Abissi e segreti: “La stazione” di Jacopo De Michelis.

In Letteratura

Un poliziotto esiliato, una studentessa inquieta, un popolo di ultimi, una architettura esagerata e piena di enigmi, una pista di sangue, due bambini sperduti, un dono ingombrante, l’incomprensibile mattanza di gatti randagi, una memoria sommersa. Nel romanzo di esordio di Jacopo De Michelis la stazione Centrale di Milano è insieme personaggio e proscenio: luogo di passaggio tra alto e basso, tra oscurità e luce. Tensione, mistero, rivelazione in un thriller di efficace impianto narrativo: “La stazione”, pubblicato da Giunti.

Ha buon gioco, Marguerite Yourcenar, quando dice che i fantasmi sono invisibili perché li portiamo in noi.
Ritirati nella periferia della nostra percezione, abbandonato il territorio dell’orrorifico esplicito in favore di un inquietante pervasivo, i fantasmi oggi muovono turbamenti singoli e sensi di colpa collettivi, perturbano la sensazione dei luoghi, emergono da memorie rimosse. E riescono lì dove sono sempre riusciti: agitano l’aria e inducono a correre attraverso gli spazi – anche quando questi siano quelli delle pagine scritte.

Che il loro dispositivo funzioni benissimo anche in contesti in cui il rumore della vita è alto e rimbomba senza sosta lo racconta il debutto narrativo di Jacopo De Michelis, che per Giunti pubblica La stazione, romanzo d’esordio che è, insieme, thriller, storia d’amore e di vendetta, racconto di formazione e d’ambiente, narrazione avventurosa e immaginifica, discesa agli inferi, affresco sociale, lacerto di storia contemporanea.  

Di fantasmi, di fatto, è piena l’esistenza di Riccardo Mezzanotte, protagonista di una vita fatta di crepe e deviazioni: studente dissonante, musicista punk, orfano di affetti e tenerezze, poliziotto intuitivo e non conforme, segnato dalla onnipresente memoria di un padre troppo ingombrante tanto nella sua ascesa leggendaria quanto nel suo assassinio intempestivo e insoluto.
E fantasmi sono pure le truppe scelte di Mezzanotte, che si trova, nel momento in cui lo incontriamo, negli inferi della sua carriera: estremo opposto di un esordio sfolgorante, che lo confina in tempi record da giovane promessa della sezione omicidi a reietto di ronda nella polizia ferroviaria – dove, peraltro, non è certo il benvenuto. In tutto e per tutto, un esiliato, che il Destino sembra parecchio propenso a prendere a calci, picchiando duro soprattutto sul versante della solitudine e dell’autostima:

“Ma era comunque dura fare il callo a certe cose. Capannelli che si scioglievano appena si avvicinava, conversazioni che s’interrompevano al suo ingresso in una stanza, frasi bisbigliate all’orecchio mentre lo guardavano di sottecchi”

Ovvio che sia un drappello sparuto e raccogliticcio quello su cui si trova a contare Riccardo, comunemente conosciuto come Cardo anche in un momento in cui non è asse portante neppure di sé stesso: Amelia, una senzatetto anziana che tutto vede e tutto conosce, capace di vituperi da fare sfiorire anche le rose in boccio, che Mezzanotte ammannisce a colpi di cioccolatini; Schizzo, un ragazzotto vestito di tute sgargianti mangiato vivo dalla droga, che passa la giornata a racimolare quello che gli serve per campare e demolirsi; il Generale, di età indefinita tra settanta e gli ottant’anni, barba e capelli bianchi, gamba strascicata, muto: innocuo, benvoluto da tutti, invisibile tra gli invisibili.
Del popolo degli ultimi che albergano tra le ombre della stazione, sono questi quelli che si staccano da un magma fantasmatico sempre pronto a scomparire negli anfratti: a Mezzanotte portano informazioni e silenzi, come messaggeri di un mondo altro, ordinato da logiche imperscrutabili e sempre vagamente minacciose.

E tutto fuori che neutrale è, del resto, il luogo in cui le vicende accadono: se già Milano ha dalla sua memorie di mala e di cronaca nera corroborate da una violenza che ha avuto in Scerbanenco il suo più prolifico cantore (il tema della corruzione e del tradimento che tutto obnubila e macchia è un richiamo fortissimo, così come quello delle figure femminili pericolose, belle e dannate), l’inquietudine che serpeggia sulle facciate, tra i vicoli, in certe stamberghe apparecchiate a normalità di superficie rimanda al Buzzati notturno, visionario e desolante della via Saterna, lì dove è facile che un portone qualsiasi si apra su un inferno non qualsiasi.

In questo scenario, dominante, onnipresente, brulicante troneggia la stazione Centrale, che di tutti i fantasmi sembra, insieme, collettore e ombelico cosmico: enigmatica e abnorme, mette al mondo inquietudini, alberga malesseri, dissemina cadaveri di gatti orribilmente sfregiati, nasconde corpi e memorie di un tempo feroce finito negli anfratti della Storia.

“Severa e solenne, la facciata del colossale edificio, a metà tra la cattedrale e le terme romane, dominava piazza Duca d’Aosta (…) Inaugurata nel 1931 in pieno fascismo – ma la data di presentazione del primo progetto risaliva molto più indietro, addirittura al 1912 – la Stazione Centrale era stata definita dal suo architetto, Ulisse Stacchini, una “cattedrale del movimento”. Sovraccarica di decorazioni e ornamenti, non aveva, probabilmente per via delle lunghe e travagliate vicende della sua costruzione, una cifra architettonica ben definita. Liberty, art déco, neoclassico, razionalismo, stile littorio si affastellavano l’uno sull’altri in un guazzabuglio che sconfinava nel kitsch. In città, quel gusto eclettico e pomposamente monumentale era stato ironicamente bollato come “assiro-milanese”. bella, la Centrale era probabilmente difficile trovarla bella, ma certo a suo modo era unica. E soprattutto grande. Sfacciatamente, smodatamente grande”.

La stazione, che non a caso è anche il titolo del romanzo di Jacopo De Michelis, è personaggio primario, determinante nei destini dei singoli, multiforme, ambigua e sfuggente: più ci si addentra nella sua storia, maggiormente la si sente pulsare fin dalle fondamenta, proprio lì dove, di tutti i suoi segreti, si celano quelli più nascosti, antichi, dolorosi, rimossi e simbolici. 

Esiste, come in tutti i luoghi di transito, un mondo sotterraneo, impensato, impensabile per chi, appena sceso ai binari, già corre in superficie dietro alle faccende del mondo di sopra. Ma alla Centrale, oltre quel sotto che è già primo livello di un non-visto, si favoleggia ancora di altro, ed è un altro sconfinato e abnorme, non controllato né conoscibile. La stazione apre e chiude i suoi boccaporti, e lo fa come un respiro: immette alla luce personaggi che vivono nell’ombra, assorbe nell’ombra vite nate nel sole. È una quinta e un proscenio: apparizioni e improvvise scomparse sono repentine, chi si muove dentro ai suoi tentacoli lo fa con drammaticità ed effetti che riecheggiano il meglio del Fantasma dell’Opera (ed eccoci, di nuovo, ai fantasmi).

“Noi siamo gli invisibili, i Figli dell’ombra (…) Respinti dal mondo, inghiottiti dalle tenebre, nelle tenebre siamo rinati. Ma il nostro esilio non durerà per sempre: torneremo a camminare in pieno giorno. Coloro che ci hanno privati del sole non sfuggiranno al castigo. Per voi il buio si avvicina, signori della luce, e il buio non perdona”

Poiché, come in ogni storia gotica che si rispetti, il luogo dove gli opposti si attraggono e si incontrano fa scaturire passioni destinate a rompere irrimediabilmente gli argini, anche la stazione è testimone fremente di continui sconfinamenti fra bene e male, fra religiosità e raziocinio, fra ordine e follia.
E dal momento che una caratteristica di molti dei personaggi di questo romanzo è proprio quella di percorrere il proprio ruolo come su una corda tesa sospesa nel vuoto, un occhio di riguardo va a quella che, più e meglio di tutti, interpreta questo stare in bilico tra luce e ombra, ovvero il controcampo femminile di Riccardo Mezzanotte: Laura Cordero, universitaria di buona famiglia con madre ossessiva e padre assente, potenzialmente destinata a un futuro di annoiato benessere, che scardina piazzando una serie di scelte istintive e di rottura sulla via della propria emancipazione.
Questa Beatrice dotata di fisicità, pietosa verso gli ultimi, intransigente verso sé stessa, tramite del trascendente e resistente al proprio dono, è l’inquieta cerniera tra i mondi e tra i tempi.
Lo testimonia anche la scelta che ha fatto per i propri studi: nulla di rassicurante; al contrario, Laura Cordero studia medicina perché della medicina le piace la parte che meno si conosce:

“Come poteva da un ammasso di cellule nervose e una serie di impulsi elettrici emergere la coscienza, in grado di riflettere su se stessa e il mondo, produrre opere d’arte e teoremi matematici? Qual era il meccanismo alla base della memoria? Da dove venivano e che funzione avevano i sogni? Tutte domande a cui non si era ancora nemmeno iniziato a rispondere”.

Sarà Laura la calamita degli eventi che costringeranno una parte del mondo di sopra a confrontarsi con le ombre del mondo di sotto: tutti la attraverseranno, e di tutti lei sarà la domanda. A partire dalla prima, la più storica e la più persistente: può un enorme dolore collettivo impregnare la memoria di un luogo al punto da emanarne in un eterno presente?

Insomma: i livelli di questo romanzo sono molti, e guai a rivelare quello che guasterebbe il divertimento di una prima lettura: perché La stazione funziona come un vero kolossal. Le prime 250 pagine filano come un Ken Follett d’annata, tra continui spostamenti di piano e tensione in crescendo. Ma il bello viene dopo, quando nella poltrona vi siete ben accomodati.

Imperdibile per chi ha apprezzato l’Avoledo de L’elenco telefonico di Atlantide, le atmosfere simboliche e ipogee de L’ultimo Catone di Matilde Asensi, l’intreccio mistico e storico del Pendolo di Foucault di Eco, e pure la Vargas di quando Adamsberg si va perdendo dentro sé stesso.