“Fisica delle separazioni”: Giacomo Sartori racconta la fine di un amore.

In Letteratura

Otto capitoli, otto movimenti, otto stazioni da cui guardare alla disgregazione di un rapporto importante, forte, epocale. L’attraversamento della fine, la sopravvivenza, l’analisi e la dissezione dei comportamenti intimi del protagonista, che si rivela in ogni atomo della propria fallibilità. La parola a un uomo in frantumi la dà Giacomo Sartori nel suo nuovo romanzo, pubblicato da Exorma.

Cosa succeda nella mente di un uomo che attraversa un grande amore, mentre lo vive e quando questo finisce è uno di quei temi rimasti per lungo tempo orfani di titoli, nonostante – a ben guardare – questa sia stata fin dagli esordi della letteratura occidentale di quelle trame che hanno goduto di una certa fortuna (e anche di un discreto numero di valenti best-seller). L’uomo che piange e si dispera per la sua bella irrimediabilmente lontana è stato un innesco narrativo determinante sicuramente per certi nomoni della letteratura universale come Dante e Petrarca, ma a un certo punto la patologia degli affetti maschili si è un poco arenata, tant’è che per gli ultimi afflati diffusi dello sturm und drang amoroso bisogna risalire fino al Romanticismo.

E forse uno degli ultimi a scavarci così ben dentro e intorno potrebbe essere quel Foscolo che, imbevuto com’era dal vortice sensistico delle sue tempeste amorose, non si fece grossi problemi a utilizzare per il suo Ortis le vicende vissute con donne reali, quasi precursore dell’autofiction (su cosa dovettero passare la bella Teresa Pikler sposata Monti o Isabella Roncioni nel vedersi spiattellate e stampate la loro intima corrispondenza con l’Ugo nazionale, ecco, le antologie glissano). Fatto sta che, saltabeccando tra un Verga mondano e l’Un amore di Buzzati, pian piano il tema si è intiepidito.
Non un bene, soprattutto perché la reciproca comprensione non può che passare attraverso la verbalizzazione dei processi individuali. E, se le parole mancano, in un momento in cui strutture antiche e radicate cominciano ad essere messe in discussione su larga scala, capirsi diventa più difficoltoso.
Ce l’ha molto chiaro Bell Hooks, che nel preziosissimo saggio su mascolinità e amore intitolato La volontà di cambiare (Il Saggiatore) scrive:

L’infelicità degli uomini nei loro rapporti, il dolore che provano per il fallimento dell’amore, nella nostra società passa spesso inosservato proprio perché in realtà alla cultura patriarcale non importa se gli uomini sono infelici.

Ecco perché è molto interessante la direzione in cui si muove il nuovo libro di Giacomo Sartori, Fisica delle separazioni, pubblicato da Exòrma: perché proprio alla fine di un amore è dedicato, e dal punto di vista di un uomo.

Quando si è vissuti tanto tempo assieme ci sono moltissime cose da dimenticare. Bisogna dimenticare i piedi, con i loro vezzi da piedi timidi, ma anche fieri, e insomma struggenti. Erano piedi che amavano il contatto con il cemento e i pavimenti freschi, che adoravano il Sud e l’estate. Del resto, a pensarci bene, anche la loro conformazione aveva qualcosa di ineluttabilmente umano e commovente, perché non erano eleganti, erano anzi un po’ tozzi, tradivano le loro origini contadine, e stiamo parlando del Sud della Catalogna, dove le persone sono bassette e squadrate, o insomma lo erano ma in tempi  dimenticati ma non poi così remoti, quasi per non allontanarsi dalla terra che andava divelta e sarchiata, ed era terra dura e pietrosa, anni luce dal limbo delle astrazioni, che sono solo pericolose, quando la vita è aspra e preda delle intemperie climatiche e storiche. Erano però anche piedi armoniosi, con quelle arcaiche simmetrie che poi si ritrovano nei quadri di Picasso o anche di Carlo Carrà, e soprattutto molto sinceri. Le persone si conoscono dai piedi, nella mia vita non ho mai incontrato dei piedi che sapessero mentire, i piedi non sono come le facce, non sanno cos’è la scaltrezza: ci si può fidare a occhi chiusi di quello che raccontano.

Lasciare, essere lasciati, consentirsi di lasciare, collaborare all’essere lasciati: dentro questo perimetro si snoda il romanzo, che racconta “l’omicidio di un amore”, come afferma il protagonista, voce narrante per otto capitoli – uno per ogni stato dell’abbandono.

Imparare a dimenticare, Capire chi lascia chi, Monitorare le parole, Cogliere i prodromi: benché i titoli di ogni movimento, a prima vista, si promettano come lezioni istruttive e giudiziose sul distacco, adottando per di più la rassicurante e cristallina precisione del linguaggio di taglio scientifico, quello che accade dentro la narrazione di Giacomo Sartori è la cosa più distante possibile dalla serenità laccata e performante di tanta scrittura che, sorriso stampato e piglio motivazionale, si propone di tirare fuori dalle peste chi incappa nello strappo di una vita. 
È vero che la storia inizia da un punto in cui la mareggiata sembra essere passata, per cui l’approccio a ciò che è stato può giovarsi di una prospettiva all’indietro come è quella di un corpo depositato sì sulla battigia insieme al marasma confuso e monco di tutto quello che è naufragato insieme a lui, però comunque in salvo; tuttavia, stralciato rapidamente ogni ottimismo di facciata, la prospettiva è subito quella di un occhio intubato dentro a una telecamera a mano, messo a piantonare una endoscopia pratica dell’abbandono raccontata con la caparbia volontà di mettere a nudo meccanismi e catene di causa-effetto senza risparmiarsi nulla, non solo fino al midollo: quasi fino alla catena degli amminoacidi.
Perché l’ultimo degli abbandoni, (quello che ha spezzato la spina dorsale di un rapporto trentennale di corteggiamento matrimonio e convivenza, e che segna il passaggio di un’epoca nella stratigrafia dell’anima del protagonista proprio come la discontinuità di una roccia segna un prima e un poi nella sua storia), non è altro che una variazione sul tema della fine – cosicché, tra madri e prime fidanzate dal sapore di pane, e amanti a corrente alternata, lo sguardo sulla vita che è stata inquadra un continuo, irrefrenabile franare di un abbandono sull’altro.

Noi stessi ci vediamo poco chiaro, quando perdendo il carapace comune ci ritroviamo metamorfosati in un animale ferito che si rapporta al mondo e a sé stesso con la coda tra le gambe, che si accinge a vagare da solo nel deserto pietroso dell’esistenza. Se devo confessare la verità io non sapevo bene perché la lasciavo…

È insomma un quieto, disperato romanzo di sformazione; il punto di vista è tutto maschile, ed è quello di un uomo dalla mente analitica, che, come “si occupa di trasformare in numeri la natura”, così si sforza di osservare le mutazioni disgregative di un rapporto trentennale al vetrino microscopio.
Nulla viene risparmiato nella dissezione del sentimento morente. La memoria, le parole, le sensazioni, le (mancate) azioni agiscono come altrettante stazioni di una ideale via crucis. 
Così più l’impegno è quello di dimenticare, per fare spazio al nuovo, maggiore è la massa di particolari che si impone alla memoria: e sono tutte ferite nelle quali la voce narrante si involve, autodenunciando la propria implosione senza mai trovare una vera forza motrice in grado di determinare una reazione salvifica per entrambi. 

Motore immobile, ripiegato nell’inazione, annientato dalla paura del distacco, il protagonista ripercorre così gli anni felici degli inizi, di tutti i suoi inizi: 

Io a dir la verità non sapevo che si potesse essere amati: non ne avevo mai fatto l’esperienza, nessuno me ne aveva mai parlato. In casa mia non si usava. Era molto rassicurante, ma certe volte anche opprimente, per certi aspetti insopportabile. Era chiaro che avrei dovuto fornire qualcosa in cambio, ma non sapevo bene cosa. O forse è evidente solo adesso che ci ripenso, lì per lì non avevo questa visuale.

Dove sta la radice di ogni naufragio? Da qualche parte di sicuro, e Giacomo Sartori scende sotto alle sentine della barca in cui mette il suo protagonista, inquadra ogni vite non ben saldata: le avvisaglie nella negazione affettiva dell’infanzia, il trauma della perdita della madre, l’abisso di inazione, il tentativo di scappare al mal di testa esistenziale con la codeina, l’infedeltà sistematica scoperchiata e l’insoddisfazione sessuale, l’opposizione a corpo morto al cambiamento, la frattura avvenuta senza significativa volontà di tamponamento quando il desiderio per il futuro divarica le aspettative della non-più-coppia. Perfino quell’ultimo, goffo tentativo di non sentire il tempo cambiato proponendo un viaggio in un altrove non più possibile, se non come regione nella quale il lutto della perdita, infine, emerge e si consustanzia nella manifestazione del dolore di lei, la Mila di cui non abbiamo le parole del dopo (al pari delle Terese e delle Isabelle di cui sopra).

Il dopo, invece, esiste: onore al lavoro della psicanalista reichiana “un po’ sovrappeso e con le scarpe rosse” che “ama i soprammobili, e in particolare gli elefantini di pietra o vetro” che ha almeno impedito l’autodistruzione del personaggio-voce narrante – nonostante la sua recidiva tendenza a nominare con la nuova fidanzata i fasti e i lustri dell’amata precedente.

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