Le signore della musica/ Mimma Guastoni, la vita è una partitura

In Musica

Milano annovera tra i suoi meriti quello di avere delle donne alla testa di alcune tra le sue prestigiose istituzioni e rassegne musicali. La loro esperienza in una serie di interviste. Cominciamo con Mimma Guastoni. L’ex sovrana di Casa Ricordi, sodale di Abbado, Muti, Berio, Nono e oggi presidente dell’Associazione Teatri per Milano e dell’Associazione Musica al Tempio, ha molto da raccontare cominciando da quel palco diciotto del Piermarini dove suo padre la portava a tre anni

Lo studio di Mimma Guastoni, nel suo appartamento milanese, ha una parete tappezzata di partiture manoscritte, con dediche affettuose dei suoi compositori del cuore. A volte c’è persino qualche disegnino spiritoso che spunta da un pentagramma, come un uccellino un po’ squadrato di Francesco Pennisi. Ma a leggere con cura le diverse manifestazioni di stima e amicizia, colpisce soprattutto un’espressione di Sylvano Bussotti, scritta in calce all’elenco del suo catalogo, che lui chiama “la litania dei nostri affetti”. Ecco, i tanti affetti tributati a Mimma, ex sovrana di Casa Ricordi, sono la traccia ancora fresca di una folgorante carriera costruita con passione, che ha cambiato direzione vent’anni fa quando l’azienda era già passata alla Bertelsmann dal 1994, qualche anno prima di essere ceduta alla Universal, nel 2007. Oggi Mimma è presidente dell’Associazione Teatri per Milano, che promuove l’abbonamento di Invito a Teatro, oltre che dell’Associazione Musica al Tempio la cui rassegna, iniziata lo scorso 26 ottobre, prevede altri tredici appuntamenti fino a giugno, sempre al Tempio Valdese di Milano.

Quando ha iniziato a Casa Ricordi?
Avevo vent’anni, lessi un’inserzione sul giornale. Il nuovo direttore generale, Guido Rignano, stava cercando un assistente. Io volevo lavorare: sono nata che i miei genitori avevano più di quarant’anni. Adesso è normale ma all’epoca non lo era, e io sentivo l’ansia di mia madre. Fui assunta, e in tre anni scardinammo l’intera azienda, che ancora sedeva comodamente sui diritti di Verdi e Puccini, destinati a scadere. Quando poi Rignano divenne amministratore delegato, gli chiesi un ufficio di cui rispondere io sola: dettavo le mie condizioni per rimanere. Il giorno dopo mi affidò l’ufficio estero della Dischi Ricordi, poi gradualmente sono diventata direttore del settore editoriale, direttore generale e infine amministratore delegato.

Dai dischi all’editoria il passaggio non è scontato. Come avvenne?
Quando Luigi Nono arrivò in Ricordi, il vecchio amministratore delegato, Eugenio Clausetti, disse che siccome mi occupavo di dischi sicuramente ne capivo anche di nastri, e che avevo letto abbastanza libri per avere a che fare con Nono. Negli anni in cui ho diretto l’editoria sono venuti tutti: Donatoni, Bussotti, Sciarrino e, almeno per la parte operistica, Berio, solo per fare dei nomi. Per non parlare dei compositori che ho scoperto io, come Gérard Grisey e Olga Neuwirth, che allora erano del tutto ignoti. 

Con Carlo Azeglio Ciampi, Franca Pilla e Francesco Rutelli, 2001

Era anche il periodo delle edizioni critiche.
Che portavano un po’ di denaro. Luciana Pestalozza, che dirigeva la produzione, aveva cominciato con Alberto Zedda per Il barbiere di Siviglia. Per fortuna qualche anno dopo è entrata in coproduzione la Fondazione Rossini, altrimenti non saremmo riusciti a pagare tutto il lavoro. Così è nato il comitato editoriale di Zedda, Bruno Cagli e Philip Gossett: per un certo periodo c’è stata armonia, poi hanno cominciato a litigare. Forse se fossi rimasta…

Nel suo lavoro si intrecciano affari, gestione, diplomazia e naturalmente la questione artistica. Come si tiene insieme tutto questo?
Solo la passione per la musica può farlo.

Quando è arrivata la musica nella sua vita?
A tre anni papà e mamma mi portavano già alla Scala: avevamo il palco diciotto del secondo ordine, accanto al Palco Reale. Erano anche cantanti amatoriali: ho vissuto tutta l’infanzia con i loro duetti sempre nella testa. Mamma amava Verdi e papà Puccini. Lei la sera si sedeva al pianoforte, e cominciavano. Già allora c’erano i libretti Ricordi che giravano per casa. Poi quando avevo sette anni papà è mancato, e di opera non ne ho più voluto sapere per tanto tempo. A undici mi sono iscritta alla Gioventù Musicale e agli Amici del Piccolo Teatro: i miei due amori. In quel periodo scoprivo Stravinskij, scoprivo Bartók: ricordo ancora il primo concerto, una delle ultime direzioni di Guido Cantelli in Conservatorio, un mese prima che morisse. 

E alla Scala quando è tornata?
A 19 anni, ho iniziato a frequentare il loggione con quello che sarebbe diventato mio marito. I programmi si facevano via via migliori. E poi naturalmente c’era Paolo Grassi, che al Piccolo ci spiegava Brecht, Weill e tutte le cose meravigliose che mettevano in scena. Per tutta la vita sono uscita ogni sera per andare a teatro o a un concerto.

Si parla spesso del fermento di Milano di quegli anni.
Era la vivacità degli anni sessanta e settanta, quando la cultura era qualcosa di necessario, quasi di indispensabile.

Quando è cambiato tutto questo?
Mi ricordo una battuta di un pastore protestante, mio amico carissimo, che mi raccontava come negli anni settanta, quando diceva di essere valdese, gli chiedevano in che partito militasse. Negli anni ottanta hanno cominciato a chiedergli il segno zodiacale.

Anche lei è valdese, giusto?
Sì, mamma e papà frequentavano la chiesa valdese di Milano, come mio nonno materno, che però era nell’esercito della salvezza. Pensare che era un ateo tremendo, ma fu folgorato dall’incontro con William Booth a Londra, come Paolo sulla via di Damasco. Quanto a me, io non so se ho la fede. Per chi è stato colpito dalla morte in tenera età è difficile credere in un dio buono: è come un marchio che ti perseguita. Diciamo che sono agnostica, ma la chiesa valdese è un ambiente in cui opero sempre molto volentieri.

Tant’è che da sette anni porta avanti la rassegna di Musica al Tempio.
Insieme a un gruppetto di amici musicisti e patiti di musica, con cui possiamo operare in piena libertà, senza farci tanti problemi su cosa potrà piacere al pubblico. Ecco, una cosa che detesto è proprio l’adesione al gusto del pubblico.

Detto da una dirigente aziendale colpisce ancora di più. Non c’è il problema delle vendite? Penso soprattutto alla musica contemporanea.
Sono proprio le novità che vanno gettate addosso al pubblico. Ma serve molta volontà e uno staff convinto, per presentare con maggiore efficacia anche le cose più difficili, tant’è che non abbiamo mai avuto problemi di pubblico. Certo, nel catalogo Ricordi non mancava l’opera tradizionale, con tutte le edizioni critiche che abbiamo fatto, da Donizetti a Puccini, ma uno degli obiettivi era far conoscere la musica nuova. Allora c’erano ben sette persone nell’ufficio promozione, che pensavano a come presentare le cose più difficili. Se penso che adesso sono in sette in tutta Ricordi…ma non parliamone.

Insomma il pubblico si fida se riconosce l’autorevolezza della proposta.
Pensi a Milano Musica, con il lavoro magnifico di Luciana Pestalozza prima e di Cecilia Balestra oggi. 

Qual è stato il più grande successo della sua carriera?
Direi Nono, Al gran sole carico d’amore al Lirico (1975 ndr). Era da poco che facevo quel mestiere, e ancora ricordo la felicità che ho provato quando ho sentito l’applauso. Ma anche Infinito nero di Sciarrino, presentato in Germania, un brano difficilissimo di cui nessuno si rendeva ben conto. Dopo l’esecuzione ho incontrato in corridoio un critico tedesco mio amico e ci siamo messi letteralmente a saltare dalla felicità. Ma può esistere anche l’entusiasmo delle serate disastrose, come per Bussotti alla Piccola Scala (1976 ndr), quando mi urlavano “venduta!” perché continuavo a battere le mani. Altro che venduta, avevo pagato io! Fu un insuccesso, ma ero convinta della bravura di Bussotti, e avevo ragione.

E con i direttori? Lei è sempre stata in buoni rapporti sia con Abbado sia con Muti.
Con Claudio nei primissimi anni del mio lavoro, insieme a Nono, quando si facevano i concerti decentrati a Reggio Emilia, durante i bellissimi anni di Paolo Grassi. Eravamo spesso insieme: Abbado, Pollini, Nono e io, qualcuno ci aveva chiamato i quattro dell’apocalisse. Quando poi dovevo diventare presidente della Siae c’era Buttiglione come ministro della cultura, e io ero “quella comunista che stava sempre con Abbado e Pollini”. 

E con Muti?
L’amicizia nacque in modo buffo. Per qualche strano motivo quando gli dovevamo mandare le partiture succedeva di tutto: o sbagliava il corriere, o sbagliava l’ufficio noleggi, ma insomma c’era sempre qualcosa che non andava. Un giorno mi telefonò da Londra, furibondo, così presi un aereo e la sera stessa gli consegnai personalmente la partitura in albergo, mi pare fosse I pini di Roma. Da allora è nato un rapporto vissuto sempre in modo cordiale: anche lui è un grande direttore, con una sensibilità nascosta che mi ha sempre suscitato molta tenerezza.

Se non sbaglio ha incontrato anche Karajan.
Sì, all’inizio degli anni ottanta. Fece una telefonata diretta in ufficio. Ricordo la mia segretaria tutta agitata che urlava: “C’è Karajan al telefono!”. Mi chiedeva i diritti per fare Turandot a Pechino, nella Città Proibita. Così mi precipitai a St. Moritz con l’autista. Lui era gentile, bello, tremendamente affascinante, ma piuttosto gelido. Voleva l’esclusiva, ma per la televisione era già previsto Maazel all’Arena. Mi rispose: “Nessun problema, telefono a Lorin e gli chiedo di non farlo”. A quel punto mi sono fatta coraggio e gli ho detto che se intendeva continuare a usare  i suoi superpoteri me ne sarei tornata indietro. Per un minuto il suo sguardo mi ha attraversato come una lama, poi è scoppiato a ridere. La volta dopo è stato lui a venire a Milano, con il suo aereo privato. 

Va ancora alla Scala?
Certo, ma sento un afflato diverso rispetto a quando ero giovane, anche se ho apprezzato la gestione di Pereira. E anche Chailly, ovviamente, che conosco da quando dirigeva I masnadieri nel teatrino di Montepulciano, dove andavo per incontrare Henze.

Avevate anche Henze nel catalogo?
Henze aveva costretto la Schott a escludere l’Italia dal suo contratto con la Suvini perché voleva venire da me. E infatti subito dopo sono riuscita a fargli fare Lo sdegno del mare alla Scala.

Invece la musica di oggi?
Ho qualche problema con l’ultimissima generazione: c’è troppo abbarbicamento al passato remoto, troppo desiderio di essere compresi a tutti i costi. Questo mi irrita molto, non mi ritrovo granché.

Con Eugenio Scalfari, 1991

Qual è il futuro dell’editoria musicale?
Secondo me si spezzetterà in tante piccole realtà, anche per via della possibilità di prodursi da soli le parti con dei software. Ma continuerà, a differenza delle case discografiche che stanno scomparendo, fatta eccezione per una nicchia che prova ancora il piacere dell’ascolto dei vecchi long-playing.

E per quanto riguarda il diritto d’autore?
Il diritto d’autore è potente. Oltretutto ha avuto un beneficio enorme dall’Unione Europea, perché si trattava di regolamentare le leggi dei singoli stati, che spesso impedivano certi movimenti. In fondo gli editori stanno bene per i diritti, mica per le vendite. Sono cose a cui non si pensa, dato che ultimamente si nomina l’Unione Europea solo per parlarne male, ma ha dato un contributo immenso a tutto questo. 

Mi chiedo se, come donna, sia stato più difficile raggiungere certi risultati della sua carriera.
Ho dovuto lottare, perché a nessuno veniva in mente che volessi diventare dirigente, ma quando ho chiesto che mi fosse riconosciuto quello che in fondo già facevo l’ho ottenuto subito. Se vogliamo, sono stata una femminista ante litteram; ma nei fatti, più che nelle dichiarazioni. Del resto non ho mai sentito una differenza tra me e gli uomini: non mi ha mai nemmeno sfiorato la mente. Mi sono sempre comportata alla pari, e gli altri reagivano di conseguenza. Per me era naturale. Sarà l’educazione valdese, oltre a quella che mi ha dato la mia famiglia: senso di responsabilità e libertà totale di agire come si ritiene.

Immagine di copertina: Mimma Guastoni con Paolo Grassi e Luigi Nono, 1975

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