Il deserto esistenziale di Giorgio Vasta

In Letteratura

“Absolutely Nothing” di Giorgio Vasta e Ramak Fasel dovrebbe essere un racconto di viaggio fra i deserti americane. Ma ben presto diventa interrogazione e ricerca esistenziale sul senso del vuoto, dei detriti, dell’assenza, della presenza, della finzione e, alla fine, anche dell’amore.

In una lettera del 3 dicembre 1988 a Cesare Cavalleri, Giorgio Caproni scrive, a proposito di Res amissa, il libro che va componendo in quel periodo: «Perno (o tema) del libro, così come va formandosi lentamente tra un acciacco e l’altro, la perdita di un bene (di un dono) da tutti ricevuto, del quale però non conserviamo che la nostalgia, avendone dimenticato nome e natura. Idea che invero mi è nata da un fatto molto banale, cioè dall’aver riposto un giorno una cosa a me carissima così gelosamente da non essere poi più riuscito a rintracciarla». Quasi a glossa di questa lettera, oltre alla poesia che dà il titolo alla raccolta, si può leggere Generalizzando:

Tutti riceviamo un dono.
Poi non ricordiamo più
né da chi né che sia.
Soltanto, ne conserviamo
– pungente e senza condono – 
la spina della nostalgia.

 

Se ci spostiamo dal dono al furto e dalla poesia alla prosa, il sentimento di fondo è molto simile all’incipit di Absolutely Nothing, l’ultimo lavoro di Giorgio Vasta insieme al fotografo Ramak Fazel:

 

La notte prima di partire per Milano sogno di venire derubato, voglio denunciare il furto ma non ho idea di che cosa mi sia stato rubato, so che mi manca qualcosa, non sono in grado di dire cosa, la denuncia è impossibile.

 

Un forte senso di nostalgia indefinita e di malinconia attraversa questo libro e si concretizza nell’attrazione del protagonista Giorgio Vasta per i detriti, il disastro, le scorie: il disastro produce cose magnifiche, la realtà dei fatti è lo sfacelo e a destare interesse non è sapere come e perché un luogo è esistito, ma anche e soprattutto perché ha smesso di esistere.  Certo l’ambientazione e l’oggetto del libro aiutano in questo senso. Lo spazio assume una posizione di assoluto rilievo e, almeno all’inizio, lo scopo dovrebbe essere l’indagine della geografia contemporanea, dei risvolti psico-socio-culturali di una geografia e delle sue stratificazioni nel tempo. Lo spazio diventa quasi immediatamente spazio vissuto, così come viene percepito nella vita quotidiana: le concezioni umane di spazio includono sempre un soggetto influenzato da uno spazio, un soggetto che esperisce e reagisce allo spazio in una maniera corporea, che sente lo spazio attraverso condizioni esistenziali, disposizioni e stati d’animo (e lo hanno mostrato bene Maurice Merleau-Ponty e Gaston Bachelard, ancor prima di quel cosiddetto spatial turn nelle discipline umanistiche).

Il luogo – e in particolare la città – pian piano inizia a essere visto come un organismo («L’idea di Soleri era che la città non fosse un contenitore, un tramite, ma un organismo che dialoga con chi lo abita»). Idea non certo inedita nella storia della letteratura moderna, ma che sembra avere una certa rilevanza nella letteratura di questi ultimi anni, con uno spettro di variazioni che va da Open city di Teju Cole a Il mondo a venire di Ben Lerner.

Insomma: Absolutely Nothing dovrebbe essere un racconto (scritto e fotografico) di una traversata dei deserti e luoghi desolati dell’America (California, Arizona, Nevada, New Mexico, Texas, Louisiana): il nulla assoluto del titolo. Dovrebbe: ma non lo è.

 

absolutely_nothing

 

La narrazione è sfalsata, la cronologia non segue nessuna linearità, eppure il racconto finge la presa diretta, la registrazione istantanea. La cronologia orizzontale si perde, il tempo si rompe, prima e dopo si fanno relativi. Ricordo e oblio si mescolano, invenzione e ricostruzione diventano le gemelle siamesi di un particolarissimo e affascinante freak show. Il reportage si fa romanzo, le persone reali personaggi, la tortuosità si innalza a metodo e la carrozza del baedeker si trasforma nella zucca di una scrittura che soprattutto suppone, si arrangia, mente. Nel momento stesso in cui Vasta finge il resoconto oggettivo, dà consistenza concreta all’immaginazione con una scrittura che utilizza la descrizione al dettaglio minuzioso e sfrutta la fotografia come effetto di realtà, contemporaneamente si contraddice ammettendo che «non si tratta che di giocare a credere». E allora la forza del mastodontico impianto descrittivo cede di fronte all’immediatezza di un esplicito riferimento cinematografico che cattura l’essenza del luogo nella forma fulminea dell’immaginario collettivo. Alla fotografia di Ramak si affiancano le strisce dei Peanuts, e gli stessi scatti del fotografo che spezzano la scrittura assumono un valore più connotativo che testimoniale (e contemporaneamente ribadiscono l’importanza del rimando extratestuale e referenziale). Si punta sì alla concretezza, ma nella piena consapevolezza che si è all’interno di una messinscena: «la messinscena genera effetti irrimediabilmente concreti: e dunque, penso entrando in macchina, la finzione non è mai innocente».

E allora non stupisce nemmeno che a un certo punto Vasta incontri Spike, il fratello maggiore di Snoopy, con il quale ha un surreale dialogo. D’altro canto il lettore era già stato avvertito che «l’esperienza diretta è marginale». Altro punto quasi stereotipico di molta narrativa contemporanea: la protagonista di Versioni di me di Dana Spiotta si chiede se le foto e le notizie di accadimenti letti su Internet contino come ricordo personale, rispondendosi «Temo di sì». Scotty, personaggio di Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan, si trova a riflettere sulla stessa questione: «noi siamo macchine elaboratrici di informazioni, che leggono una serie di X e O e traducono quelle informazioni in ciò che la gente si affanna a chiamare esperienza, e se io a tutte quelle stesse informazioni avevo accesso tramite la tv via cavo e la quantità di riviste, se non soltanto avevo le informazioni, ma anche la credulità per plasmare quelle informazioni utilizzando il pc del mio cervello, allora tecnicamente parlando non si può forse dire che io vivevo le stesse identiche esperienze di quelle altre persone?». Non dissimile è il punto di vista di Vasta, che però riflette piuttosto su come le narrazioni abbiano creato un posto: negli Stati Uniti descritti in Absolutely Nothing è come se ogni luogo fosse coperto da una velatura mitica, da uno strato sottile eppure robustissimo composto da tutte le narrazioni attraverso cui quel luogo è stato messo in scena. Per questo motivo Venice Beach è prima di tutto il luogo dove Ray Manzarek propose a Jim Morrison di formare i Doors ed è l’ultima scena del film Cisco Pike: «Quando poi un giorno accade di ritrovarsi lì in carne ossa e percezioni, la velatura non viene meno e diventa chiaro che l’esperienza diretta è marginale».

Un possibile corollario che se ne può ricavare è la costante interrogazione – talvolta anche troppo concettosa – fra verità e finzione, sulla confusione fra vero e falso, così attuale in questi mesi di polemiche post-fattuali. Si passa così dalle teorie del complotto all’informazione giornalistica, a internet, a Sheldon Cooper di The Big Bang Theory. Riflessione che Vasta espande a una molteplicità di aspetti, ma forse quello più rilevante è quello meno esplicito: la scrittura – e soprattutto la scrittura di questo libro. Perché una «verità bugiarda» è proprio quella ci racconta meravigliosamente, come tutta la miglior letteratura, Absolutely Nothing: ben presto si inizia a capire che il racconto di viaggio è in realtà un viaggio esistenziale e le caratteristiche spaziali, alla fine, divengono esplicitamente esistenziali. Al desiderio di presenza si accompagna sempre quello di dissoluzione («Esserci, dico, è complicato»). Il senso del sogno con cui si apriva il libro si capisce solamente alla fine: il vuoto, il nulla, la devastazione riguardano la sfera personale di chi scrive e il nothing cambia genere per diventare nobody. Vero oggetto del libro è il furto senza oggetto, la mancanza senza contenuto, «la lacuna come la cosa in cui si sta». E l’autore stesso glossa così il racconto del suo viaggio: «andare a vedere cosa succede negli spazi da cui le parole sono andate via». Tant’è che alla fine del viaggio Vasta capisce «che si possa tornare in un luogo in cui non si è mai stati». E mi torna di nuovo alla mente Caproni, ma stavolta dal Muro della terra:

Sono tornato là
dove non ero mai stato.
Nulla, da come non fu, è mutato.
Sul tavolo (sull’incerato
a quadretti) ammezzato
ho ritrovato il bicchiere
mai riempito. Tutto
è ancora rimasto quale
mai l’avevo lasciato.
Tutti i luoghi che ho visto,
che ho visitato,
ora so – ne sono certo:
non ci sono mai stato.

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