprovera il giornalista Giovanni Perego con il quale ha una storia complicata, più ribelle che comunista. Intransigente, anticlericale e antiamericana (no agli albi di Topolino e alla Coca Cola, sì alle fiabe russe di Afanasjev e a Gianni Rodari, alla musica di Bartok e ai balletti ungheresi), ma insofferente al ‘lavoro di base’ con popolani e proletari e più attratta dagli ‘astratti furori’ (i Partigiani della Pace, il mito sovietico allora non contestato da nessuno, mancano vent’anni abbondanti allo strappo con Mosca di Enrico Berlinguer) e dalle frequentazioni intellettuali: pittori come Mario Mafai e Antonietta Raphael, critici come Antonello Trombadori, giornalisti come Felice Chilanti e Saverio Tutino. Inadatta ai ruoli familiari imposti alle donne (moglie, madre, cuciniera) come lo sono stati molti rivoluzionari non soltanto italiani (un bel libro di qualche anno fa, La casa del governo di Yuri Slezkine, Feltrinelli, ricostruisce nell’Unione Sovietica degli anni di Lenin e Stalin quelle vite di uomini e donne quasi sempre fuori casa e di bambini soli).

È una bohème comunista, quella della madre (il padre, un salernitano biondo ed elegante, un dandy mantenuto da mammà e lontano le mille miglia da quei fervori, si fa vivo ogni tanto), con alloggi provvisori e la bambina spesso affidata ad amici, conoscenti, portinai (Elisabetta non frequenta le elementari, covo dei preti, e viene istruita a casa) o trascinata alle riunioni, alle visite pediatriche in Botteghe Oscure, alle cene nella trattoria dei fratelli Menghi che fanno credito ad artisti intellettuali e militanti spiantati (sono i ‘re della mezza’ di C’eravamo tanto amati, rievocati con affetto da Ugo Pirro in Osteria dei pittori).
Elisabetta vede, registra le inquietudini e le infelicità della madre, tenta di decifrarne bruschezze e cambiamenti repentini di umore, a volte interloquisce con la sua cerchia (Emanuele Macaluso le cede il suo piatto di lasagne, ai giornalisti chiede che cosa significhi ‘mignotta’, ad Antonietta Raphael per cui posa dice che le ricorda una baba-jaga, ricevendone una risata scrosciante, Velio Spano la manda in giro tra i partecipanti a una riunione, a distribuire sigarette che nascondono una miccetta).

Da quelle frequentazioni che le prestano attenzione e le offrono affetto, da quel rapporto d’ansia con la madre, trae una precoce maturità e un’altrettanto precoce solitudine. Attenuata dall’unica vera amicizia, quella con la bambina Cesira e con suo fratello Straccio. Che vivono a Campo Parioli, dove la madre va (malvolentieri) a fare proselitismo per l’Udi, l’Unione donne italiane, costola del Pci nel mondo femminile. Campo Parioli è esistito davvero: immenso agglomerato di baracche in pieno centro della capitale, senz’acqua né fognature, con allacci abusivi alla rete elettrica, polveroso d’estate e fangoso d’inverno, abitato da 450 famiglie e sorto da un baraccamento-deposito dell’esercito americano, verrà abbattuto nel 1958 per fare posto al Villaggio Olimpico, gli abitati trasferiti nelle borgate (la memoria va a un altro alloggiamento di disperati di allora: l’ex caserma borbonica dei Granili raccontata con orrore da Anna Maria Ortese nel suo Il mare non bagna Napoli: ma qui, in Carrano, l’empatia prende il posto della repulsione, facendo della bambina Elisabetta l’unica vera “comunista istintiva” della narrazione).

Cesira è una bambina minuta e malnutrita, figlia di sfollati abruzzesi. Elisabetta le si affeziona, le regala il suo vestito più bello, un abbecedario, una collana di conchiglie. Raccoglie con lei le cicche delle sigarette per il fratello Straccio, un adolescente sfrontato e indocile. E fugge di casa, nella sera che annuncia la nevicata, per regalarle una bambola che ha ricevuto in dono alla Befana delle Botteghe Oscure. Ma Cesira non c’è più: ha la tisi, l’hanno ricoverata in sanatorio, finalmente mangerà, Elisabetta non la rivedrà più. Come non rivedrà più Straccio, finito in riformatorio perché guidava un camion senza patente.

Lo sguardo mite e rivelatore di Elisabetta, che comincia a farsi domande e a sviluppare un disincanto precoce, è la cartina di tornasole che fa emergere le generosità ma anche gli abbagli, le ipocrisie e la doppia morale (un bigottismo nel contegno e nei costumi sessuali ad uso delle donne, mentre molti fra i dirigenti maschi si sono rifatti la vita con compagne più giovani) che abitano il Pci. Insieme ai dubbi, alle insoddisfazioni, alle ripulse che covano celati dall’apparente unanimismo (Chilanti e Tutino che passano i loro guai per le critiche all’Unione Sovietica). Nell’esergo del romanzo Carrano scrive: «Chi vuole di nuovo il Pci è un pazzo, ma chi non ne ha nostalgia è senza cuore». Sottoscrivo. Un romanzo affollato di storie e personaggi, l’affresco corale di un’epoca, una narrazione affettuosa ma appuntita. Un romanzo da amare.

In apertura foto di Viktorija Lankauskaite/ unsplash

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