Registi senza limiti: Jack il killer nella Divina commedia di Lars von Trier

In Cinema

Un assassino seriale (Matt Dillon) e la minuziosa confessione dei suoi molti, efferati delitti (Uma Thruman tra le vittime). Ma nell’ultimo film, come sempre ironico e misogino, del geniale, disturbante, eccessivo regista danese di “Le onde del destino”, “Melancholia” e “Nymphomaniac”, c’è stavolta soprattutto l’autobiografia di un autore e del suo cinema: che è complesso come la vita e come quella ha bisogno della luce e dell’oscurità, della scienza dell’ingegnere e della creatività dell’architetto

Anni Settanta, da qualche parte negli Stati Uniti, dove Lars von Trier ha ambientato La casa di Jack, il suo ultimo film. Jack (Matt Dillon), serial killer intelligente e maniacale fino alla follia, racconta le sue prodezze a un testimone di cui sentiamo la voce senza vedere il volto (che appartiene a Bruno Ganz). Solo verso la fine del film vedremo comparire sullo schermo anche questo personaggio e ci renderemo conto fino in fondo di aver assistito alla messa in scena di un viaggio all’inferno che somiglia in tutto e per tutto a quello della Divina Commedia, con tanto di Virgilio a farci da guida e Caronte a traghettarci sul fiume infernale.

I delitti di cui Jack si macchia (ma lui li chiama “incidenti”) vengono descritti con minuziosa precisione e dovizia di commenti, anche e soprattutto morali e filosofici. Convinzione assoluta di Jack – ingegnere che vorrebbe fare l’architetto, uomo malvagio che si finge trascinato suo malgrado nei vortici della crudeltà – è infatti che ogni omicidio debba presentarsi come una vera e propria opera d’arte, compiuta e perfetta. Assistiamo così all’uccisione dell’automobilista rompiscatole Uma Thurman a colpi di crick e all’infinito strangolamento di una vecchia signora che non ne vuole sapere di morire: e questo è solo l’inizio di una vera e propria orgia di sangue, che ha fatto dire a qualcuno che Lars von Trier ha voluto superare sé stesso, quanto a sgradevolezza e sprezzo del politically correct.

Vero, ma ciò che il regista danese ha principalmente voluto fare è in realtà parlare di sé stesso e del proprio cinema. A un certo punto del film il sadico protagonista guarda direttamente in camera e, rivolgendosi a noi spettatori atterriti, dice: «Io uccido», come una precisa dichiarazione di intenti e al tempo stesso una constatazione, inevitabile e liberatoria. «Io uccido» è esattamente la battuta finale del cortometraggio Occupation con il quale Von Trier si è presentato a Cannes nel 2007, rispondendo alla richiesta della direzione del festival (rivolta a lui e a parecchi altri registi) di esprimere in pochi minuti la sua idea di cinema. E lui ha immaginato sé stesso in sala, alla prima di un suo film, con accanto uno spettatore americano e rompiscatole che non la smette mai di agitarsi e commentare, disturbando la visione. E quando l’americano gli chiede “Che lavoro fai?”, la risposta di Lars è lapidaria: Uccido! E subito dopo estrae un’ascia e gli apre in due la testa.

Comunque sia, sembra tutt’altro che peregrino leggere in chiave autobiografica quest’ultima fatica del controverso regista danese. L’identificazione fra Lars e Jack è immediata, non solo nel desiderio di uccidere tutti i molesti – che disturbano la visione e fanno perdere tempo, o semplicemente sono troppo stupidi per vivere – ma anche e soprattutto nel bisogno di trasformare l’esistenza in una costruzione complessa, al cui successo deve contribuire sia la scienza dell’ingegnere, sia la creatività dell’architetto.

Ma Lars in questo film si sdoppia anche in due diverse figure, identificandosi in entrambi i protagonisti, nell’assassino Jack ma anche nel testimone Verge, nella luce che impressiona la pellicola e nell’oscurità che consente alle immagini di crearsi. Da una parte, la luce della razionalità che può rivelarsi perversa e condurre l’umanità verso crimini e misfatti di ogni sorta, dall’altra i meandri oscuri dell’animo umano dopo possono invece celarsi preziosi grumi di sensibilità e sentimento: di questa dicotomia lancinante si nutre da sempre il cinema di Lars Von Trier, fin dai tempi dello sconvolgente Le onde del destino.

Ma, film dopo film, la casa/cinema che questo regista geniale e folle, maniacale e divisivo ha costruito davanti ai nostri occhi appare sempre più scomoda, a tratti francamente disturbante. Con un’avvertenza: a disturbare non è tanto la putrefazione della carne e il raggrumarsi del sangue, la ripetizione orrorifica del gesto violento, il risucchio mostruoso della vita che se ne va. Ciò che davvero disturba e inquieta è l’ironia feroce, senza scrupoli, che consente di affastellare la musica sublime del pianoforte di Glenn Gould e l’estetica delle rovine dell’architetto nazista Albert Speer, le citazioni colte e coltissime (dalla Divina Commedia al teatro di Jean-Paul Sartre, dai quadri di Juan Gris e Eugéne Delacroix alla poesia di William Blake) e l’immaginario pulp, anche quello di bassa e bassissima lega, più dalle parti della serie Z che dell’ormai da tempo sdoganata serie B. Un immaginario da cui sembra provenire direttamente anche lo sguardo misogino che Lars von Trier ostenta come una bandiera, per il puro gusto di provocare e dispiacere.

Senza mai perdere l’imperturbabilità, affidata allo sguardo distaccato di Matt Dillon e a una sorta di enciclopedismo polimorfo che fa capolino spesso nel film, fra cartelli che illustrano la statica delle volte a botte e filmati che illustrano le tecniche di decomposizione degli zuccheri utilizzate in viticoltura. E questi sono soltanto due piccoli esempi, che solo in parte riescono a dar conto della ricchezza straordinaria di un film folle e debordante ma anche assolutamente coerente, spericolato, intelligente, sincero fino all’autolesionismo ma anche fin troppo ruffiano, scaltrissimo in quel giocare a rimpiattino con le aspettative degli spettatori, fra provocazioni e confessioni, struggenti ammissioni di colpa e cinici sberleffi.

È davvero ancora più difficile del solito dare conto del cinema di Lars Von Trier senza farsi inghiottire in una sorta di maelstrom megalomane e nichilista, in cui Lars si specchia e al tempo stesso si reinventa, si rivela e inevitabilmente si nasconde. Seguendo il suo Virgilio (un Bruno Ganz meraviglioso e struggente, alla sua ultima interpretazione) fino in fondo all’inferno, e stavolta disposto (forse) finalmente a pagare per le sue tante scandalose malefatte, fuori e dentro lo schermo.

La casa di Jack, di Lars von Trier, con Matt Dillon, Bruno Ganz, Uma Thurman, Siobhan Fallon Hogan, Sofie Gråbøl, Riley Keough.

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