Woody Allen: la mia versione di me

In Cinema, Letteratura, Weekend

Esce il 14 maggio per La nave di Teseo ‘A proposito di niente’, autobiografia dell’84nne Woody Allen: tanta e quotidiana scrittura, e letture (non poi troppe) il suo cinema, i rapporti complicati con le donne e le accuse di molestie archiviate ma non perdonate dall’America, le nevrosi eterne nel rapporto stretto con la psicanalisi e la terapia. Tutto per tornare alla parola sul foglio, ogni giorno, perché “lavorare mi evita di affrontare il mondo, uno dei posti che mi piacciono di meno”

“La vita è una malattia trasmissibile sessualmente, con un tasso di mortalità del 100%”. Non è scritta nell’ansia e nei lutti di oggi, ma lo sembra. Da chi? Nietzsche? Heidegger? Freud? Lacan?  Nessuno di loro e un po’ tutti insieme. Più modestamente da Allan Stewart Konigsberg, in arte Woody Allen, scrittore e regista del sorriso triste che si filma – come del tango si dice ch’è il pensiero triste che si danza. Lo sguardo sulla vita intriso di filosofia e di psicanalisi, o semplicemente affetto da compulsione citazionistica, Allan/Allen l’aveva già stampato nel suo improbabile cognome. Con l’aggiunta dei due puntini sulla O, Köningsberg è la città in cui nacque Kant, (e mai lasciò, nemmeno per un giorno), oggi Kaliningrad, che al regista leggero di ogni quotidiana sciagura ha dedicato un monumento con gli occhiali.  

I primi 84. Woody Allen è invece nato a Brooklyn e la sua esistenza, come racconta in A proposito di niente , autobiografia in libreria il 14 maggio che dobbiamo considerare definitiva, nonostante sia stata scritta nei suoi “primi 84 anni”, muove i suoi passi da un’infanzia e un’adolescenza “da piccolo farabutto” (parole sue). I genitori ebrei, dai quali non trarrà alcun rispetto per le religioni, le chiese e i testi sacri, non portano il figlio in nessun teatro e in nessun museo. La sua cultura, intesa come pratica “a orecchio”, come il clarinetto che suonerà da grande, è forgiata dai musical, dal cinema scoperto e assaporato insieme alla cugina Rita, da letture che non sono Čechov o Tolstoj, ma un libro intitolato Le gang di New York. Una vera idea fissa quella dei gangster.  Woody Allen è onesto. Fin dalle prime pagine avverte; “State leggendo la biografia di un misantropo ignorante… di un solitario incolto che stava davanti allo specchio a tre ante a fare esercizi per nascondere un asso di picche nel palmo della mano”. Perché tra le prime passioni, oltre alle storie di delinquenti, ci sono il gioco e la magia. Un’altra idea fissa di Allen: il Magico, il mistero che s’insinua nei nostri destini in continui assalti del caso, come l’anello che rimbalza sulla ringhiera senza cadere nel Tamigi e segna il destino di Chris in Match Point.
A 15 anni viene “travolto dalle mele massicce di Cézanne e dai piovosi boulevards di Pizzarro, da Guernica e dagli universi caotici di Pollock”. A 17 anni vede il primo spettacolo a Broadway e al Roxy di Manhattan ascolta Duke Ellington: la sua Take The “A” Train gli “scoperchia il cervello”. 

Mamma, che QI! L’intreccio di alto e basso, di geniale e di “barbaro” è scritto fin dall’inizio. A sei anni, Allan Stewart fa un test di intelligenza che, per prima, lascia di stucco la madre e la convince che il piccolo farabutto possa ambire a una High School. Mai fidarsi di Allen: i risultati scolastici sono sempre penosi e la madre viene spesso convocata da un preside cui è difficile spiegare la battuta: “Quella ragazza era fatta come una clessidra, e il mio unico desiderio era giocare con la sua sabbia”. “Con un QI così alto, come potevo essere un tale asino?”. Il genio aspettava destinazioni più adatte.
Ad Allan non piace leggere né studiare, come al giovane pel di carota di La ruota delle meraviglie“il mio film più bello”, mandato giusto da Rai3 venerdì sera -, che non va a scuola né volentieri né spesso e ruba i centesimi al padre cretino (Jim Belushi) per passare le sue giornate al cinema un po’ entrando e uscendo dallo schermo come in La rosa purpurea del Cairo.  Cultura fatta di cose da vivere: film che fanno venire “l’acquolina in bocca al cuore” (Bergman il preferito), la radio, le musiche di Cole Porter, Rodgers & Hart, Irving Berlin, Jerome Kern, George Gershwin, Artie Shaw. Oltre ai gangster, “dischi e libri sulla nascita del jazz”, con preferenza per New Orleans. Ma anche Jascha Heifetz e Glenn Gould, e un orecchio che gli fa canticchiare a memoria i Concerti Brandeburghesi di Bach. 

Scene da fin(i)ti matrimoni Un lungo terzo dell’autobiografia è occupato dal racconto delle sue donne, dei rapporti sempre “disturbati” con il mondo femminile. Lo studente è attratto inesorabilmente – e sempre rimarrà – da “ragazze coi capelli lunghi e lisci”, vestite da esistenzialiste, “che in grosse borse esibivano copie della Metamorfosi di Kafka commentate con cfr. Kierkegaard”, lasciandolo a secco al momento giusto ma anche prima, perché Allen da giovane non riesce a tener loro testa. Non ancora. Molte pagine scorrono sulle storie spesso psicanaliticamente rilevanti con le compagne (Diane Keaton l’unica eccezione al climax patologico), con le prime due mogli (Harlene Susan Rosen, Louise Lasser), con la “fidanzata” Mia Farrow; sulle sventure legate alle accuse di molestie verso i figli, dalle quali (almeno le prime) è sempre stato prosciolto, senza che l’America lo abbia ancora perdonato. Inevitabile leggere la versione di Woody Allen sul lungo strazio con Mia, mai sposata ma con la quale ha condiviso anni di simil-matrimonio e il matrimonio, vero, con una di lei figlia adottiva, Soon-Yi, che porta il cognome di André Previn (con il quale Mia ebbe una storia, dopo Sinatra, mentre già “stava” con Allen). Sarà, ma ci ostiniamo a credere ad Allen più che di Mia, della quale comunque, come attrice, dice solo cose belle.
Del rapporto erotico, affettivo e mentale con il mondo femminile, dal quale Allen è in tutto dipendente, rimane una realtà incontestabile: “influenzato da Bergman e Tennessee Williams, ho creato 106 ruoli femminili” segnalati da 62 nomination agli Oscar, “e 230 donne hanno avuto ruoli di rilievo nelle mie troupes”. 

Parole parole parole Ma la verità più vera che emerge dall’autobiografia è che Woody Allen nasce scrittore e sempre lo rimane. (Del musicista è meglio tacere: come clarinettista “rimango sempre un tennista della domenica, faccio sempre schifo”). Lo scrittore irresistibile si segnala già a scuola con “un tema in cui feci riferimento a Freud, all’Es e alla libido, senza sapere ciò di cui stavo parlando, ma con un curioso talento; sfruttare conoscenze vaghe e superficiali – in quel caso giusto le parole – per delle battute che fanno ridere e far credere al lettore o al pubblico che io ne sappia parecchio di più”. In quel caso ne rimangono confusi e conquistati perfino gli insegnanti, che si passano il compito l’un l’altro, “sussurrandomi e indicandomi”.
La carriera ufficiale inizia presto, ancora studente, quando Earl Wilson cita una battuta di Allan Konigsberg nella sua rubrica “La voce di Broadway”. Sorpresa, gioia, nuovo shock e una cosa da fare subito: cambiare nome.  “Tenni Allen come cognome e scelsi Woody per nessun motivo: meglio, era breve, stava bene con Allen e aveva un’aria vagamente comica, al contrario di Zoltan e Ludwig”. 
Poi tutto è un fiume di parole. “Mi piace scrivere più di girare”. “Di luci e fotografia non ne so più di quando ho iniziato, e non ho mai avuto la curiosità di imparare. So che bisogna togliere il tappo dell’obiettivo prima di riprendere qualcosa, ma le mie competenze tecniche finiscono qui”. E mezzo mondo continua a dire che si vede. 

La Parola è anche la chiave del rapporto ineluttabile ed eterno di Woody Allen con la psicoterapia,  che nel Dormiglione fa dire al sé stesso risvegliato dopo due secoli di ibernazione: “Non vado dal mio analista da duecento anni. Se ci fossi andato per tutto questo tempo, oggi sarei quasi guarito”. E nell’autobiografia chiude senza speranze: “Nelle questioni più profonde non ho fatto un solo passo avanti; le paure, i conflitti e le debolezze che avevo tra i diciassette e i vent’anni li ho ancora adesso. Dopo tutto, siamo solo un incidente dell’universo”.

Come scrive Eric Vartzbed, freudiano educato anche alla saggezza orientale, in un libro eccentrico che consiglio (Come Woody Allen può cambiare la vostra vita, Archinto), “la parola consente di nominare dettagliatamente le declinazioni del nostro fantasma, così il paziente se ne distacca e riacquista la libertà”. Se ciò sia avvenuto al paziente Woody Allen, lo deduciamo da un’altra sua battuta sugli analisti: “Adesso gli do un altro anno di tempo, e poi vado a Lourdes”.

Da sessant’anni Woody Allen scrive tutti i giorni che il dio in cui non crede manda in terra, perché “lavorare mi evita di affrontare il mondo, uno dei posti che mi piacciono di meno”. “Sono un procacciatore di amenità, di trite barzellette”, incrudelisce Allen “un mestierante di seconda fila promosso a regista per una combinazione di sudore della fronte, fortuna sfacciata e capacità di essere al posto giusto al momento giusto”.

Ma la “parola e il riso” – commenta Vartzbed – “hanno entrambi il potere di creare una distanza fra l’uomo e le sue fissazioni”. E solo a un mestierante che sia anche un po’ maestro di vita, magari senza saperlo, può scappare di mano un “La vita è una malattia trasmissibile sessualmente, con un tasso di mortalità del 100%”, dove la Parola scherza col Logos. 

Woody Allen, A proposito di niente (eBook, La nave di Teseo)
Woody Allen, Saperla lunga, Citarsi addosso, Effetti collaterali (3 vol. Bompiani)
Èric Vartzbed, Come Woody Allen può cambiare la vostra vita (Archinto)

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