Il mio libro a San Vittore: l’effetto che fa

In Letteratura, Weekend

Cronaca di un bel pomeriggio in carcere a discutere – l’autrice e l’editrice – di ‘ È solo un cane (dicono)’: l’ansia della vigilia si scioglie tra domande originali e sorprendenti, stereotipi da rivedere e molta partecipazione

Sono in piazza Filangieri davanti al civico 2, fisso il pesante portone di legno e non mi sento propriamente tranquillissima. Tra poco quel portone si aprirà e poi si richiuderà alle mie spalle, facendomi entrare in quel luogo tetro e opprimente che è il carcere di San Vittore. Sì, certo, in genere le carceri non sono luoghi ameni, ma San Vittore con la sua vetusta struttura riesce a essere raggelante in modo peculiare.

E la mia ansia non migliora quando arriva la nostra Beatrice, Alessandra Magenes, la volontaria che ha organizzato l’incontro tra la casa editrice Astoria e un gruppo di detenuti, nell’ambito di un progetto di lettura e scrittura. Alessandra ci avverte che lì dentro ci sono ragazzi (lei li chiama così, a prescindere dall’età) deliziosi, interessatissimi e smaniosi di imparare, quasi famelici di cultura, ma non sempre le cose vanno benissimo, perché San Vittore è un carcere di passaggio, agli incontri partecipa spesso gente diversa, e a volte ti capitano elementi di disturbo.

Molto bene, penso.

Mi immagino già scene da film americano, con galeotti induriti incacchiati neri per aver dovuto leggere il mio libro È solo un cane (dicono)– tutto pieno di buoni sentimenti, di ebrei salvati mentre erano in fuga dai nazifascisti, e cagnoni adorati. Mi disprezzeranno, lo sento, e io non saprò come comportarmi. Oh, no!

Le mie ansie spariscono all’arrivo dei primi detenuti, che non solo sono sorridenti e premurosissimi, ma c’è chi arriva con il mio libro pieno di post-it (si è segnato i passi salienti), e chi si rammarica di averlo lasciato in cella – lo stava leggendo ancora.

Ironia della sorte, avremmo dovuto essere nel sesto raggio, che però è chiuso per lavori, e dunque ci hanno dirottati sulla biblioteca del quinto: proprio il raggio in cui dopo il 1943 vennero portati gli ebrei in attesa della deportazione ad Auschwitz.

I partecipanti arrivano alla spicciolata, ci vuole pazienza. Non è colpa loro. Ogni spostamento a San Vittore è difficile. Una guardia deve andare a prendere chi sta su piani diversi da quelli della stanza che funge da biblioteca. Biblioteca sui cui scaffali non c’è un granello di polvere. È tutto vecchio e triste ma pulitissimo, come nei corridoi, dove il pavimento letteralmente luccica.

Cominciamo l’incontro, chiacchiero un po’, racconto della fuga delle mie zie all’indomani delle Leggi Razziali, parlo del Sudamerica. Uno dei presenti, un tizio dal sorriso così radioso che pare che invece che essere in galera sia a un ricevimento, si mostra preparatissimo e racconta delle diverse politiche di accoglienza nei confronti degli ebrei messe in atto da paesi come l’Argentina e il Paraguay.

Altro che rivolta stile Battaglia di Alcatraz, questi mi metteranno in difficoltà perché sanno già tutto!

Data l’occasione irrituale, ho poca voglia di fare la conferenzina e molta voglia di dare spazio alle loro domande. Scelta felice perché giuro che manco nelle scuole elementari (la voce dell’innocenza) ho sentito porre all’autore domande così originali e inaspettate.

Il primo è un uomo dall’espressione corrucciata, che chiede se è presente l’editrice in persona, perché vorrebbe chiederle una cosa. Intanto sta accarezzando una copia del libro, passa le dita sulle pagine, scuote ammirato la testa. Dice: “Bellissima carta, complimenti. Anche l’inchiostro, ottimo. Ma dove fate stampare?” Monica Randi, l’editrice di Astoria, gli nomina alcune tipografie, parlano di questo e di quello, poi chiede ingenuamente: “Ma lei è del ramo?”

“Non proprio,” dice lui. “Io facevo stampare documenti falsi.”

Anche il sorridente che sa tutto sul Sudamerica ha la sua domanda: “Vorrei sapere come mai questa scelta strana del lettering in copertina. Il titolo ha lo stesso formato del nome dell’autore. Non è insolita?”

Io e Monica Randi strabuzziamo gli occhi. Il lettering è insolito? Non ci avevamo mai pensato. Ma questo chi è, però? Stiamo crepando di curiosità. Verremo a sapere che è un manager arrestato per reati informatici – a giudicare dall’umore radioso che ci mostra oggi l’ha presa meglio di chiunque altro.

La terza domanda è ancora più eccentrica, riguarda i cani, e a farla è un moraccione albanese dall’aspetto molto distinto. Vorrebbe sapere se è vero che tutti i cani vanno matti per il fumo, perché ogni volta che lui si faceva una canna il suo cane arrivava di corsa a sniffare. Mi trovo costretta ad ammettere la mia impreparazione di fronte a questo quesito di etologia avanzata. Mi riscatto parzialmente ai loro occhi dicendo di aver però fatto bere al mio povero cane Blasco un dito di vino bianco quando ormai stava male male e in casa gli antidolorifici erano finiti.

Il tizio distinto e un altro suo amico albanese raccontano del rapporto tra cani e umani nel loro paese – è simile a quello che qui si vede ormai solo nelle campagne più sperdute, loro ormai lo considerano con occhio critico, perché hanno assorbito i modi italiani.

La rappresentanza albanese è decisamente nutrita e anche molto partecipante, con alcuni momenti di leggero imbarazzo quando l’unico di loro a parlare maluccio l’italiano – ma in compenso è pieno di entusiasmo – ci fa un confuso discorso sulla gente che dalle sue parti muore per via dei cani, e noi inizialmente pensiamo a un’epidemia di rabbia o a qualche razza particolarmente aggressiva, poi quando lui si scalda e comincia a fare “PUM! E ALLORA PUM! E ALLORA ALTRO PUM!” capiamo che ci sta parlando di una faida, un compaesano ha ammazzato il cane di un altro, e alla fine ci sono stati oltre trenta morti.

Sempre il giovanotto entusiasta suscita un coro di riprovazione perché si era preso un pitbull senza avere la minima idea di come gestirlo. Tutti vogliono sapere che fine ha fatto il cane (è stato adottato da una coppia, per sua fortuna), e quando l’incauto manifesta il desiderio di rifarsi una vita, una volta fuori di qui, e di prendersi un altro cane, i compagni lo sgridano moltissimo, ordinandogli di lasciar perdere.

Tra i presenti ci sono almeno due grandi amanti dei cani. Il primo è una specie di educatore cinofilo, anche se ci tiene a precisare che non addestra cani, perché sarebbe un piegarli alle nostre esigenze: del mio libro gli è piaciuto assai il racconto familiare, ha apprezzato meno le pagine in cui faccio parlare Blasco. Sembra una persona molto triste, parla a bassa voce e come se gli costasse un certo sforzo – sono stati i compagni a chiamarlo in causa nelle discussione, in quanto esperto.

Il secondo amante dei cani (e dei pastori tedeschi in particolare: ricorda ancora con emozione di aver accarezzato da ragazzo “il cane più famoso del mondo”, ovvero il lupone protagonista del film Zanna Bianca) è il signore di mezza età arrivato con il libro pieno di post-it. È di una gentilezza estrema, mi fa molti complimenti argomentati, sullo stile e sui contenuti. Come ci diremo poi io e la mia editrice, è un tipo con un’aria responsabile e rassicurante, cui affideremmo senza timori una figlia. Ancora una volta trovo confermata la regola di San Vittore: più una persona ti pare carina, più ha alle spalle una sfilza paurosa di reati. Nel corso di un altro incontro in carcere, tanti anni fa, avevo socializzato con un signore simpaticissimo che poi ho scoperto essere un pluriomicida.

In questo caso siamo di fronte a un rapinatore, a uno che ha passato la sua esistenza uscendo e rientrando dalle celle. Una volta è stato condannato, ha scontato la pena, e quando dopo quattro anni è andato a riprendersi l’amato cane che una signora gli aveva tenuto non ha avuto il coraggio di portarlo via, sapendo che gli avrebbe fatto fare una vita peggiore. Si vede che questa cosa lo immalinconisce ancora. Che cosa si dice in queste circostanze? “Su, però, adesso quando esce. di qui.. basta!” Forse ho detto una fesseria, ma lui mi risponde con dolcezza, e indicandosi la testa: “Sì, sì, basta, anche perché qui dentro ci ho fatto i capelli bianchi.”

Alla fine, dunque, è andata benone. L’insonnia e quel filo di tachicardia erano ingiustificate. E credo di aver ricevuto, come tanti che entrano lì dentro come volontari, molto di più di quello che ho dato.

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