Jack Savoretti cerca il “big break”

In Musica

Il cantautore londinese presenta una nuova edizione arricchita di Written in scars

«Gli inglesi usano una frase che è “big break”… “er botto”, come dicono a Roma», ride Jack Savoretti, «la mia fortuna finora è stata quella di non avere avuto il “big break”» conclude poi, guardando l’obiettivo.

Dopo un travagliato percorso, che lo ha condotto talvolta a rinunciare a una più vasta e immediata visibilità in nome della coerenza artistica, il cantautore londinese di origini anglo-italiane può oggi ritenersi alquanto fiero del suo successo, costruito sulla costanza e sull’immancabile desiderio di far pratica e mettersi in gioco.

A Savoretti sembrano non mancare né l’inventiva né soprattutto le tradizioni musicali dalle quali attingere. Il padre genovese sembra averlo cresciuto a pane e canzoni d’autore italiane, la madre tedesca ha dato un buon contributo con il suo repertorio di ascolti, che spaziano dai classici della Motown al rock americano anni ’60 e ’70. Aggiungiamo poi una passione personale per le colonne sonore, per i testi poetici di Dylan e per il rock di Crosby, Stills, Nash e Young.

Il sostrato di tutti questi elementi è percepibile nel repertorio del buon Jack, e prende forma coerente e matura nel suo ultimo album Written in scars, uscito il 9 febbraio 2015. «L’idea mi è venuta guardando un documentario in cui Paul Simon spiega che per prima cosa scrive i ritmi, e solo in un secondo momento si dedica al resto della canzone. Perché non fare lo stesso?» afferma l’autore. La prima cura viene perciò relegata alla sezione ritmica del disco che, in effetti, propone delle soluzioni tutt’altro che scontate. Savoretti si affranca dall’imperitura tradizione del cantautorato costruito sul binomio chitarra-voce, scoprendo nella ritmica la chiave di massimo coinvolgimento, dal quale far scaturire i testi e l’armonia.

Una prima versione dell’album propone un percorso di undici brani che mira a scavare nelle proprie profondità: parla di sacrifici, necessari per ottenere ciò che si vuole, parla di tappe sul tragitto della realizzazione ma volge anche uno sguardo alla condizione sociale di oggi.

Il disco si apre con il baratro di Back to me”. “Living in the dark, I’ve been acting crazy” (Vivere nell’oscurità, mi sta facendo impazzire), recitano i primi versi del testo, accompagnato da un’armonia malinconica. E alla maniera del suddetto Simon «maestro del dire tanto dicendo poco», Savoretti lascia parlare la musica. Gli arpeggi del pianoforte fanno da sfondo al timbro caldo della voce, sporco quando serve, e simile a quello dell’americano Lamontagne.

Segue Home, il singolo che ha anticipato l’uscita dell’album, che si apre in un crescendo dal sapore soul, effetto che torna anche nella successiva The other side of love. Nonostante si tratti di un altro brano dedicato a un amore che proprio non ne vuol sapere di tornare, il ritmo aiuta a dare vitalità all’amarezza delle parole.

In Don’t mind me è percepibile una forte tensione iniziale, che sfocia in un groove articolato con il rullante in levare: un pezzo che affascina per varietà di atmosfera, dal vivace al sognante. Tie me down, nella sua versione Album mix, conferisce a tutto il lavoro un respiro “mainstream” e ballabile, e l’effetto prosegue nella cassa in quarti della successiva Broken glass.

La voce a tratti si spezza nella cover della dylaniana Nobody ‘cept you, in cui torna la formula chitarra e voce (a differenza dell’originale folk interpretato con chitarra, basso e armonica), in un intermezzo di grande dolcezza. Il retaggio della musica da cinema è percepibile in Written in scars e nel fischiettio iniziale di Wasted (accompagnata dalla cantante folk rock americana Lissie): un vero e proprio omaggio alle atmosfere dei film western. Il disco si chiude su Fight ‘til the end in cui il ritmo raddoppia e il tono potente sembra in linea con la determinazione espressa dal testo.

Dopo essere stato nominato “nuovo Dylan”, “nuovo Paolo Nutini”, “erede di Paul Simon” e così via, finalmente Savoretti sembra essersi liberato delle etichette e lo ha ben rimarcato con la pubblicazione di una nuova edizione dello stesso Written in scars, uscito lo scorso 18 settembre. Se da un lato la nuova versione si pone come omaggio alle origini italiane del cantautore – con l’inclusione di cinque tracce suonate energicamente al suo ultimo concerto a Roma – dall’altro sottolinea l’adattabilità dei brani di Savoretti. Vengono infatti proposti due remix del dj danese Alexander Brown, Jack in a box e The other side of love.

Le vere chicche di questa seconda edizione sono i due inediti: Back where I belong, l’originale da cui è stato tratto il primo remix di Brown, dalle cadenze funky, e Catapult, malinconico contraltare dell’inedito precedente, con i bassi del violoncello e gli archi che segnano di tristezza questa ballad.

E se Savoretti si dimostra giustamente scettico sul successo facile, dimostrando di preferire il fertile retroterra dell’indie inglese, ci auguriamo comunque che queste ultime novità lo conducano a ottenere la visibilità che merita.

Jack Savoretti, Written in scars

Immagine di copertina: Jack Savoretti di Dean Zobec

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