Virgilio brucia nell’Impero. O no?

In Teatro

Coltissimo spettacolo degli Anagoor con Marco Menegoni che recita per 40′ in latino con sovratitoli il II libro dell’Eneide mescolando classico e moderno, Broch e Carrère, Oates e Gosh

Virgilio brucia. Anzi no. Virgilio non brucia. Il peccato originale sta tutto qui, in un gesto interrotto, in una volontà non rispettata: l’Eneide destinata alle fiamme dal suo creatore, che non voleva consegnarla ai posteri incompiuta, viene salvata dall’imperatore Augusto e diventa simbolo di un impero, di una classicità intera. Ma anche di una contraddizione esemplare, archetipica, insanabile: quella tra l’uomo (e ancor più specificamente, l’homo poeticus) e il potere. Sia esso divino (il Destino) sia esso terreno (l’Autorità).

Se questo incipit vi sembra cervellotico, sappiate che lo spettacolo degli Anagoor non fa per voi: La morte di Virgilio (di Hermann Broch), è infatti solo la prima tappa del coltissimo spettacolo-processione del giovane collettivo veneto capitanato da Simone Derai. Quella degli Anagoor è infatti una riflessione itinerante che attraversa i secoli, le semantiche e i linguaggi, interrogandosi su un autore (Virgilio), sulla sua opera (l’Eneide ma non solo), sulla sua parola (lingua imperii), e sulle implicazioni ad esse connesse. Tematiche che potrebbero suonare come lingue morte all’orecchio dell’uomo-faber contemporaneo, imbevuto di lumi e materialismo. Eppure, non di rado, la storia recente ci ha raccontato di fatti non dissimili dalle vicende troiane, dove la ragione sembra cedere il passo a vecchi soprusi e dove Destino e Autorità tornano ad essere le dita della stessa, terribile, mano. Ecco allora che allo struggente proemio cantato in armeno (riferimento al genocidio del 1915) fanno seguito i versi di Danilo Kìš (poeta serbo legato, per esperienza familiare, all’Olocausto) e poi le parole di Amitav Ghosh che in The Glass Palace racconta la caduta e l’esilio della famiglia reale birmana a seguito dell’occupazione inglese del 1885. Insomma: perché si instauri una nuova “civiltà” egemone, un’altra deve perire – ci ricordano gli Anagoor –, e che si tratti di un potere superiore o di un potere terreno, l’essere umano pagherà sempre il prezzo del cambiamento, del procedere storico, con lo stesso identico dolore, col medesimo, ineluttabile, sacrificio. È questa, del resto, l’unica prospettiva che appartiene all’uomo, la stessa che condivide con gli altri animali e che, a sua volta ripropone come schema; non a caso, in un breve filmato, ci viene mostrata la nascita di alcune bestie in allevamenti intensivi: nel loro venire alla luce, quei maiali, quelle mucche, quei pulcini hanno già inscritto il proprio immolarsi per qualcun altro. Una condizione tragica più che epica, quella dell’uomo Anagoor-virgiliano, eppure è proprio dalla rabbia connaturata a questo stato di vittime sacrificali che si genera l’ardore creativo, il motore poetico (inevitabilmente elegiaco, verrebbe da aggiungere) è intimamente antiautoritario.

Virgilio brucia – si sarà intuito dalla complessa stratificazione tematica – più che a “intrattenere” lo spettatore, punta a catturarne l’interesse, a catalizzarne l’attenzione attraverso un’azione drammatica di grande fascino. Un fascino che, a differenza di quanto si potrebbe supporre, non è esclusivamente intellettuale. Come uscire indenni infatti dall’impatto emotivo con la scena della raccolta del miele (vero e proprio rito misterico teatrale)? Come non apprezzare la ricercatezza iconografica del tableau vivant finale? Come non vedere nell’interpretazione di Marco Menegoni del secondo libro dell’Eneide (recitato integralmente in latino classico, con tanto di metrica), una straordinaria performance attorale?

Si potrebbe obiettare che quarantacinque minuti di latino siano tantini per uno spettatore comune (non che l’addetto ai lavori parli quotidianamente in greco antico, intendiamoci!), che l’armeno e il serbo non aiutino la fruizione e che l’anti-narratività dell’impianto drammaturgico risulti un filino respingente. Tutto vero: il rischio degli Anagoor è quello di concedere poco al “grande pubblico” e apparire eccessivamente elitari. Eppure spettacoli come Virgilio brucia non possono che fare bene al teatro italiano: alzano l’asticella, sono sì ambiziosi, ma nell’accezione migliore del termine, quella che implica un lavoro serio di ricerca, di studio, di impegno, di messa in scena. Ad augusta per angusta dicevano un tempo. E nei giorni in cui il Piccolo Teatro registra più abbonamenti di quelli di Milan e Inter è bello vedere inserita nella programmazione stagionale un’opera come questa: è segno che forse anche il teatro istituzionale può tornare, coraggiosamente, ad osare.

(Per il video si ringrazia Anagoor)

Virgilio Brucia di Anagoor, fino al 31 gennaio al Piccolo Teatro Studio Melato

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