Foto dal fronte (oggi come allora)

In Arte

Alla Galleria Forma Meravigli, la guerra di Liberazione è raccontata attraverso gli scatti dell’Istituto Luce e dell’U.S. Signal Corps dell’esercito americano: due modi diversi per fotografare gli stessi orrori bellici. E quale differenza c’è tra gli sfollati ad Anzio di allora e i profughi siriani di oggi?

La guerra è finita, tutti a casa! è il grido che si leva, l’8 settembre 1943, nella cucina della caserma del Regio Esercito dove è arruolato il sottotenente Alberto Innocenzi (Alberto Sordi) in Tutti a casa di Comencini. Ma la guerra era davvero finita quel giorno? L’Italia, lo sappiamo, ne stava per cominciare un’altra, ancora più difficile, ancora più cruenta, ancora più sofferta. Quella per la Liberazione. Ed è quel lasso di tempo che va dal 10 luglio 1943 (data dello sbarco degli Alleati in Sicilia) al 25 aprile 1945 ad esserci restituito in War is Over, fino al 10 aprile a Forma Meravigli. Una mostra che prova a raccontare, attraverso gli scatti dell’Istituto Luce e dei Signal Corps dell’esercito americano, due modi di interpretare e vedere quel percorso lungo e doloroso.

Donne pregano tra le rovine della chiesa di S. Anna, Cagliari, febbraio 1943. © Istituto Luce – Cinecittà
Donne pregano tra le rovine della chiesa di S. Anna, Cagliari, febbraio 1943. © Istituto Luce – Cinecittà

Una prima distinzione, ancora prima di percorrere tutte le sale, balza subito all’occhio: quella cromatica. Se le foto dell’Istituto Luce sono tutte in bianco e nero (e molte in esposizione erano state censurate all’epoca, ma grazie all’Archivio Luce sono oggi finalmente visibili), quelle degli U.S. Signal Corps sono a colori, realizzate con – l’allora – rara e impegnativa pellicola Kodachrome. Una scelta dettata dal desiderio di descrivere al meglio l’incontro tra gli americani e il territorio, fatto di persone e monumenti, in cui si muovevano. Nell’economia dell’allestimento, la dicotomia tra colori e grigi ricorda la visuale degli angeli di Wim Wenders ne Il cielo sopra Berlino: una contrapposizione che condiziona lo sguardo dello spettatore, una sensazione di malinconia che non abbandona per tutta la durata del percorso espositivo.

Un’ausiliaria americana conversa con alcune contadine in abito tradizionale di un villaggio dell’Appennino, Aiello del Sabato (Avellino), 1944. © National Archives And Records Administration
Un’ausiliaria americana conversa con alcune contadine in abito tradizionale di un villaggio dell’Appennino, Aiello del Sabato (Avellino), 1944. © National Archives And Records Administration

La seconda distinzione, ovviamente, è la diversa cifra stilistica degli scatti: le immagini americane conservano, anche nella rappresentazione degli episodi più difficili, una certa aurea patinata, da cinema hollywoodiano. Quelle realizzate degli operatori Luce, spesso mosse (il fotografo, come il combattente, imbracciava un’arma al pari del fucile, nell’ottica della propaganda fascista), raccontano il dramma di un esercito alla deriva, di un popolo allo sbaraglio.Per capirlo, basta vedere due foto che, pur appartenendo a sezioni diverse, trattano lo stesso soggetto: soldati che cercano di riscaldarsi. La prima immagine è quella di un trio di militari italiani, con i vestiti lerci, l’elmetto macchiato di fango, che usano un secchiello di latta come braciere. L’immagine è desolata e desolante, il quadro che ne esce è “sgarruppato”, come in fondo il popolo italiano in quel momento. Appena una stanza più in là, ecco i soldati americani che a loro volta si scaldano. Il braciere sembra costruito da uno scout, i volti sono rilassati, i corpi in posizione plastica: l’immagine sarebbe potuta benissimo finire in un servizio di Life.

All’inverso, qualche sala più tardi – proprio a sottolineare due diversi modi di interpretare la vita dopo la guerra – le foto a confronto di due figure simbolo del periodo post bellico: Fiorello La Guardia, storico sindaco di New York, e Alcide De Gasperi, statista italiano. Entrambi stanno scendendo dalla scaletta di un aereo: La Guardia, capello in testa e sorriso largo, sembra saltellare come un giullare; De Gasperi, impeccabile nel suo vestito scuro, scende con dignità e compostezza le scale, lui che dell’Italia rappresenta il desiderio e la volontà di riscatto.

Sfollati italiani attendono in un punto di raccolta ad Anzio l’imbarco sulle navi che li porteranno a Napoli, giugno 1944. © National Archives And Records Administration
Sfollati italiani attendono in un punto di raccolta ad Anzio l’imbarco sulle navi che li porteranno a Napoli, giugno 1944. © National Archives And Records Administration

Ma c’è qualcosa, evidente da questa mostra, che continua a non fare distinzione tra passato e presente: l’assurdità della guerra, le cui colpe ricadono su civili inermi e monumenti storici. Vedere oggi War is Over, mentre l’Occidente deve fare i conti con la guerra subdola ma capillare dell’Is, è assistere al ripetersi della Storia, le cui lezioni non sembrano essere state imparate ancora da nessuno. Qual è la differenza tra gli sfollati di Anzio, ammassati lungo le strade ricoperte di macerie più di settant’anni fa, e i migranti siriani oggi? Cosa cambia tra lo sgomento che si prova per la foto scattata tra le macerie di una chiesa italiana durante la guerra e quello per le rovine di Kobane riprese da un drone? Nulla.

Un celebre manifesto repubblicano della guerra civile spagnola (diventato poi il titolo di una delle canzoni più famose dei Manic Street Preachers) diceva: «If you tolerate this your children will be next». Per quanto tempo ancora siamo disposti a tollerare e far tollerare ai nostri figli tutto questo? War is over (if you want it).

 

WAR IS OVER! L’Italia della Liberazione nelle immagini degli U.S. Signal Corps e dell’Istituto Luce, 1943-1946, a cura di Gabriele D’Autilia ed Enrico Menduni, Milano, Forma Meravigli, fino al 10 aprile 2016.

Immagine di copertina: Fotografo Luce, 1944. © Istituto Luce – Cinecittà

(Visited 1 times, 1 visits today)