I Sex Pistols al tempo del Covid. God save the queen!

In Musica

Nel 1977 urlare “No future” fu una provocazione forte. Risentire oggi l’urlo di “God save the queen”, mentre attraversiamo una fase di emergenza non solo sanitaria ma sociale ed economica, ci ricollega a quell’urgente bisogno di cambiamenti radicali

Pensare che sono passati 43 anni (quarantatré!) dall’uscita di God save the queen fa impressione, e non solo perché oggi l’attitudine punk è molto, molto attuale. Il Covid e la conseguente quarantena ha dato spazio a una meditazione sul nostro modo di vivere e pensare, e personalmente ho rivalutato e ragionato su alcune scelte estreme, almeno nella comunicazione, che ci hanno toccato negli ultimi decenni. E il punk è un punto di partenza e di arrivo inevitabile.

Partenza perché l’urlo di Johnny Rotten e compagni era quello della rottura con tutto il passato, anche glorioso, degli anni 60 e parte dei 70. L’urlo “No future” (titolo originario del brano, poi il furbo manager Malcom McLaren lo fece cambiare) era lucido, nel suo essere cinico e potente: nessun futuro, perché le circostanze, le condizioni della società stavano cambiando. Da bambino ero convinto che il mio futuro, grazie alla tecnologia, sarebbe stato più comodo e più dedicato alle cose importanti della vita (amore, arte, tempo libero, pensiero…) e che la mia condizione sarebbe stata migliore di quella dei miei genitori. Nel 2020 la tecnologia ci ha cambiato la vita, ma siamo sicuri che sia stata utilizzata al meglio? C’è voluta una pandemia per farci scoprire il lavoro online.

Nel 1977 urlare “No future” era una provocazione forte, ma che sembrava figlia della voglia di colpire, aggredire, distruggere… proprio come la musica dei Sex Pistols. Così forte, così incazzata da non costruire nulla. L’anarchia del suono e della logica del gruppo non poteva lasciare qualcosa in piedi, solo macerie su cui poi ricostruire. Io mi sentivo più vicino ai Clash, punk ideologico e “politico” che vedeva il problema e lottava per risolverlo. Per i Sex Pistols no, non si poteva salvare nulla del mondo intorno. Il massimo che si poteva ottenere era pogare sui resti fumanti, ballando ubriachi di rabbia e di alcol (e altro, ovviamente). 

E la musica? Beh, cassa in quattro e chitarre distorte. Ad un certo punto nella band entrò Sid Vicious, che non sapeva né suonare né cantare, ma era perfetto per la situazione, e allora si decise di fargli suonare il basso. Dal vivo tenevano il suo volume a zero, in studio lo facevano suonare a qualcuno altro…. insomma, artisticamente paragonabili a un bulldozer: se devi distruggere non c’è niente di meglio. Ma costruire è un’altra cosa.

E la provocazione non stava solo nei testi o nelle spille da balia, abilmente posizionate da Vivienne Westwood, all’epoca moglie di Malcom McLaren e “stilista” dei Sex Pistols e della prima onda punk londinese. Stava anche nel giocare al gatto col topo con l’industria discografica, all’epoca potente e imponente nel suo imporsi come falsamente libertina, ma inevitabilmente piegata al dio dollaro (o sterlina).

In pochi mesi i Sex Pistols cambiarono tre case discografiche, e la A&M records (quella che poi scritturò i Police, per intenderci) stampò e poi distrusse venticinquemila copie di God save the queen appena si rese conto del potenziale scandalistico del brano. Pare ne restino in giro solo nove copie, rarissime e costosissime sul mercato del vinile da collezione. Il brano fu poi stampato dalla Virgin di quel satanasso di Richard Branson, uomo abile nel capire il cambio di vento e bravo nel far salire sulla sua barca i quattro musicisti e il suo ingombrante manager.

E proprio Malcom McLaren (fresca di stampa la ponderosa biografia The Life & Times of Malcolm Mc Claren), lo “scopritore” dei Sex Pistols, è il punto di arrivo del discorso legato a questo anniversario: fu lui a guidare il gruppo nelle scelte più estreme, in un lucido gioco figlio della logica del “tanto peggio tanto meglio”. Più si alza l’asticella dello scandalo, più i media si occuperanno della band facendola diventare un’icona, un mito, quella “next big thing” di cui non si può non parlare. McLaren non era un giovane punk, era un uomo che già a New York aveva fatto da manager ai New York Dolls e che scelse espressamente le situazioni più al limite per creare rumore e problemi intorno alla band. La leggenda dice che Malcom e Vivienne scelsero i musicisti tra i frequentatori abituali della loro boutique “Sex” nel centro di Londra e, quando ai tre musicisti (Glen Mattlock, Paul Cook e Steve Jones) venne presentato John Lydon come cantante, non ci fu una reazione positiva. Il motivo era semplice, non solo Lydon non sapeva cantare, ma era un rompipalle provocatore come pochi al mondo. Però aveva i capelli verdi, una maglietta con scritto “odio i Pink Floyd” e i denti marci, da cui il cognome d’arte “Rotten”. 

Johnny Rotten non doveva saper cantare, doveva colpire. Tutti e tutto. L’attitudine del punk era ed è quella legata all’urgenza di dire qualcosa, senza essere per forza attrezzati per farlo. Non sai cantare, ma hai qualcosa da dire? Ok, vai e canta. 

Il punto è che McLaren tutto questo lo viveva da “gran burattinaio”, anticipando di anni le scelte di fondo che ancora oggi vengono fatte dai grandi comunicatori: rompi gli schemi, fai casino, fatti notare… e poi fattura finché puoi.

Insomma con il punk è nato e morto uno degli ultimi respiri genuini, veri del mondo della musica, dell’arte e del bisogno di essere e sentirsi diversi. Ma in questa verità trasparente c’era già chi aveva capito tutto e si muoveva per fare business. 

Oggi, 2020, mi ricapita di avere in testa God save the queen

No future. E non si parla della regina Elisabetta.

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