Le signore della musica/ Ambra Redaelli. Fare sistema, questo è il segreto

In Musica

A casa faccio sistema anche con i gatti, scherza la Presidente della Fondazione laVerdi. Per un’istituzione è fondamentale aprirsi all’esterno, confrontarsi. E poi conta l’innovazione che non è solo tecnologia. Quattro chiacchiere (a distanza) con la primadonna di largo Mahler

“È la prima volta da quando sono a laVerdi che penso sia meglio essere cauti” dice sottovoce Ambra Redaelli, con un po’ di amarezza che le sfugge. Brianzola pragmatica ed entusiasta, per lei non deve essere semplice tenersi a freno, smorzare lo slancio che, quando si tratta della “sua” Verdi, la spinge sempre ad andare avanti, a volte persino contro il parere di tutti. “D’altronde cosa c’è di bello in questa pandemia? Niente. Almeno mi consola che quest’estate siamo riusciti a fare molto più di quanto potessimo sperare”. La vita di Ambra Redaelli è legata a filo doppio a quella della Verdi dal 1995, quando divenne consigliera a soli 26 anni, poi vicepresidente e infine, dal 2019, presidente della Fondazione.

È delusa per le recenti chiusure?
Sono triste, più che delusa, perché non si può certo dire che non ce l’aspettassimo. Quando abbiamo chiuso la prima volta, a febbraio, pensavamo di riaprire dopo dieci giorni: oggi c’è molta più consapevolezza, infatti abbiamo presentato una stagione trimestrale. Peccato averla sospesa: erano in arrivo dei concerti bellissimi, ma non nascondo che ero un po’ in angoscia.

Temeva contagi in sala?
Il pubblico lo sentivo in totale sicurezza. Era l’orchestra che mi preoccupava di più, anche se suonavano tutti a una distanza persino maggiore di quella richiesta, però i musicisti devono entrare e uscire, ci sono i tecnici che girano dietro il palcoscenico. Per non parlare dei numeri che stavano saltando fuori in altre realtà sinfoniche: purtroppo anche le orchestre possono essere dei focolai.

Meglio la prudenza.
A me basta che stiano tutti bene. Poi vedremo come organizzarci: la gestione non mi spaventa mai, anche se in questo caso sarà più complicata del solito.

Non è il caso di parlare di opportunità, ma è indubbio che la situazione stia spingendo molte istituzioni verso il digitale. Anche laVerdi?
Quando mi sono insediata avevo già in mente una modernizzazione dell’orchestra. Non dal punto di vista musicale ovviamente: a quello pensa la direzione artistica. Mi riferisco a soluzioni come programmi di sala col QR Code o leggii elettronici. Certo non dobbiamo essere i primi, ma nemmeno gli ultimi: se si guarda fuori dall’Italia in molti stanno già sperimentando, ad esempio i Wiener. Ma a dire il vero la mia più grande ossessione è fare sistema.

In che senso?
È un mio chiodo fisso: tento di fare sistema anche a casa con i miei gatti. Per un’istituzione è fondamentale aprirsi all’esterno e confrontarsi. Non che laVerdi abbia mai avuto problemi di isolamento, anzi: è da sempre una grande comunità, con il suo pubblico, i suoi soci e tutto un mondo che la sostiene. Però si poteva fare di più.

Anche in questo periodo?
Direi soprattutto in questo periodo: stiamo cercando tutti di imparare gli uni dagli altri. Ad esempio quando abbiamo riaperto a giugno sembrava che dovessimo rinunciare per sempre agli strumenti a fiato, che qualcuno chiamava addirittura ‘strumenti umidi’. Mi sono fatta loro paladina e abbiamo iniziato a studiare ogni tipo di materiale: Assolombarda ha messo a disposizione le università con cui ha delle convenzioni per capire come intervenire.

Un modo di procedere legato forse alla sua esperienza imprenditoriale?
Non c’è dubbio, anche se nella mia azienda, la Rollwasch, non mi occupo direttamente di ricerca e sviluppo. Non saprei inventare una macchina, ma in questi anni ho capito che l’innovazione non è solo tecnologia, perché porta con sé altri principi fondamentali, legati ad esempio all’ambiente o all’economia circolare. È questa la cultura che ho sempre respirato in azienda.

Azienda che quest’anno compie settant’anni.
Mio padre la fondò nel 1950: la prima officina era proprio vicino a laVerdi, in via Argelati. La porto avanti insieme ai miei tre fratelli e a un nipote: c’è grande sintonia tra di noi, anche se abbiamo passato momenti di difficoltà, prima di tutto quando morì nostro padre nel 1997, poi durante la crisi del 2009 e ora per la pandemia. Solo la storia dirà cosa comporta questo momento.

E la musica?
In effetti tutta la mia vita è stata in bilico tra l’azienda e la musica. Le amo tutte e due: la partita doppia tanto quanto uno spartito. Confindustria mi ha dato l’opportunità di approfondire le materie finanziarie e la storia delle relazioni industriali, che mi hanno sempre appassionato: avevo 18 anni quando sono entrata nei giovani imprenditori. Però avrei voluto studiare musicologia a Cremona.

Poi cosa accadde?
Una disavventura aziendale: un ragioniere scappò con la cassa e mio padre mi chiese di restare per qualche mese. Alla fine mi innamorai dell’azienda.

Suonava uno strumento?
La chitarra, ma sono convinta che il mondo della musica non abbia perso niente. Però ho avuto molte soddisfazioni: per anni ho frequentato la Summer Academy del Mozarteum a Salisburgo, facevo i master con Pepe Romero e ogni volta che potevo scappavo a sentire i concerti. Ricordo la Schwarzkopf, Grace Bumbry, un giorno conobbi Stockhausen e mangiammo insieme un panino. Ogni tanto dovevo tornare in azienda: facevo Salisburgo Albiate andata e ritorno in giornata, non le dico quante ore ci mettevo altrimenti mi tolgono la patente.

E laVerdi?
La conobbi nel 1994. Ero nei giovani imprenditori e ogni anno organizzavo il concerto di Natale nel Duomo di Monza: facemmo una Nona con Gianandrea Noseda. Il direttore Luigi Corbani aveva visto che mi ero mossa bene con gli sponsor, e in gennaio mi chiese di entrare nel consiglio di amministrazione.

Ambra Redaelli e Filippo Del Corno © Studio Hänninen.jpg

Molti orchestrali li conosce da allora. 
Si può dire che siamo cresciuti insieme, ci diamo tutti del tu: l’ambiente è molto informale, dopo tutto quello che abbiamo passato. Abbiamo girato il mondo. Ricordo ancora la prima rocambolesca tournée in Francia: sembravamo dei nomadi più che un’orchestra. Non esisteva ancora il concetto di diaria, spesso bisognava organizzare tutto all’ultimo. A volte entravo nei ristoranti per chiedere se c’era posto: “Quanti siete?”, “Novantotto”. Il solista era Enrico Dindo, lo portavo io in macchina. A ogni curva mi diceva: “Guarda che c’è uno Stradivari nel bagagliaio!”. Si sarà capito che sono un po’ spericolata alla guida.

In quegli anni ci fu anche l’inaugurazione del Teatro Strehler.
Così fan tutte, vidi una sola prova: quante parolacce diceva Strehler! Ricordo la telefonata notturna quando morì: riunimmo subito il cda per capire cosa fare. Naturalmente andammo avanti, noi e il Piccolo, Carlo Battistoni prese in mano la regia e arrivammo alla prima. Poi ci fu la tournée organizzata da Rosanna Purchia, arrivammo fino in Giappone. Imparai tantissimo in quel periodo.

Poco dopo arrivò Riccardo Chailly.
Chi se lo sarebbe aspettato! Già Muti aveva diretto laVerdi: Quinta di Šostakóvič, una meravigliosa Prima di Skrjabin, con i nostri che sembravano i Berliner tanto si erano consumati le dita per studiare. Poi ci fu un concerto di Chailly in Conservatorio: Don Chisciotte di Strauss, un’uscita a cena, una battuta, e lui che accetta. Camminavo a mezzo metro da terra per la felicità. Sono stati anni meravigliosi, stimolanti, anche duri, perché non è che sia proprio uno zuccherino da gestire. Ma quanto ha fatto crescere l’orchestra.

E con Chailly è arrivato anche Romano Gandolfi.
Ricordo ancora i loro Requiem: sovraterreni. Oltretutto Chailly voleva dire Decca, e quindi le incisioni: la musica sacra, Rossini Discoveries, Verdi Discoveries. E ovviamente i grandi interpreti: facevano tutti a gara per venire a Milano a suonare con la sua orchestra.

A quel punto eravate già all’Auditorium di Milano.
In realtà il progetto di Agostino Liuni per trasformare il cinema in Largo Mahler in un auditorium era nato prima. Ma quando si è saputo che sarebbe arrivato Chailly, si è aperto un dialogo con i tecnici del Concertgebouw di Amsterdam, dove Chailly era direttore musicale. Si può dire che la sala sia stata pensata a sua misura.

LaVerdi ha attraversato anche momenti di grande difficoltà.
Li definirei tragici: nel 2015 il debito aveva raggiunto un livello tale che tutti ci consigliavano di chiudere. Se siamo ancora qui è grazie a Gianni Cervetti, che quando era presidente ha impostato il piano di risanamento fiscale, e grazie a Intesa Sanpaolo, che adesso ha la proprietà dell’immobile. Ma la verità è che ce l’aveva anche prima: se hai un mutuo di svariati milioni e paghi due rate in sette anni di chi è l’immobile? È stato un atto di vero mecenatismo.

Delman l’ha conosciuto?
Purtroppo no, ma ce l’ho nel cuore. Quando rivedo i video delle “magnifiche sei” di Čajkovskij provo qualcosa di indescrivibile: quel carisma o ce l’hai o non ce l’hai.

Suona ancora la chitarra?
Ne ho ben due, bellissime, tra cui una Contreras che ho comprato a Madrid. Ma non oso nemmeno aprirle. La chitarra è tremenda: appena smetti di suonarla i calli vanno via e le dita ti fanno male anche se fai una semplice scala, non dico Recuerdos de la Alhambra. Paradossalmente suono di più il pianoforte. Se devo essere onesta la mia specialità è ascoltarla, la musica.

LaVerdi è stata la prima istituzione sinfonica italiana ad avere una direttrice musicale, Xian Zhang. 
Le porte sono sempre state aperte per le donne. Anche oggi, oltre a me, c’è Silvia Colasanti come compositrice in residenza, e tante professioniste in ambito sia artistico sia amministrativo. Ricordo che Xian Zhang non capiva nemmeno quando nelle interviste le chiedevano se fosse difficile farsi rispettare dai professori d’orchestra. Arrivò che era al sesto mese di gravidanza: il gesto era morbido, ma allo stesso tempo era ferma, solida, con le idee chiarissime. Con lei ho capito che la domanda più importante da farsi è quale sia la lettura artistica che il vissuto femminile può dare a un brano.

L’immagine di copertina è di © Rita Antonioli

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