La donna più grassa del mondo, oggi – o del leggere i simboli

In Teatro

Arriva in prima milanese al Teatro Filodrammatici La donna più grassa del mondo, con cui attraverso tre bravi attori del Centro Teatrale Mamimò Emanuele Aldrovandi sembra parlare di immagine e cibo, e invece disegna una specie prossima all’estinzione

Esiste un rapporto costante e attraverso l’interpretazione, individuabile tra il simbolo e il simbolizzato.” Scriveva Freud. Il simbolo è tanto chiaro quanto ingombrante: la donna più grassa del mondo, nei suoi oltre 460 chili, sotto il cui divano, l’intero spazio della sua esistenza, si allarga una crepa che rende impossibile la vita del disperato vicino del piano di sotto.

A volerlo leggere in senso letterale, quindi, La donna più grassa del mondo, scritto da Emanuele Aldrovandi, in scena al Teatro Filodrammatici, è una riflessione sui termini pure estremamente urgenti, quali libertà, società, immagine.

C’è un marito tanto innamorato da aiutare l’amata a prendere quanto più peso possibile, c’è un vicino di casa che – mentre le scelte della coppia del piano superiore mandano a rotoli la tua vita, si incaponisce nel salvare la vita e la salute della vicina con tutta la decisione, la violenza psicologica e poi l’empatia che ritiene necessaria, e c’è una donna convinta che ogni chilo accumulato sia un nuovo gesto di ribellione a una società che vuole tutti conformi a un immagine estetica predeterminata.

Una riflessione senza dubbio utile, che chiama in causa il senso della parola libertà, il confine tra determinazione di sé e rifiuto della convivenza civile.

E tuttavia, se problematizzata in modo accurato il testo di Aldrovandi può apparire come una ironica e acuta riflessione sul significato e il senso del termine “giustizia”, può finire con l’ottenere l’effetto opposto, quello da rifuggire quando si vuol portare in scena un argomento denso di senso: la rassicurazione.

Se una persona pesa quasi mezzo migliaio di chili non può che essere vittima di un’assenza d’amore che la induce a piegarsi ai desideri del primo uomo che dice di amarla, al desiderio fasullo di puntare all’apprezzamento dei social; e allora ci vuole un uomo abbastanza duro e disperato da ricordarle che quello che chiama apprezzamento non è che compassione, che finalmente muoversi, vivere come gli altri, avere un figlio, è il desiderio rimosso che anche lei cova in sé, e non potrebbe essere diverso.

Così, una riflessione seria su canoni estetici e condizionamenti sociali fa il suono vuoto del grottesco, la messa in scena di termini importanti e articolati come grassofobia fa l’eco del “fiorismo” con cui su certi palchi nazionalpopolari di questi giorni si vuole mettere in ridicolo il sessismo. Questo finché ci si ferma al piano della letteralità.

Gli autori intelligenti – e Aldrovandi ha già dato diverse prove di esserlo – si riconoscono anche dall’abilità e dall’assenza di banalità nel fare uso del simbolico. Così, il senso dell’immagine della donna più grassa del mondo si svela in un finale proiettato in un futuro lontanissimo, mentre una specie molto più evoluta si confronta coi reperti di un’era, la nostra, i cui abitanti si sono gettati consapevolmente in un suicidio di massa, pur essendo pienamente consapevoli del rischio corso.

La grande crepa non è così quella del nostro disinteresse verso la nostra salute alimentare, ma quella del cambiamento climatico che grida una urgenza che non cerchiamo più di fingere di non vedere eppure continuiamo, ostinatamente ad ignorare.

L’avidità di zuccheri della donna, una espressiva Alice Giroldini che ben gestisce l’immobilità forzata è l’efficace metafora di una donna che consuma risorse mascherandosi dietro a un piacere disinteressato di tutto e di tutti, e lontano da ogni lezione di morale alle persone sovrappeso c’è una colpa da cui nessuno può chiamarsi fuori. Eppure molti, come il marito di Marco Maccieri, continuano a farlo, rimproverando la società della colpevolizzazione imposta a chi punta soltanto alla propria felicità, dimentico di ciò che gli accade intorno, di quel mondo che passa in costante sottofondo come i documentari di animali che la moglie ama guardare, finestra finta eppure spietata di una realtà che da dentro si sta consumando.

Così, il vicino di Luca Cattani non è un alfiere dei passati di verdure, ma chi sa che il cambiamento di rotta di una società fagocitante è tanto urgente quanto difficile. Che si può convincerla a comprendere ma non necessariamente a cambiare, e anche riuscendoci si può essere sconfitti, per lei e per se stessi, e la perdita delle generazioni future (quelle di chi ha consegnato un mondo agonizzante, e quelle che ci rimproverano di non aver fatto abbastanza), può essere il prezzo da pagare prima di rendersi conto che ormai è troppo tardi.

La regia di Angela Ruozzi, pulita e lineare, gestisce la non semplice claustrofobia della vicenda chiesta da un testo di valore e ritmato, pur se meno linguisticamente spumeggiante di altri lavori del drammaturgo emiliano. Che non ha bisogno di usare immagini telefonate per parlare di cambiamento climatico, che si diverte a giocare con lo spettatore e a sfidarlo a leggere tutti i piani del testo, soprattutto quelle che lo lasciano più scomodo sulla sedia. Per scoprire se – e non è detto – c’è ancora tempo.


Immagine di copertina © Nicolò Degl’Incerti Tocci

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