“Living”, quando la morte ha il potere di spingerti verso la vita

In Cinema

“Figlio” di una novella di Lev Tolstoj, “remake” di un capolavoro anni 50 di Akira Kurosawa, sceneggiato dal premio Nobel Kazuo Ishiguro, il film del sudafricano Olivier Hermanus punta sullo straordinario protagonista, Bill Nighy. è lui Mr. Williams, oscuro e inefficiente burocrate londinese, che scopre all’improvviso di avere ancora solo pochi mesi davanti. Trova così in se stesso il bisogno e la la voglia di stare con gli altri e decide che è ora di aiutare i suoi concittadini a farsi valere

Alla base di Living di Oliver Hermanus c’è un film di Akira Kurosawa Vivere (1954), un vero capolavoro dell’ultima produzione giovanile del maestro giapponese, il punto d’arrivo di quell’insieme di drammi e racconti neri che compongono l’affresco impietoso del Giappone del dopoguerra, sconvolto dalle distruzioni belliche – olocausto nucleare in testa – e dalla miseria diffusa, materiale e morale, in seguito alla sconfitta. Ma nel trasformare il ritratto straordinario di un più che ordinario funzionario statale, il signor Watanabe (magistralmente interpretato da Takashi Shimura) – che subisce una metamorfosi psicologica positiva e stupefacente in seguito alla terribile scoperta di essere malato terminale di cancro – in quello di Mr. Williams (un Bill Nighy ancora più comunicativo e raffinato del solito, ed è tutto dire trattandosi forse del miglior attore inglese vivente), il quasi 40enne scrittore e regista sudafricano Hermanus ci consegna uno dei personaggi più intimamente e felicemente british del cinema, L’improvvisa capacità di superare l’endemica difficoltà nel manifestare le proprie emozioni, che con il senso di grandezza imperiale è forse l’elemento più tipicamente comune alle due civiltà, si unisce a un improvviso risveglio etico, a un altruismo implacabilmente efficiente d’impronta decisamente inglese.

I due film, che distano tra loro ben 70 anni ma hanno un’ambientazione temporale comune (i primi anni 50), e appaiono vicinissimi per profondità psicologica e insieme leggerezza di scrittura e resa visuale, hanno il loro punto di partenza comune nella novella di Lev Tolstoi La morte di Ivan Ilic (1886), magistrale riflessione sulla reazione dell’uomo di fronte all’ineluttabilità delle morte. O più precisamente sul potere che ha la morte di spingerti verso la vita. Un tema che nel doppio passaggio letterario-cinematografico mostra non solo tutta l’universalità del punto di partenza, ma soprattutto l’incredibile efficacia nella trasposizione in contesti geografici e culturali così lontani. C’è il merito, in questo, della mano anglo-giapponese di Kazuo Ishiguro, Booker Prize 1989 per Quel che resta del giorno e Nobel per la letteratura 2017, sceneggiatore di Living, di cui viene esplicitamente riconosciuta la discendenza da Kurosawa in relazione sl soggetto. E c’è sicuramente il piacere di misurarsi e ripercorrere le tracce, portando il proprio contributo, di un originale di così grande qualità cinematografica. 

Il film, che ha debuttato al Sundance Festival e poi è passato fuori concorso alla Mostra di Venezia, inizia, con un tono satirico più pronunciato dell’originale nipponico, con la descrizione del polveroso ufficio Parchi e Giardini della Contea di East London in cui Williams e la sua quasi inutile equipe di impiegati poco si applica, ancor meno riuscendo a risolvere i vari problemi sollevati dalla difficoltosa ripresa urbanistica post-bellica della città. In questa “casa dei morti” burocratico-impiegatizi impera come un mantra la direttiva di Wlliams “tanto non cambia nulla”, il che porta ad accatastare in alte pile le pratiche inevase, spesso respinte da altri uffici comunali: pieno di iniziativa, ben presto stroncata dai colleghi e dall’elefantiasi della struttura, approda qui il giovane signor Wakeling (Alex Sharp), che fa la conoscenza di colleghi in gessato e bombetta come lui, in arrivo tutti dallo stesso treno, che viene dallo stesso suburb, compresa Miss Margaret Harris (Aimee Lou Wood), personaggio chiave nella vicenda. 

Tutto cambia, nella vita di Williams e di chi gli sta intorno, compresi il figlio insofferente e l’insensibile nuora, quando un medico gli comunica che ha pochi mesi davanti a sé, sei, massimo nove. Dapprima si dà alla fuga in una località balneare supposta allegra e piena di amusements, dove trova nel pittoresco signor Sutherland (Tom Burke) una sorta di paradossale Virgilio dantesco, capace di condurlo nella trista esplorazione di baracconi da fiera con musica e prostitute. Tornato a Londra, Williams matura invece presto la sua trasformazione filantropica e sposa più di una causa di cittadini che richiedono giustamente efficienza alla loro amministrazione, di cui finora egli è stato un pessimo esponente, prima tra tutte la costruzione di un parco giochi per i bambini di Shoreditch, in un sito all’apparenza non bonificabile, invaso da acque stagnanti e macerie del conflitto. E ci riesce impegnando i suoi ultimi mesi di vita tra suppliche a colleghi stupefatti, sopralluoghi faticosi nel gelo londinese, disperati tentativi di far funzionare gli uffici preposti. E alla fine fruttuosi.

Al tutto, raccontato con molti flashback che mostrano molti lati nascosti di Williams. contribuirà anche l’amicizia improbabile, innocente ma ai limiti dello scandalo, nelle menti dei concittadini perbene, con la giovane Miss Harrris, fuggita nel frattempo dall’asfittica burocrazia per approdare a una sala da te chic, dov’è promessa vice-manager ma intanto fa con fatica la cameriera. direttore della fotografia, un bel mix di bianco e nero (anche in omaggio all’originale) e colore, di Jamie Ramsay. Se nella prima parte del film, illuminato dall’ottima fotografia di Jamie Ramsay, un bel mix di bianco e nero (in omaggio all’originale) e colore, prevale la sarcastica demolizione di un’antica, opprimente ritualità della vita che si riproduce arresa, immodificabile, la metamorfosi di Williams procede in parallelo al manifestarsi di quell’aria e di quell’ansia di vita e di ricostruzione che caratterizzò davvero Londra e l’Inghilterra nel dopoguerra, lo ha testimoniato di recente il documentario The spirit of 45 di Ken Loach. Che era si desiderio di rinascita etica, ma anche voglia, raggiunto l’obiettivo della sopravvivenza alle bombe di Hitler, di costruire un po’ più di benessere per la collettività, un po’ più di uguaglianza dopo le privazioni e le sofferenze della guerra, un po’ più di libertà anche dei bambini di giocare su una giostra o un’altalena. Dove salirà, cantando un’antica ballata scozzese, anche Williams, nel più che poetico finale del film. 

Living di Oliver Hermanus, con Bill Nighy, Tom Burke, Alex Sharp, Aimee Lou Wood, Adrian Rawlins, Hubert Burton, Oliver Chris, Michael Cochrane, Anant Varman

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