Rachel Beja: giovani talenti alla prova con l’orchestra UniMi

In Musica

Come vive a Milano una giovane musicista straniera? E soprattutto che aria musicale si respira nella metropoli lombarda che, ormai si può dire, è tra le più vivaci piazze europee di Contemporanea? L’abbiamo chiesto alla compositrice israeliana “ospite” ieri sera dell’Orchestra UniMi

«Torniamo in presenza con un calendario di appuntamenti più ricco, con direttori e solisti affermati e giovani di talento, con una nutrita serie di iniziative sul fronte della divulgazione, della formazione e del coinvolgimento di nuovo pubblico» dice Claudio Toscani, Presidente della rinnovata Orchestra Sinfonica UniMi, ensemble composto da musicisti freelance. In occasione del terzo concerto della loro ventiduesima stagione si può dire che le promesse siano state mantenute. I protagonisti ieri sera nell’aula magna dell’Università Statale sono stati dei giovani e talentuosi artisti con una carriera già avviata: il direttore Andreas Gies (vincitore del “Premio nazionale delle arti 2019”), la compositrice israeliana Rachel Beja (vincitrice del “Premio di composizione del Conservatorio di Milano 2018”) , e il primo violino solista dell’orchestra Daniela Cammarano.

Un bel concerto che ha richiamato un folto e caloroso pubblico. Il programma comprendeva il Concerto per violino e orchestra n. 1 in sol minore op. 26 di Bruch e la Sinfonia n. 4 in do minore D 417 Tragica di Schubert. Ma soprattutto la prima esecuzione assoluta, su commissione dell’Orchestra UniMi, di Il nome del luogo si chiama mondo, sulla via della scomparsa di Rachel Beja: una suggestiva rappresentazione di tensioni e continue trasformazioni dal sapore arcano che lasciano libera interpretazione alla mente e alla memoria dell’ascoltatore.

Rachel Beja, classe 1984, recentemente diplomata (II livello) al Conservatorio di Milano sotto la guida del compositore Gabriele Manca, già durante gli anni di studio ha lavorato con importanti associazioni musicali della città (e non solo).

Il tuo è un ricco percorso musicale cominciato in Israele.
Un percorso variegato visto che mi sono dedicata a tanti generi diversi, compreso il jazz,  l’indie, il rock e la musica tradizionale di varie culture. A quindici anni ho iniziato a suonare la chitarra e a comporre canzoni, già da quando conoscevo appena tre accordi. Ad un certo punto però ho deciso di studiare composizione. Ho scoperto Stravinskij e Ligeti e sono rimasta affascinata dalla musica moderna, soprattutto dopo l’ascolto di lavori come La sagra della primavera e Lux Aeterna (che è anche nella colonna sonora di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick). Così nel 2014 mi sono trasferita da Gerusalemme a Milano per concentrarmi sullo studio della musica contemporanea. Doveva essere un trasferimento momentaneo e invece… l’Italia ora è la mia nuova casa! 

Però continui a viaggiare: grazie alla qualità del tuo lavoro hai ottenuto diverse esecuzioni internazionali.
Una delle prime esperienze più belle l’ho vissuta a New York nel 2017. Avevo vinto un concorso di composizione indetto dall’ensemble Mise-en e sono stata lì una settimana per lavorare con loro. Altri lavori mi hanno portata in Francia, Germania, Svezia, di nuovo in Israele e naturalmente qui in Italia. I viaggi e gli incontri con i musicisti sono momenti essenziali nel mio lavoro, li vivo con grande impegno e gioia. 

Uno dei tuoi ultimi lavori ha previsto una collaborazione anche con l’IRCAM (l’Institut de Recherche et Coordination Acoustique/Musique ndr). Sei interessata alla musica elettronica?
Sì, anche se la scrittura per strumenti musicali rimane la mia preferita. L’anno scorso ho ricevuto una co-commissione da IRCAM-Centre Pompidou e Divertimento Ensemble, supportata da Ulysses Network. Ho scritto per i musicisti dell’Ensemble Schallfeld un pezzo per trio d’archi, daf ed elettronica. Il daf è uno strumento a percussione di origini persiane, un tamburo a cornice con degli anelli al suo interno. Ha un timbro ricchissimo, profondo con tanta risonanza,  metallico e granulato grazie agli anelli. Ho lavorato negli studi dell’Ircam insieme ad un professionista, Étienne Démoulin. Abbiamo registrato i vari suoni del daf e li abbiamo manipolati, collocandoli in diversi punti temporali e creando un’estensione infinita dei suoni che derivano dagli strumenti acustici.  

A Milano come ti trovi?
Benissimo, è una città molto affascinante come ambiente artistico, che dà tante possibilità per sviluppare e realizzare idee. Ci sono progetti, incontri con bravi musicisti, bravi direttori. E poi ci sono produzioni importanti. Ricordo i concerti organizzati da Milano Musica tra cui uno all’HangarBicocca, in questo spazio enorme con delle installazioni strabilianti di Anselm Kiefer, un artista tedesco che mi ispira molto. Avevano eseguito un pezzo di Salvatore Sciarrino per solisti, cento flauti e cento sassofoni (Studi per l’intonazione del mare ndr). Sentivo che era un momento raro nella vita, così pure quando ho ascoltato dal vivo la musica di Luigi Nono. 

Dal 2018 (anno del premio del Conservatorio) al 2022 c’è un bel salto temporale.
Sì, un bel salto non previsto! La commissione da UniMi è arrivata l’anno scorso invece che nel 2019, a causa della pandemia che come sappiamo ha creato tanti disagi e slittamenti di progetti.

Quanto è cambiata in questi anni la Rachel compositrice?
Abbastanza per quanto riguarda la padronanza della scrittura, Per Per me la musica è da sempre un mondo dove posso esprimermi con maggiore sincerità. Penso che la differenza rispetto a prima sia che adesso ho una capacità migliore nel realizzare tutto (o quasi tutto) quello che ho in mente. Si tratta di una crescita che è avvenuta negli anni grazie alle esperienze di lavoro e alla conoscenza della musica in modo profondo. Anche le tecniche che utilizzo stanno cambiando, sto imparando sempre cose nuove sugli strumenti e questo naturalmente influisce sulla mia scrittura. L’approccio iniziale ai miei pezzi invece è rimasto lo stesso.

Come avviene?
Immagino sempre l’atmosfera iniziale di un concerto: il palco, i musicisti, il pubblico che attende… Li vedo come una scena di teatro, ma potrebbe trattarsi anche di uno spazio inventato. Mi immergo in questa situazione come se fossi anch’io lì e mi chiedo cosa mi piacerebbe sentire, che cosa mi aspetto. È molto emozionante cominciare una nuova composizione.

E dopo che succede?
Succede che il pezzo appena nato cresce, come un organismo vivente. Nella mia musica ricerco un concetto che per me è fondamentale: la continuità. È qualcosa di molto legato alla biologia e alla sopravvivenza. Pensiamo alla crescita di una pianta dal seme: si trasforma, cambia la sua qualità, continua la sua esistenza nel tempo ed è viva perché non rimane mai uguale. A me piace creare queste trasformazioni nel suono, che portano a stabilire dei legami intensi tra materiali con carattere diverso. La mia musica è come un filo temporale che cambia costantemente pur mantenendo la sua profonda identità originaria.

Un filo che ha dei punti predefiniti?
Ci sono delle cose che decido dall’inizio, altre invece che mi piace scoprire mentre scrivo, come la forma del pezzo. Non forzo, cerco di dare il tempo necessario, soprattutto perché la forma è il risultato dei processi che si svolgono nella musica e quindi potrebbe essere varia, diversa e flessibile. Ovviamente tengo sempre in mente i limiti della durata e delle indicazioni che mi vengono date in caso di commissioni.

E come vivi questi limiti?
Le indicazioni da una parte aiutano la scrittura perché organizzano le tue scelte, ma non ho mai sofferto una limitazione vera e propria. Se ho un’idea provo sempre a realizzarla. Se voglio far durare di più un pezzo non dico niente, lo faccio e basta (ride). 

E il rapporto con il pubblico? Ti pone qualche interrogativo?
Per il concetto di continuità, sono molto attenta al fattore tempo e durante la scrittura mi piace pensare a come questo potrebbe influenzare ciò che un ascoltatore percepisce, cosa ricorda, cosa memorizza… Mi interessa creare dilemmi legati al tempo che passa e alla musica che è coerente pur nella sua continua trasformazione. È un modo di giocare anche con la memoria. 

Come scegli i titoli delle tue composizioni?
I titoli sono sempre difficili per me, ci penso tanto. Non mi succede quasi mai di scrivere prima il titolo e poi il pezzo. È una cosa che arriva proprio alla fine: quando capisco tutta la composizione allora posso darle un nome che ne spieghi in un certo senso il carattere. Di solito scrivo io stessa i titoli, ma per il pezzo eseguito dall’Orchestra UniMI ho scelto un verso tratto da una poesia di Dahlia Ravikovitch, poetessa israeliana.

Cioè Il nome del luogo si chiama mondo, sulla via della scomparsa. Che cosa vuoi dire a proposito di questa composizione?
Mi sono concentrata sulla scelta dei materiali specifici e il modo di orchestrarli. Ho lavorato molto sui timbri, nella ricerca di una sonorità particolare. L’organico stesso porta ad una scrittura che “gioca” con le combinazioni tra gli strumenti. Il pezzo intende esprimere qualcosa di arcaico e parte da una dimensione individuale in cui volevo creare l’illusione di una voce lontana che declama parole incomprensibili. Ad un certo punto però tutti partecipano a questa declamazione: la massa si aggiunge all’individuale e diventa una cosa collettiva. Questa forza d’insieme fornisce al pezzo un carattere rituale, una rappresentazione dell’istinto naturale umano che si pone il dilemma di essere parte di un gruppo. I materiali musicali si sovrappongono creando diversi strati e alcuni strumenti hanno il ruolo di innescare nuovi eventi nell’orchestra. In questo modo creo legami tra un elemento che rimane uguale e un altro che nasce di conseguenza, come un nuovo corpo, è vario, diverso e legato solo alla figura che lo attiva. È un modo per creare connessioni tra materiali e costruire quindi la mia idea di continuità.

In copertina: Andreas Gies e Rachel Beja

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