La Storia al tempo dello storytelling

In Letteratura

Il racconto della storia dell’Afghanistan di Dalrymple è emblematico di una tendenza particolare: l’ibridarsi di storia e narrazione

Il tempo è un contenuto.  Che sia il passato, il presente, l’immediato futuro, o uno più remoto, la letteratura ha sempre fatto i conti col tempo, e con le potenzialità narrative di cui dispone. Dopo un periodo di perdita di prospettiva storica, in cui il presente si scopriva ogni giorno davanti allo sguardo degli uomini e degli scrittori, dagli anni ottanta sembra che quello sguardo abbia cambiato direzione e il recupero della Storia sia diventato quasi necessario da parte di un numero sempre maggiore di narratori. Una tendenza che arriva fino ai giorni nostri,  e interpretata come una reazione alla paralisi della western way of life. La letteratura combatte con il passato l’atrofia del presente e la paura di isolamento. E, cercando nella Storia, combatte contro l’assenza di speranza: forse in quello che è andato storto si annida ancora una potenzialità vitale, un bivio a cui è possibile tornare.

La Storia ritorna, si contamina con letteratura, e in ogni decennio lo fa in una nuova forma. Negli ultimi vent’anni gli strumenti della storiografia e quelli dello storytelling vengono maneggiati insieme, e con disinvoltura, da parte di molto scrittori; spesso le tecniche della narrativa si mescolano sempre di più con le forme del reportage e dell’inchiesta. Per fare qualche esempio, L’armata dei sonnambuli di Wu Ming e il più recente Il Regno di Carrére hanno alle spalle un grande lavoro di ricerca archivistica e documentaria.

Da storico e scrittore William Dalrymple, mette in pratica il metodo della contaminazione soprattutto nel suo ultimo lavoro, Il ritorno di un re, e lo fa con esiti inaspettati che trasformano le guerre afghane dell’Ottocento in una vicenda umana nella quale re e capi tribù sfilano a fianco degli eserciti occidentali, accomunati dal bisogno di controllare un territorio  incontrollabile. Una carrellata di eroi falliti, giochi di potere e inutili sfarzi che l’Autore riporta dopo un attento studio di documenti storici in persiano, russo e urdu sino a oggi sconosciuti.  Al centro de Il ritorno di un re  la storia del Grande Gioco tra Inghilterra e Russia per contendersi l’Afghanistan. Un gioco  che comincia intorno al 1820 con la disfatta ottomana e persiana, e il timore di un’avanzata russa verso l’Afghanistan in grado di minacciare il dominio indiano dell’Inghilterra e le contromanovre britanniche per estendere l’ Impero.

Entrambi gli invasori corrompono i capi tribù locali,  addirittura i re, e pensano di manovrare le loro rivalità. In realtà il pallino rimane sempre in mano agli afghani, che riescono puntualmente a cacciare lo straniero utilizzando i loro stessi espedienti. Per ricominciare, poi,  a scannarsi tra loro.

Un gioco che in qualche modo continua ancora con l’ unica variante dell’ingresso di un altro giocatore: gli Stati Uniti. Per il resto si ripete lo stesso melting-pot di corruzione, paranoie, spedizioni militari, intrighi, spie, imboscate, guerre sante e tribali.
La differenza è che un tempo i protagonisti erano fantastici; alcuni in grado di diventare eroi epici del calibro di Orlando e Achille, altri solo melodrammatici come gli eroi da operetta e, altri ancora spie e contemporaneamente  grandi studiosi di arte, di lingue, di letteratura. Tutti comunque con uno spessore e un’intensità che oggi non riusciamo neanche  a immaginare. Ci resta solo l’elegante, opaco e ambiguo Hamid Karzai.

Anche le città afgane hanno seguito il destino dei loro abitanti. Kabul, Peshäwar, Simla erano giardini meravigliosi con cascate, palazzi e moschee. Oggi non restano che desolate macerie. La storia del Paese viene raccontata da Darlymple anche attraverso le vicissitudini dei favolosi gioielli dei Moghul, primo fra tutti il diamante Ko-h-i-nor, che furono usati da Hamad Shah Abdali, tra il  1722 e il 1772, per finanziare la sua conquista di Kandahar, Kabul e Lahore. Una Storia costellata di  feste e cerimonie da Mille e una notte; cibi squisiti, pesche, ciliegie, sorbetti e frutta secca, vini profumati e fagiani consumati da festaioli in divise e abiti sontuosi che raggiungevano i palazzi a bordo di carrozze d’oro.

Forse oggi – a intendersene – potrebbero stupirci e appassionarci le tecnologie utilizzate per le bombe cosiddette intelligenti, i droni o le divise dei soldati americani.  Nonostante le intenzioni, l’apparato bellico statunitense non è mai entrato nella sfera del mito e nemmeno l’ha sfiorato.

Ieri come oggi, le tribù autoctone continuano a contendersi il potere ogni qualvolta gli stranieri, dopo terribili perdite, abbandonano malamente il campo. E l’Afghanistan non si è mai pacificato.

In questa pace impossibile sono coinvolti personaggi grandiosi ed eroi crudeli,  in un avvicendarsi drammatico e farsesco al tempo stesso. Ci viene voglia, per esempio, di saperne di più sul tenente Henry Rowlinson. Figlio di un allevatore di cavalli da corsa di Newmarket, talentuoso orientalista e membro della missione britannica in Persia. Nel 1837 il magnifico tenente scopre per caso le manovre della Russia al confine con l’Afghanistan e avverte gli inglesi. In seguito diventa uno stimato agente politico ed eccellente amministratore di Kabul. Sua è anche la decodifica della cuneiforme lingua persiana, una scoperta degna di quella della Stele di Rosetta.

Incuriosisce anche Lord Aukland, primo governatore generale dell’India, irresistibile già nella descrizione che ne fa il suo segretario: ( … ) tra tutte le umane condizioni, forse la più magnifica e al tempo stesso la più anomala è quella di governatore generale dell’India britannica. Un privato gentiluomo inglese, dipendente di una società per azioni (La Compagnia delle Indie Orientali), si trova a essere, per il breve periodo del suo governatorato, il viceré del più grande impero del mondo, il sovrano di cento milioni di persone. Non è mai esistita nella storia una posizione simile (…). Aukland accetta l’incarico per opportunità di carriera, non fa nulla per conoscere il paese che deve governare ed è infastidito dai raja ingioiellati  con i quali è costretto a mescolarsi. Ascolta solo le sue spie, e segue con maggiore zelo i consigli di quelle doppiogiochiste, coi disastrosi esiti che conosciamo. Con il Lord, scopriamo anche l’ineffabile sorella Emily, disgustata dalla puzza e dal caldo di Delhi ma finalmente felice quando la corte si trasferisce nella residenza estiva di Simla, una piccola Oxford hymalayana. La sua voce insoddisfatta si trasforma allora in un cinguettio eccitato di fronte a quel  parco divertimenti vittoriano con chiese gotiche, casette di legno e giardini. Nel resto dell’India potevano infuriare disordini, rivolte, persino sommosse cruente, ma a Simla l’argomento del giorno erano le finali di polo, le gare di corsa e soprattutto gli appassionanti tornei di cricket (…) scrive la donna nel suo diario, condividendo la sua visione del mondo con quella del più celebre fratello Lord Aukland.

Il vero eroe, a cui Darlymple conferisce una portata epica, è Dost Moahammad Khan che riesce a prendere il potere con un colpo di stato e l’appoggio della popolazione. Governa con giustizia e ferocia ma viene spodestato da Shah Shuja. Nel 1835, non sappiamo se per devozione o strategia politica, Mohammad lancia il jihad e si fa insignire del titolo di Amir al-muminin, Comandante dei credenti. Conquista Kabul e marcia su Peshawar. Legittima il suo potere invocando la suprema autorità del Corano e l’adempimento del suo dovere di buon mussulmano a condurre la guerra santa contro gli infedeli, inaugurando così una teorica e millenaria età dell’oro d’islamica di purezza e santità, e approfittando del jihad per rivendicare la guida di tutte le genti afghane. Così scrive in un’ambasceria a Lord Aukland:  Queste tribù costituiscono la mia nazione, proteggerle e difenderle è per me tanto un dovere politico quanto un obbligo morale (…) Rifletta e consideri se gli afghani potrebbero mai tollerare in silenzio di essere insultati e oppressi senza opporre resistenza. E, forse, se il Governatore avesse deciso di appoggiarlo, evitando l’occupazione militare e l’insediamento di un re fantoccio come Shah Shuja, il Paese avrebbe avuto un governo forte e qualche decennio di pace.

Sono a decine i personaggi di Darlymple che ci catturano e che non vorremmo abbandonare. Personaggi famosi ma anche minori; afghani, inglesi, francesi, russi, indiani e persiani dei quali lo scrittore racconta le storie e i caratteri con puntualità e devozione narrativa.

Nel frattempo la Storia, quella degli Stati, dei Governi, degli interessi economici e delle guerre continua il suo corso. Assistiamo a un precipitare degli eventi desolatamente casuale, nonostante gli sforzi e l’intelligenza profusi. La Storia non possiamo né prevederla, né dominarla, sembra suggerirci l’Autore. E così i nostri personaggi, nonostante quella scintilla d’ésprit, vengono travolti o semplicemente assorbiti dal flusso.

Durante la lettura viene in mente il libro edito da Sellerio, La piccola X  di Sabina Loriga, che richiama la tradizione biografica della storiografia a partire da Tacito, Svetonio, Plutarco.  Dalla fine del secolo XVIII, scrive l’Autrice, gli storici hanno accantonato le azioni e le sofferenze dei singoli, per cercare di scoprire il processo invisibile della storia universale. Le ragioni che li hanno condotti a trascurare i singoli esseri umani, per passare a una storia plurale (die Geschichten) sono svariate. Senza dubbio, hanno pesato due difficili sorprese della modernità; da un lato, la scoperta che anche la natura è mortale e, dall’altro, la progressiva perdita di fiducia nella capacità dei nostri sensi di cogliere la verità (dai tempi di Copernico, la scienza non fa altro che mostrarci i limiti dell’osservazione diretta).

Con Il ritorno del re, Dalrymple ha messo insieme la storia dei singoli e quella di un intero Paese. Ha scritto un magnifico libro di storia attingendo ad archivi militari, governativi, diari, lettere private, riscoprendo ballate popolari e citando meravigliosi poemi epici. Ha scritto anche un meraviglioso romanzo riuscendo a raccontare dall’interno un succedersi di prepotenze, violenze, tradimenti e stupidità che la storia universale spesso tralascia. Il ritorno di un re è l’esempio, riuscito, di una tendenza evidenziata dallo storico inglese Lawrence Stone secondo la quale romanzieri e storiografi ambiscono a guardare il passato con lo sguardo dei suoi abitanti e cercano di immedesimarsi per capire quale sia la qualità della vita di ogni epoca. I romanzieri hanno quindi vestito i panni degli storici, e molti storiografi si sono fatti storytellers. Entrambe le contaminazioni portano inevitabilmente sul terreno della narrativa. Nella sua accezione più estesa.

Immagine: Lego recreation of Steve McCurry photo in Afghanistan

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