Veladiano, “Adesso che sei qui”: se il male insegna l’umanità.

In Letteratura

Camilla è stata una donna amata, è stata una non madre che ha amato la nipote come una figlia, è stata casa orto dedizione cura. Quando il male irrompe nella sua vita le lascia l’eleganza innata, la delicatezza dei gesti, la memoria affettiva e la generosità. Sarà la quieta armonia delle stanze di casa ad accompagnarla, insieme a una nuova rete di donne (assistenti, amiche, parrucchiere, sorelle recuperate) nella stagione del distacco: un tempo di sorprendente umanità. Mariapia Veladiano firma per Guanda un romanzo coraggioso e attraversato da un potente nitore emotivo.

Di accoglienza, di umanità, di necessità di non dimenticare, di affidarsi, di continuare ad apprendere modi per essere vicini pur dentro a una enorme difficoltà. E, in sostanza: d’amore.
Direttamente proporzionale alla durezza del tema che tutto tiene è lo spettro delle riflessioni che scaturiscono dall’ultimo romanzo di Mariapia Veladiano, Adesso che sei qui, pubblicato da Guanda.

La storia di Andreina, voce narrante e punto di vista della vicenda, è per molti versi una storia comune: è lei a scoprire, di punto in bianco, che l’affetto più fondativo della sua vita è stato sottilmente aggredito da una malattia che, pur mantenendo il corpo l’apparenza intatta, ne sovverte senza ritorno i meccanismi cerebrali.  

La questione, in tutta la sua prosaica e brutale attualità, sta tutta lì: che fare? come affrontare? esiste una via per salvarsi? E, in ultima analisi: può la volontà di non percorrere protocolli ordinari salvaguardare (meglio) chi ha bisogno e restituire un senso (diverso) alla malattia?

Mariapia Veladiano sceglie, insomma, di affrontare sul terreno narrativo uno dei temi più scomodi del nostro tempo: la vecchiaia aggredita dal male non diventa però oggetto di disperazione, né tanto meno di ricatto, ma, nella sua scrittura nitida, si trasforma invece in soggetto di apprendimento. Al silenzio, alla rimozione, all’allontanamento dell’ospedalizzazione la decisione di Andreina di tenere il più possibile zia Camilla nella sua casa, tra i suoi oggetti, nella sua quotidianità oppone uno scarto di prospettiva che diventa produttivo di nuovi legami, di un nuovo stare insieme, di una nuova vita – data e, insieme, ricevuta.
Ne esce un romanzo che, senza rimuovere la dimensione del dolore, lo guarda in faccia e lo affronta, restituendo senso ad ogni gesto: si impara dal male, e, imparandolo, lo si tiene a bada, permettendosi di non negarsi l’umanità.

Il piccolo paese di montagna – lo stesso che accorre tutto sulla piazza per portare aiuto alla donna che percorre le strade un tempo note vestita, in pieno agosto, in cappello e cappotto – è il medesimo che ha assorbito nella propria giudicante indifferenza depressioni di madri e abbandoni.
E la famiglia (il fratello maschio fatto studiare e diventato prete, la sorella minore sposata bene e poi lasciata, l’altra sorella arrabbiata per non avere avuto figli maschi a cui dare la campagna) si presenta per tutte le faglie affettive accumulate nel corso di una vita nella quale ciascuno è stato impegnato a farsi da sé, senza grandi concessioni. Il capolinea davanti al quale sbarca la malattia è quello di una rete di legami anagrafici che mostra tutta l’usura del tempo, consumata da abitudini alla non comprensione quando non all’aggressione.

Mariapia Veladiano non fa sconti nel tracciare serenamente i tratti di battaglie minute e indefesse, di caratteri allevati nel solco di una tradizione che vuole i ruoli ruoli, le donne madri e i mariti gentili e innamorati come straniante eccezione.  
Ecco perché, se un salto è possibile, questo è concepito da una generazione successiva: quella di Andreina, appunto, che della endemica avarizia affettiva della civiltà agricola di montagna non ha fatto, per scelta di sua zia Camilla, la scorticante esperienza.

Adesso che sei qui” è anche un romanzo sulla complessità dei rapporti famigliari: le famiglie che non sono felici trovano alla meglio equilibri fatti di silenzio (e allo stesso modo, verrebbe da dire, la società che ha bisogno di sistemare trova luoghi nei quali affidare i problemi al silenzio). Ma sotto il silenzio il risentimento di una vita cova solo apparentemente rimosso.

Lo rimarca in ogni parola la madre di Andreina, che di Camilla è sorella, e che proprio a Camilla ha lasciato da allevare la sua figlia non desiderata:

“«Cosa c’è da sapere. Ormai è andata» dice lei.
È andata è più tremendo rispetto a dire è morta. Se è andata c’è ancora, respira, mangia e dorme, ma purtroppo non è morta, ecco cosa vuol dire è andata. Lei c’è e non c’è invece noi sì ci siamo e dobbiamo fare qualcosa”.

Di tutte le diadi femminili presenti in questo romanzo, quella composta da Andreina e dalla sua madre naturale è quella più detonante: un rapporto fondato fin dalle sue origini sulla negazione e impastato di atti mancati (una depressione post-partum non diagnosticata, una ambizione delusa, una conoscenza non avvenuta, un abbandono concepito dentro i limiti della convenzione sociale, una rabbia mista a impotenza).
È proprio questo nucleo che diventa il motore determinante del distacco di Andreina in quanto modello non riconosciuto e rigettato (zia, figlia, mamma. c’è un punto in cui conta solo l’affetto, il resto è per l’anagrafe). E però, a fronte di un (più prevedibile) sentimento di vendetta, lo scenario è invece quello di un amore in linea femminile, di sguardo femminile e di resistenza femminile.

Niente della ferocia intima delle ferite inferte e ricevute viene ridotto, o mondato, ma lo sguardo è quello di una sicura, pervasiva mitezza: è in questo orizzonte più ampio, infatti, che Mariapia Veladiano fa spazio allo scarto sempre possibile.
Di deviazioni è infatti composto il movimento continuo del romanzo.
È deviato il destino di Andreina, che da terzogenita non voluta diventa la figlia non partorita di zia Camilla, che la alleverà circondata di calore e affetto.
È deviato il percorso della fuga di Merhawit (Eritrea – Etiopia – Sud Sudan – il deserto – la Libia – il barcone – Trapani). E poi il Trentino, dove la sua morbida femminilità, i suoi vestiti di colori inauditi, i suoi innominabili segreti trovano pace nel reciproco impararsi quotidiano nella casa di Camilla.
È deviata l’aspettativa di Lauretta, la sorella minore, che, non trovando conferma del degrado atteso nel sistema di aiuti casalinghi messo in piedi da Andreina, arrivata pronta per sostenere la causa del ricovero se ne riparte dopo aver dato al contrario la propria disponibilità ad aiutare.
È deviata la disperazione di Naima, madre con figli, come unica dote la disperazione degli ultimi, che ritrova dignità, voce e luogo.

Cos’è che causa tutte queste deviazioni? Certo il meccanismo è messo in moto dal potentissimo amore ricevuto da Andreina nella sua infanzia come figlia degli zii, e dalla sua volontà di mantenerlo saldo.
Ma si tratta di qualcosa di più complesso della necessità di restituire (e, in qualche modo, risarcire la fragilità presente dall’aggressione del male).

C’è, sottotraccia, uno dei temi cari a Mariapia Veladiano.

Come le parole hanno una loro vita segreta, come perdere adesione al loro significato anche nelle loro minime e continuate mutazioni, come abdicare alla loro pregnanza significa, in ultima analisi, rinunciare a comprendere le relazioni profonde e accontentarsi di legami nominali, così, in una visione profonda dei rapporti continuare a vedersi, a riconoscersi reciprocamente vuol dire non tralasciare la memoria umana, il patrimonio dell’amore ricevuto e far agire il carsismo affettivo allo scopo di sentire chi ci sta accanto, poiché nessuno è straniero a nessun altro.

Se in Lei (sempre pubblicato da Guanda) si legge: Eravamo stranieri e in ogni villaggio c’era chi voleva sapere il perché del nostro andare, non sembra un caso che nuovamente Mariapia Veladiano si concentri sul femminile come principio di aggregazione e rifondazione umana.

Adesso che sei qui è infatti un libro in cui una donna assume la volontà come postura, la capacità come obiettivo e il dubbio come metodo.
Il tutto corroborato da una prospettiva sensatamente scentrata: niente eroismi, niente figure paradigmatiche. Solo la quotidiana vicenda di una esistenza che si ritrova all’improvviso crivellata dalle voragini aperte da una malattia invisibile, che corrode i contorni del presente, causa spaesamento, mina sicurezze, costringe a inconfessabili stratagemmi pur di conservare un traballante amor proprio.

«Tempesta» dice zia Camilla guardando dalla finestra i tralicci delle viti tormentati dalla grandine.
«Un temporale estivo, zia» le rispondo.
«Tempesta come nella mia testa» dice.
«Finisce presto, zia» la rassicuro.
«Sì, ma dopo restano tutti i buchi» risponde.

Dentro quei buchi, dentro quel silenzio, si spinge la capacità narrativa dell’autrice, poiché proprio il mostrare è atto fondante di questo romanzo: rivelare un fatto che, una volta visto, non potrà più essere dimenticato né cancellato, perché la sua evidenza segna anche il cambiamento della nostra vita.

Il monstrum della malattia è tale, infatti, che non solo il parlare, ma anche il vederne sotto agli occhi gli effetti striscianti lo rende non più riducibile.

“Noi impariamo a non vedere la sua e la nostra paura. In fondo può sempre essere solo una distrazione.
La malattia non arriva di sorpresa, non dà una randellata e non ci prende per i piedi trascinandoci in un qualche suo altrove. Compare per qualche minuto a giorni alterni, all’inizio così brevi sono le sue visite che ci diamo della cassandra quando ci sentiamo preoccupati, ci spaventa solo un poco con sintomi ingarbugliati che possono essere confusi con gli sfaldamenti dell’età, l’affettuosa distrazione di chi si sente più fragile di un tempo e ha bisogno di un’attenzione in più”

Scritto in un momento in cui l’attualità non aveva ancora scoperchiato il perimetro della fragilità delle strutture di cura, il libro di Mariapia Veladiano si interroga e interroga, con urgente umanità, su quello che sta al di là dei protocolli. Più forte del male, afferma, è la vita che è stata. Anche quando il male si chiami Alzheimer.

E per questo è, nello sguardo che ci affida, un romanzo politico: perché parla al nostro modo di guardare la civitas, la comunità che abbiamo costruito fin qui. E al suo futuro.

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