Noi e Vinyl: do you remember the Seventies?

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“Da noi arrivava quasi tutto, a ondate, anche se i New Yorks Dolls erano merce d’importazione per palati fini”. Gli anni settanta, il rock, e i suoi Miti nel ricordo di uno che c’era

Mi chiedono: che cosa ne pensi di Vinyl, la serie tv ideata da Martin Scorsese, Mick Jagger e Terence Winter, quello dei Soprano? È musica degli anni ’70, era la tua musica, no?

Sì, la musica della strepitosa serie Hbo, da noi in onda su Sky Atlantic, era una delle possibili musiche dell’anno di grazia 1973, quando avevo vent’anni. Era senz’altro la musica che girava a New York, con i Velvet Underground di Lou Reed, John Cale e Nico (e Maureen Tucker, la prima batterista donna che io ricordi) messaggeri di un rock cupo e metropolitano fatto di spacciatori e marchette, di strade selvagge, amori intossicati e feste che finiscono male.

In quel 1973 a New York evaporava il vecchio rock, marciva il pop mieloso dei ’60 e si faceva strada il suono abrasivo e senza chitarre dei Suicide, il minimalismo crudo e stralunato dei Modern Lovers di Jonathan Richman, il proto-punk tesissimo e oltraggioso, osceno e potente dei New York Dolls, che si sgolavano nel salone fatiscente del Mercer Arts Center di Greenwich Village vestiti da puttane.

Da noi arrivava quasi tutto, a ondate, anche se i New Yorks Dolls erano merce d’importazione per palati fini (o per stomaci robusti, fate voi: qualche notorietà avrebbe goduto anni dopo il loro leader David Johansen, con alcuni album da post-crooner e lo pseudonimo Buster Pointdexter). Nelle classifiche nostrane gli stranieri se la battevano con i cantanti italiani, e il rock nelle sue varie declinazioni la faceva da padrone anche qui.

C’era spazio in classifica per il glam (i T.Rex di Marc Bolan, Gary Glitter, David Bowie con canzoni come Andy Warhol e The Jean Genie), per il notabilato inglese (gli ex Beatles nelle loro imprese soliste, e poi Pink Floyd, Traffic, Genesis, King Crimson) e per bonbon californiani (Eagles, Santana), per il soul (Al Green, Roberta Flack, James Brown, Joe Tex, Curtis Mayfield, Gladys Knight) e per l’hard rock (i Led Zeppelin e Alice Cooper che compaiono in Vinyl, ma anche i Deep Purple e gli emergenti Aerosmith), esordiva Bruce Springsteen (Blinded by the light) e cominciava a diventare popolare il reggae (Get up, stand up di Bob Marley).

Lou Reed circolava, Perfect day e Walk on the wild side le sentivamo eccome. Dell’ultima circolava anche una versione italiana un po’ comica, I giardini di Kensington, intonata con voce rarefatta e tutta di gola da Patty Pravo: altri giardinetti, altre strade, miss Strambelli, Peter Pan avrebbe avuto paura a girare dalle parti di Lou, dove lui si depila le gambe e diventa lei e le ragazze nere cantano du dudu dudu dududu.

Insomma, Lou Reed era dei nostri, ascoltavamo persino Frankenstein di Edgar Winter, fratello minore (e di minor successo) del chitarrista Johnny e come lui albino, che viene eseguita in una delle scene più crude di Vinyl: la balla Buck Rogers, cocainomane e proprietario di una catena di stazioni radio, mentre vede il film in tv, prima di estrarre la pistola e minacciare il protagonista Richie Finestra.

Ok, la musica è giusta. Ma Vinyl non si guarda solo per la musica, prestigioso bonus, né per la nostalgia, qui l’effetto rotonda sul mare è bandito. Lo si guarda per Scorsese e per la sua ennesima variazione, nevrotica quanto basta e assai poco propensa all’idillio, sull’America violenta (la serie è pensata da lui e Jagger, lo abbiamo detto, il pilot di quasi due ore è diretto da lui: ed è un film vero, neanche fra i suoi minori). Anche qui ci sono gli antieroi tra inferno e paradiso, tra ideali e cinismo: Richie Finestra boss della American Century Records (un bravissimo Bobby Cannavale), italo-americano di Broccolino venuto su facendo il barista e l’uomo di fatica del circo della musica, destinato a pulire il cesso di chissà quale locale dal vomito di Chubby Checker, i più attempati fra noi se lo ricordano ancora, era quello di Let’s twist again. E arrivato forse alla fine del percorso al giro dei boa dei ’60, quando il vecchio rock è invecchiato male e la sua casa discografica fin lì potente imbarca acqua, forse è il caso di venderla agli unni della PolyGram.

Attorno a lui cinici impiegati della musica, distributori di bustarelle e truccatori di resi e di bilanci, non dissimili dagli impiegati del crimine di Goodfellas. Attorno a lui faccendieri tra il burino e il losco e mafiosi veri. Attorno a lui una bolgia di sovreccitati mediocri con pulsioni autodistruttive, lui per primo, sempre strafatti e ipercinetici, sessuomani tra il patetico e il coatto (le donne qui, correttamente, com’era nella realtà, sono figure al margine, mogli trascurate o impiegate umiliate o prede: il rock non era un paese per donne, se volete una riprova ascoltatevi una hit dei Rolling Stones di raro maschilismo che viene riproposto nella serie, Under my thumb). Attorno a lui ville nel Connecticut (la bella vita dei nuovi ricchi della musica) ma soprattutto una New York desolata di bassifondi e antichi palazzi sgarrupati e sul punto di crollare.

Crolla nella scena che conclude il pilot di Scorsese il palazzone di otto piani dello University Hotel che ospita anche il Mercer Arts Center, sei sale dove si recita Brecht e l’off-Broadway, dove suonano Miles Davis, Dizzy Gillespie e le bande punk. Crolla, nella finzione, mentre i New York Dolls sono alle prese con la cavalcata energetica e sfrontata di Personality crisis, seppellendo fra le macerie anche il boss discografico. Nella realtà, crolla il 9 agosto 1973 facendo solo quattro vittime perché i locali, in seguito a scricchiolii sinistri, sono stati evacuati un’ora prima che gli spettacoli avessero inizio. Insomma, la finzione non è tanto distante dalla realtà. Come non lo è quel misto di Taxi driver e Wolf of Wall Street, di Fuori orario e Re per una notte che è Vinyl. Perché, nel gioco di chi-imita-chi, Scorsese aderisce alla realtà del circo rock molto più di quanto il circo rock si modelli sulle ossessioni di Scorsese.

Lui peraltro l’ambiente lo conosce bene, di prima mano, più ancora degli altri registi rock per eccellenza, Wim Wenders e Jonathan Demme, basterebbero le docufiction su Dylan, Rolling Stones e Harrison a testimoniarlo: e in questo Vinyl, quando Finestra entra a un concerto e la bigliettaia gli dice “Si pulisca il naso”, alludendo ai residui di coca, viene in mente L’ultimo valzer, il concerto di addio della Band ripreso nel 1978 proprio da lui che aveva esordito dieci anni prima come operatore nel documentario su Woodstock, quando Neil Young entra in scena strafatto e con un alone bianchiccio alle narici.

Diamo dunque per scontati la droga e l’alcool, diamo per scontato anche il sesso incasinato e promiscuo: Mick Jagger, storico del gruppo e oggi attempato gentleman che gestisce oculatamente il patrimonio e dà istruzioni alla servitù della sua magione di campagna perché lustri l’argenteria ogni quindici giorni, come si faceva nelle Downton Abbey vittoriane, ricorda senz’altro quando, alla fine dei ’60, gestiva la giovanissima Marianne Faithfull in multiproprietà con gli altri Stones.

Nel 1973 di Vinyl però la libertà sessuale non basta più, let’s spend the night together non è più una rivendicazione, e il rock esplora gli inferni dell’amore e dell’eros: come fanno, in una delle prime scene della serie, i Velvet Undergound che cantano Venus in furs, bacia lo stivale di cuoio lucido, schiocca la frusta, colpisci, padrona, e cura il mio cuore. La canzone, a dire il vero, sarebbe del 1967 e in realtà è stata scritta anche prima, ma la scena è un flashback che rievoca l’incontro, alla Factory di Warhol, tra Richie Finestra e la sua futura moglie.

Restano gli italo-americani. La frase con cui inizia Vinyl dice: «Un tempo l’industria discografica erano due ebrei e un italiano che facevano incidere quattro neri su una pista». Da Frank Sinatra a Perry Como a Tony Bennett, passando per le decine di comprimari del rock (Frankie Avalon, Dion di Mucci, John Cipollina dei Quicksilver, Felix Cavaliere con i “compaesani” degli Young Rascals, e si potrebbe continuare per pagine e pagine, senza trascurare il Frankie Vallie dei Four Season al quale Clint Eastwood ha dedicato il recente e delizioso Jersey boys), la presenza degli italo-americani nell’industria della musica è massiccia. Come pure, e non vorremmo dilungarci, dal proibizionismo in poi, passando ancora una volta per Sinatra, quella di criminali e mafiosi.

Restano le eccentricità, le manie, il giocare con il fuoco o con le armi da fuoco. Davvero i discografici, che avrebbero in qualche modo dovuto “guidare” e/o controllare gli artisti, erano come loro o anche peggio? Lo erano, oh yes. Prendete per esempio un discografico e produttore di genio come Phil Spector, l’inventore dei gruppi femminili dei ’60, l’uomo che lanciò Ike & Tina Turner con River deep, mountain high e che collaborò con i Beatles di Let it be: nel 1977 Leonard Cohen ebbe un’esperienza da incubo mentre incideva sotto la sua supervisione Death of a ladies’man. La sala di registrazione era piena di bottiglie di vino, proiettili, pistole e gorilla. A un certo punto Spector, che vent’anni dopo sarebbe stato condannato per omicidio a 19 anni di carcere, puntò una pistola alla gola del cantautore e gli disse, sbronzo fradicio: «Ti amo, Leonard». Il povero Cohen poté soltanto rispondere, con un filo di voce: «Lo spero proprio, Phil, lo spero proprio».
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