Schumann a Palermo: lontano dal paradiso

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Per “Das Paradies und die Peri”, il capolavoro romantico di Robert Schumann visto al Teatro Massimo di Palermo, Simone Derai mette in scena un Oriente privo di stereotipi e intriso di una spiritualità spontanea che ha qualcosa di arcano. Ma la direzione di Gabriele Ferro è lontana dal paradiso

Il paradiso non può più attendere, per la Peri di Robert Schumann, silfide della tradizione islamica cacciata all’inizio dell’oratorio che il compositore le dedica in piena maturità artistica, nel 1843, ovvero dieci anni prima della maturità psicotica. Un lavoro che non è un’opera e nemmeno una cantata: di qualunque cosa si tratti, Das Paradies und die Peri è un capolavoro del romanticismo più oscuro e indecifrabile, che il Massimo di Palermo ha proposto nei giorni scorsi con direzione di Gabriele Ferro, l’ultima come direttore musicale, e messinscena del collettivo veneto Anagoor.

Forma scenica, quindi, come già lo scorso anno Peter Sellars alla Walt Disney Concert Hall di Los Angeles, mentre da noi, nel 1990, ci ha pensato Beppe Menegatti al Bellini di Catania con Carla Fracci protagonista. Ma il progetto degli Anagoor, con regia, scene e costumi di Simone Derai, mantiene un assetto originale da oratorio, con un’imponente gradinata che conduce dall’orchestra alla sacra scena, mentre coro e solisti sono sovrastati dalle immagini di un video curato dallo stesso Derai, che come la Peri ha viaggiato per l’Oriente, su e giù per l’Iran, in cerca della chiave per riammettere l’angelo in paradiso. 

Das Paradies und die Peri
©Franco-Lannino

E sono i “volti”, la chiave, un po’ alla Cassavetes. Certo non per lo spirito borghese, ma per una simile capacità di catturare quel che c’è di invisibile in un’espressione: iraniani di ogni età, genere e status a cui basta uno sguardo in camera, così lontano così vicino, per mettersi a nudo. L’affascinante montaggio non narrativo segue i versi che Schumann ha tratto dal poema  Lallah Rookh di Thomas Moore, e accompagna il pubblico tra i martiri della rivoluzione, le cui effigi sono sparse per tutto il paese; o ancora in una notte al Museo Egizio di Torino, con tanto di corsa come in Bande à part  di Godard; il video si chiude sotto a un ponte da qualche parte in Iran, dove gli anziani si nascondono per cantare: sarà la voce di un bambino esule di Mosul, luminosa e impressionante, a consegnare alla Peri e al pubblico il dono per l’apoteosi finale. 

In questa visione della Peri secondo Derai, l’Oriente non è mai tematizzato con gli occhi dell’Occidente, ma ci passa davanti senza traccia di stereotipi, di cartoline o di orientalismi, con una spiritualità spontanea e sincera che ha qualcosa di arcano e di universale, esattamente come in partitura. Nel video compaiono anche scene fiction di (in)felicità domestica schumanniana, con Robert, Clara e figli ripresi in uno sfocato ritratto di famiglia, per suggerire la dolorosa intimità di questa partitura, così intrisa di lirismo. Ma quel che più sorprende della lettura degli Anagoor è che si rivela molto più politica di quanto ci si aspetterebbe: senza alcuna retorica, basta un solo istante tra questi volti, magari mentre il testo suggerisce di aprire le porte, per rievocare temi di attualità con tutta la forza del sottinteso.

Das Paradies und die Peri
© Franco Lannino

Buono il cast, sempre presente in scena: Sarah Jane Brandon, Valentina Mastrangelo, Atala Schöck, Maximilian Schmitt, Albert Dohmen. Anche se un lavoro tanto sofisticato, avrebbe meritato un diverso trattamento musicale: la direzione di Ferro, lontana dal paradiso, non sembra nemmeno tentare di indagare i misteri della partitura, che viene il più possibile regolarizzata e, quindi, inevitabilmente snaturata. L’orchestra risponde con una uniformità senza dinamiche, senza abbandoni, quasi senza fraseggi, raggiungendo livelli di rigidità impensabili persino negli “anni di galera” più bui del melodramma.

Immagine di copertina © Rosellina Garbo 2019

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