La leggenda del Santo Bevitore e la sacralità della parola nuda

In Teatro

Immagine da: www.teatrofrancoparenti.it

Nel Cinquantenario del Teatro Parenti, Andrée Ruth Shammah riporta in scena, con un intenso Cecchi, il potere della parola, facendo coincidere Joseph Roth con Andres Kartak, il suo ultimo protagonista, con uno sguardo ereditato dalla tradizione ebraica. In scena fino al 25 febbraio

«Dobbiamo essere soprattutto ciò che ricordiamo della nostra storia, d’incontri ed erranze», scriveva Miro Silvera, in riferimento alla propria identità ebraica. Due dati, questi, la scrittura e l’appartenenza, che si scoprono cardini anche per leggere  La leggenda del Santo Bevitore nel cinquantesimo anno di vita del Teatro Franco Parenti, che Andrée Ruth Shammah rilegge (è il caso di dirlo) per affidarla all’esperienza e al magnetismo, solo apparentemente fragile e in realtà granitico di Carlo Cecchi, ormai da tempo assurto alla qualifica di “venerato maestro”.

È inevitabile parlare di rilettura, perché proprio sulla dimensione costruttiva, carnale e materica della parola prima scritta e poi letta che si regge l’intera messa in scena, in cui Andreas Kartak, ebreo esule a Parigi, dall’altezza sghemba del bancone di un bar rimette – quasi malgrado se stesso – i passi nelle orme di una vita già vissuta e oggi destinata a una marginalità esistenziale, prima che concreta. Dettata, più che dalla povertà di un uomo finito a dormire sotto i ponti e a perdersi in troppi bicchieri di Pernod, dalla scelta di abita il proprio vissuto trascorso e lo custodisce con cura e prodigalità insieme, come i duecento franchi, pegno da restituire all’archetipo del futuro, una bambina, Santa come solo i bambini possono esserlo, o come solo i bevitori quando si sono arresi alla più intima verità di se stessi, in cui “è come non avere più un volto, o avere solo quello del passato”. Un viso segnato di una trama d’incontri, generosi e caldi come sono solo i legami che ci hanno definito, dal vecchio compagno di scuola all’amore per il quale si è stati disposti a sacrificare tutto, o si è finito con il perdere tutto, razionalità e libertà incluse.


Ma, soprattutto, di una trama di parole. Nella nuova messa in scena Shammah fa coincidere, sagacemente, personaggio e autore, quel Joseph Roth che con il personaggio di Kartak consegna al mondo le sue ultime parole scritte (il libro, breve e fulminante, esce postumo nel 1939. Mettendo al centro le parole di Roth, lette in scena così come sono, la regista fa danzare Cecchi, dolente e verissimo, e la sua voce piena di tutti gli inciampi del bevitore, sul filo tra la prima e la terza persona, nel moto lieve un ago che tesse simbolo (la cui etimo è “ciò che tiene insieme”) e vissuto, parola e corpo.


La messa in scena è rigorosamente incardinata sul testo e sulla sua lettura, plasticamente resa da Roberta Rovelli, inconscio collettivo costantemente presente e chiamata a segnare i passi che, ad ascoltarli con attenzione, danno accesso alla chiave di lettura dell’intero testo. E non serve altro, sembra suggerire la messa in scena Nel cuneo stretto dell’angolo di un bar, che si fa – come la pagina – spazio di proiezione di tutti gli altrove immaginati, qui nella la forma delle suggestioni visive di Luca Scarzella e Vinicio Bordin, che colorano muri dal sapore di pagina bianca e il romanzo scorre in un sogno d’immagini che diventano una cosa sola con il luogo eletto dal bevitore all’unica casa che può riconoscere, dove un oste solerte e accorto, Giovanni Lucini, accompagna con misura la consegna di una vita che chiede solo di essere ascoltata, che cerca solo la cura di un “e poi?”.

La lettura e la parola prendono così il passo della salmodia, della preghiera, della formula. E laddove c’è la parola creatrice, sembra suggerire lo spettacolo, non ha bisogno altro che di se stessa, di essere riscoperta nuda e declamata a voce alta, purché densa di vita, esattamente come si fa con le preghiere. Così “l’ebreo errante” si fa – per usare ancora le parole di Silvera – “ebreo narrante”, di segmenti di memoria che insieme chiamano e allontanano di un altro bicchiere il debito da saldare e il rito di passaggio che porta con sé.

 «È come un Kaddish, che Roth recita per sé stesso prima di abbandonare la vita, senza eredi né radici», la chiosa su cui il sipario si chiude vale come metro e chiave di tutto quel che si è visto, dello stato di sospensione a cui la parola ha guidato i “lettori” della voce sulla scena. Se quel che si è compiuto è un Kaddish, preghiera e formula di “consolazione e conforto”, è nella chiave del rito che va letta l’intera leggenda. Il rito del teatro, certo, e della parola, nella sua esattezza asciutta di cui Roth è stato campione, e grazie alla quale – liberata dagli orpelli e dalle sovrastrutture – è possibile, il contatto con il divino, o comunque con quel che esorbita e supera l’umano e il tempo della sua durata.
In questa ottica, si rivela tutta la forza di un lavoro suggestivo e potente, che dialoga con gli assoluti. La tradizione ebraica è lì a insegnare, ed ecco il senso dell’insistenza fin qui sulle appartenenze di personaggio e autore, e della loro sostanziale coincidenza, che nella parola, soprattutto quella ultima e perduta di un santo bevitore senza più nulla da perdere se non la parola stessa, che sta il pegno da consegnare al futuro, a tutte le sante bambine inconsapevoli del dono che gli si porge e a quelle che saranno disposte ad ascoltarlo. Per poter dare attraverso la parola, al futuro attraverso il passato, radici ed eredi.

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