Due case di bambola, visto da lui, visto da lei

In Teatro

Un mediocre, un furfante e un disperato. Marionette di Nora, a sua volta bambola, capace però di piantarli tutti lasciandoli come quelli della Mascherpa, che…

Un mediocre, un furfante e un disperato. Marionette di Nora, a sua volta bambola, capace però di piantarli tutti lasciandoli come quelli della Mascherpa, che nella canzone di Jannacci non trovano più il palo. Fatui cicisbei che così ce ne sono pochi: se già i maschi non escono bene dalle pagine di Ibsen, in Una casa di bambola va ancora peggio.

Tutti in cerca di contegno, o segnati per averlo già perduto, i tre uomini non sanno andare oltre il materialismo delle colpe congenite, che dai padri passano ai figli. Così Rank è sciancato perché il padre esagerava con le ostriche, Torvald, memore del suocero, preconizza il decadimento morale di Nora, e Krogstad ha una macchia indelebile che rivela in ogni suo gesto.

Filippo Timi, diviso e un po’ disperso fra i tre ruoli, parte da questo denominatore comune per tracciare in fondo lo stesso personaggio: se stesso. Battute più improvvisate che ricordate, tanto c’è la sua solita via d’uscita, perfetta per Favola o Don Giovanni, ma subito stucchevole in Ibsen. Non per un personale culto nordico (o almeno non solo), ma con queste premesse lo spirito da commedia, che la Shammah ha trovato nei saggi di Groddeck su Ibsen, si fa subito sceneggiata – vedi la tarantella. Così Nora non è più vittima: le bambole sono gli altri e la «scoiattolina» norvegese trasforma la realtà in finzione, incantando personaggi e pubblico con un dramma inside her head.

Non più il laido e l’illusa: il rigido Torvald e Nora, suffragetta in rivolta, che arriva al limite e compie il miracolo del No, che si abbatte retroattivamente su tutti i Sì detti fino a quel momento.

Al contrario, in un salotto con troppe porte, marito e moglie giocano al divorzio con la tentazione melodrammatica di farla più grossa di quanto non sia. Perché per una scenata bastano solo la notte e un po’ di vino, e ogni inezia si trasforma nell’ora del «vero sentire», direbbe Peter Handke, con la voglia di fare della vita un teatro o viceversa.

Ma per quanto attiri una lettura che ribalta i ruoli, che dà le colpe a Nora senza insistere su quanto poco valga il maschio medio, lo spettacolo è costruito a tavolino, e vorrebbe portare in scena le argomentazioni di Groddeck, che sono grandi proprio perché non si vedono: forse a teatro la teoria deve restare nascosta.

Un po’ troppo la chiusa di Timi sotto lo spot, che resta in sospeso su «meravigliosa», versione virile di «domani è un altro giorno»: tanto Nora tornerà, Groddeck ha detto entro quindici giorni.

Mattia Palma

 

Ibsen ci racconta il dramma di Nora, una donna della borghesia ottocentesca che diventa una delle prime raffigurazioni di donna “moderna” capace di ribellarsi alle convenzioni di una società a cui sente di non appartenere. Dal momento della ribellione Nora non appare più come una bambolina sottomessa al marito ma come una donna forte, risoluta che sta iniziando un periodo di emancipazione che porterà negli anni successivi alle suffragette, al movimento femminista e ai diritti paritetici tra uomo e donna, per quanto ancora oggi si avvallano dubbi sul raggiungimento di questo ultimo punto.

La regista, Andreè Ruth Shammah per Una casa di bambola ha tratto certamente ispirazione da Groddeck; secondo questi Nora vive in una dimensione romanzesca, crede che il marito Torvald sia un cavaliere senza macchia e senza paura e nel momento in cui vede venir meno questa certezza, vacilla ed esce dall’impasse assumendo un’altra costruzione fantastica, quella femminista, portando sulla scena il progetto di donna emancipata, per poi ritornare a casa, cosa che Ibsen non dichiara ma che lascia il permesso al dubbio di insinuarsi. Nora vuole essere una bambola.

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In questa versione della vicenda poco convincente se si pensa allo scandalo che il testo suscitò all’epoca della sua uscita, vediamo alternarsi sul palcoscenico Filippo Timi che rende assolutamente uguali tutti i personaggi tra di loro, esaltandone le caratteristiche buffonesche e istrioniche che per niente appartengono ai personaggi maschili descritti da Ibsen; e Marina Rocco, che rende il personaggio di Nora esattamente uguale a quelle figure femminili allegre, superficiali e inconsistenti che sempre subiamo quando la incontriamo sul palcoscenico, il risultato è la dissacrazione di un testo che è stato da sempre considerato un precursore della figura femminile come essere umano e non come proprietà privata di un essere di sesso maschile.

Invece di tutto questo sul palcoscenico vediamo apparire una figura femminile che non solo non riesce a trattare gli altri come bamboline, se questo era l’intento, ma che risulta stucchevole, rosa come le pareti, insulsa, superficiale, isterica, e allora che fine ha fatto la Nora di Ibsen? Colei che è stata d’esempio per milioni di donne, che hanno portato il testo sul cuore e le rivendicazioni di pari diritti in mano? Non troviamo questa forza nella Nora di Marina Rocco, e al contrario non cogliamo con chiarezza il punto in cui le cose cominciano a cambiare, ma si assiste ad un freddo “faccio le valigie”.

Forse questo è un testo troppo lontano da quel teatro farsesco che siamo soliti vedere e apprezzare negli spettacoli di Filippo Timi.

Federica Piergiacomi

Casa di bambola di Ibsen, al teatro Franco Parenti

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