Appunti di Faber: la poesia, il calcio, l’astrologia e Beppe Grillo

In Musica

A vent’anni dalla morte di De André, l’amico e collega Mauro Pagani racconta una lunga convivenza quotidiana con Fabrizio: la sua mania di annotare tutto, la tifoseria genoana, la paura della diretta Tv. E quella volta con Mick Jagger… 

Bresciano di nascita, milanese di adozione, Mauro Pagani è diventato anche genovese per meriti di “servizio”, dopo quei 14 anni di collaborazione artistica con De André, da lui condotto verso una definitiva cittadinanza musicale mediterranea, che prima non aveva. Il punto di svolta, come noto, è Crêuza de mä, il capolavoro che scrissero insieme nel 1984 dopo tre anni di ricerche e sperimentazioni sonore. Mentre prepara un nuovo disco, il polistrumentista, compositore e produttore discografico, ex membro della PFM, racconta alcuni momenti della sua vita con l’amico genovese, scomparso vent’anni fa*.

Quanto tempo hai passato con Fabrizio e come si svolgeva la vostra collaborazione musicale?
Circa 14 anni. Dopo tanto tempo a lavorare insieme diventi come Gianni e Pinotto, lui era Compare Orso e io Fratel Coniglietto, con quel tipo di intesa in cui le cose non hai neppure bisogno di dirtele, basta un’occhiata per capirsi. Sai, quando vai in giro a suonare succedono sempre un sacco di cose, si incontra tanta gente, giornalisti, promoter locali, discografici, fans. Una cosa che ci accomunava molto era l’umorismo, la voglia di fare battute. Lui era un uomo piuttosto ombroso, quando era in brutta era meglio stargli alla larga, ma quando era in buona era una persona fenomenale, ci ammazzavamo dal ridere. Ancora adesso mi vengono in mente delle battute e istintivamente penso ecco questa dovrei dirla a Fabrizio, perché so che lo farebbero ridere, era proprio un terreno comune, abbiamo passato più tempo a ridere che non a lavorare sulle canzoni.

 

 

Dopo tanti anni con De André sei riuscito forse a capire perché Genova, culla dei cantautori, è forse una delle città più cantate in versi.
Probabilmente perché è una città di mare che si porta dietro l’idea del viaggio, con quel velo di malinconia per la lontananza dei propri cari imbarcati per mare. Quindi una città che ha una grande presenza e una grande assenza, dei vuoti da riempire. La mia collaborazione con Fabrizio è iniziata per caso perché frequentavamo lo stesso studio di registrazione nei primi anni ’80 a Milano, quando Fabrizio aveva già lasciato Genova. Lui stava registrando un disco che si chiama L’indiano e io una colonna sonora, Sogno di una notte d’estate, la mia prima collaborazione con Gabriele Salvatores. Lui veniva da una esperienza con i miei ex colleghi della PFM (che Pagani aveva lasciato nel 1977, ndr) con i quali aveva fatto due dischi: loro li avevano riempiti di arrangiamenti con viole, violini, flauti, mandole e io dico sempre, un po’ ridendo e un po’ no, che Fabrizio mi assunse come musicista per la tournée perché suonavo 4 o 5 strumenti e quindi, da bravo genovese, lo facevo risparmiare!
Poi abbiamo cominciato a lavorare insieme, io lavoravo già da anni sulla musica mediterranea e ho cominciato a fargliela sentire, ma solo per una chiacchiera tra colleghi, perché ancora non pensavo che avremmo composto qualcosa insieme e perché pensavo che fosse musica incantabile in italiano. Finché a Fabrizio venne l’idea di fare un disco in genovese. Inizialmente il disco che doveva essere scritto in grammelot, in una lingua inventata dai marinai che mescolava italiano, spagnolo, portoghese, arabo, in un unico miscuglio, poi Fabrizio mi disse, “ma il genovese è già una lingua, un impasto di altre lingue, con un sacco di parole che provengono da tutto il mondo”, e di colpo il disco ha trovato la sua strada, diventando molto vivo grazie al dialetto.
Si dice che le lingue diventano dialetti quando le città dove si parlano perdono le guerre, ed è vero, pensiamo a Napoli: noi chiamiamo dialetto il napoletano, ma quella è una lingua, infatti Napoli è stata la capitale di un regno, con tutta una sua classe colta. La grande canzone napoletana, che si spaccia per canzone popolare, è in realtà per buona parte di origine colta, scritta da compositori e scrittori di grande levatura, che vivevano all’ombra di una società opulenta e curiosa. Un po’ lo stesso destino lo ha avuto Genova che a un certo punto ha perso una guerra di troppo ed è stata inglobata nel Regno di Piemonte e Sardegna e piano piano la sua lingua si è trasformata in dialetto.

Mi colpisce il tuo riferimento al Regno di Piemonte e Sardegna perché De André lo ha incarnato tutto nel corso della sua vita: nato da genitori piemontesi, vissuto a lungo in Sardegna, ma genovese per cultura. Faber sembra un suddito in ritardo di quel Regno.
Si, infatti Genova a un certo punto è stata inglobata nel regno ma ha mantenuto la dignità della sua lingua. C’è un attaccamento ancora molto forte della gente a questa lingua-dialetto, anche se basta spostarsi di pochi chilometri e le parole cambiano un po’, come in tutti i dialetti. Per di più la Liguria è lunga e stretta e ogni paese ha avuto la sua storia, la sua piccola o grande repubblica marinara, invasioni, vicinanze.
Il legame di Faber con Genova era forte, ha vissuto a Milano tanti anni ma si riteneva sempre un genovese in prestito. Quando litigava con Dori Ghezzi le diceva “basta, me ne torno a Genova!” E Dori gli rispondeva: “Guarda che tu non ce l’hai più una casa a Genova, dove vai, in albergo?” Tuttavia apparteneva a Genova, anche dal punto di vista calcistico: il suo tifo per il Genoa era profondo, viscerale. Allo stadio non ci andava più perché per lui era complicato, poi era pigro, ma l’ho visto guadare le partite in tv indossando la sciarpetta e il berretto rossoblù. Il lunedì se il Genoa aveva perso bisognava stargli alla larga. Io ero e sono milanista, certe volte lo evitavo. Era proprio appassionato di calcio in generale, sapeva le formazioni, le regole.
Aveva passioni che non avresti detto data la sua figura di cantautore. Per esempio oltre al calcio era appassionato di astrologia. Se qualcuno doveva lavorare con lui, la prima cosa che gli faceva era il quadro astrale e se il quadro astrale non andava bene quella persona non aveva tante possibilità di farcela. Altro esempio: un disco importante come Le nuvole dovevamo registrarlo nell’86, 87, ma lui fece le carte e disse “No, non va bene, dobbiamo registralo nell’88-89.” E così facemmo. Perché gli astri dicevano che avrebbe avuto molta fortuna e in effetti così è stato. Anche perché c’era una grandissima attesa. Credo che sia stato il suo disco più fortunato.

Pare che da giovane scrivesse su dei taccuini nei quali annotava sia versi che formazioni calcistiche e classifiche…
Si, lui annotava tutto. Era la sua passione. Leggeva molto, specialmente di notte, a letto, circondato da libri e aveva sempre un quaderno, su cui annotava quello che gli interessava, anche sui calciatori, le loro storie. Lui era molto diligente perché non gli piaceva essere colto in fallo. In fondo anche la sua pretesa agorafobia non era proprio vera. A lui non faceva paura fare i concerti come qualcuno ha scritto, gli piaceva molto in realtà, infatti ne ha fatti un sacco, come ha cominciato non ha più smesso. Lui era terrorizzato dall’idea di sbagliare. Era una sua piccola nevrosi, difatti non siamo mai riusciti una volta in vita sua a fargli fare una diretta televisiva. Una volta al concerto del primo maggio a Roma dovevamo fare Don Raffaè con Roberto Murolo, che sarebbe stato interessante, perché un pezzo scritto in napoletano da un genovese e un bresciano sarebbe stato restituito alla sua napoletanità, come era giusto che fosse. Lo facevamo dal vivo già da mesi ma avremmo dovuto farlo in diretta Tv. Lui già da giorni si era fatto convincere – “si vabé, si vabé” ripeteva – poi viene da me e dice “no, non ce la faccio, non ce la posso fare…” Abbiamo dovuto registrarlo di notte, sullo stesso palco, alle 2 o alle 3, perché lui non si fidava a farlo in diretta. Temeva l’imprevisto.

Forse era anche consapevolezza della sua statura e senso di responsabilità.
In realtà lui era ammalato di perfezione. Ci metteva anche anni a scrivere un testo. Non era uno che lavorava di getto. Fabrizio aveva delle intuizioni fenomenali tutti i giorni, però le scriveva sul suo famoso quadernino e da lì al testo finito passavano mesi di elaborazione, era capace di stare un anno su una parola. Il risultato era che ci sono dei testi suoi in cui, data quella metrica, dato l’argomento, è difficile pensare che ci potessero stare delle altre parole, perché aveva una grandissima conoscenza della lingua naturalmente, era molto colto, e con una straordinaria capacità di sintesi: questa era la sua forza maggiore. Aveva la capacità di spostare continuamente la macchina da presa, per cui la stessa storia cominciava a raccontarla da un punto di vista inaspettato. Per esempio Don Raffaè, che fin dal titolo era un po’ la storia di Cutolo, lui la racconta tramite la storia del secondino che lo aveva in custodia. Già parte mettendo l’occhio in un certo modo e ad ogni momento del racconto continua a spostarlo, perché era un grande narratore, soprattutto in metrica. Forse in prosa questa sua ossessione per la precisione lo faceva essere un po’ macchinoso, doveva rifinire tutto, spiegare tutto, doveva chiarire tutto con periodi lunghi, mille virgole parentesi tonde, quadre e graffe… Però in metro era il più bravo di tutti, non c’è stato mai nessuno bravo come lui. Un altro genovese bravo è Fossati, anche lui con le parole è un maestro.

Un brano come La domenica delle salme, che hai scritto con Fabrizio per l’album Le nuvole del 1990, ha dei versi che riletti dopo il crollo del ponte Morandi sembrano una profezia. Per esempio: “voglio vivere in una città dove all’ora dell’aperitivo non ci siano spargimenti di sangue o di detersivo”.
Quel brano è stato scritto così, come una profezia di quello cui stava andando incontro il nostro paese, cioè La domenica delle salme è la descrizione del silenzioso, avvenuto colpo di stato, cioè di quando la mala-politica e la pochezza morale si sono impadroniti della nazione e si fa fatica a stabilire l’anno in cui se ne sono andati, ammesso che se ne siano andati. Ed è proprio il racconto della resa dello stato. “La domenica delle salme non si udirono fucilate…” E anche il verso finale…

Si, eccolo: “Gli addetti alla nostalgia / accompagnarono tra i flauti / il cadavere di Utopia / La domenica delle salme / fu una domenica come tante / il giorno dopo c’erano i segni / di una pace terrificante / mentre il cuore d’Italia / da Palermo ad Aosta / si gonfiava in un coro / di vibrante protesta.” Sembra la descrizione di ciò che abbiamo vissuto il giorno dopo il crollo del ponte. La poesia ha questo potere di pre-sentire cose che succederanno.
Sì, descrive l’incapacità che ormai abbiamo un po’ tutti di indignarci davvero, perché siamo abituati come italiani agli invasori che passano, alle cose che non vanno, a sentire il governo come una cosa distante che non ci appartiene. Siamo una delle nazioni con meno orgoglio nazionale credo, in Europa di certo. Pochi pagano le tasse pensando che davvero stanno sostenendo la nazione, anche quelli che le pagano pensano di subire un torto e che qualcuno farà cattivo uso dei suoi soldi, perché lo stato si è posto troppo spesso come gabelliere, faccendiere. Un po’ mi stupisco che nella situazione attuale della politica italiana rispetto al Ponte Morandi, alla necessità della sua ricostruzione, al triste spettacolo che le istituzioni stanno dando, mi stupisco che i genovesi non siano davvero furibondi. Non voglio fare il fomentatore, però ci sono dei momenti in cui bisogna alzare la voce davvero. Molti dicono che bisogna ricostruire subito e invece questo progetto si è perso in mille panie, frasi fatte, atteggiamenti incomprensibili dove ancora una volta si è visto l’obbiettivo politico passare sopra alla testa della gente, sottovalutando il fatto che quella città divisa in due è un brutto segnale anche per la nazione. Ci dovrebbero essere centinaia di persone già al lavoro.

Oltre agli album che conosciamo cosa hai fatto con Fabrizio?
A un certo punto fui da lui coinvolto nella scrittura della colonna sonora del film di Beppe Grillo Topo Galileo. Beppe e Fabrizio erano amici da tanti anni e quando si fece il film su sceneggiatura di Stefano Benni subito Beppe chiamò Fabrizio e gli disse “Belin, la colonna sonora me la devi fare tu.” E Fabrizio la prima cosa che fece prese il telefono e mi disse: dobbiamo fare la colonna sonora del film di Beppe. Lavorai poi molto io e lui qualche volta veniva, ma mi mollò la patata. Ci incontrammo a Roma anche con Grillo per ascoltare delle cose che avevamo composto e in quelle situazioni avevo proprio la sensazione che loro due fossero genovesi nel profondo, perché i genovesi amano usare un sarcasmo cattivo anche nei confronti degli amici. Se si va in giro per Genova si sa che bisogna stare attenti a quel che si dice e si fa, perché ci si becca delle battute che ti levan la pelle dalla faccia. Loro due si prendevano in giro e se ne dicevano di tutti i colori, coprendosi di insulti scherzosi e dopo un’oretta che erano insieme non si sopportavano più l’un l’altro. Per cui la collaborazione è poi finita lì. Ma c’è un episodio carino: la protagonista di quel film era Jerry Hall, cioè la moglie di Mick Jagger e quando siamo arrivati sul set c’era anche Jagger e ci siamo ritrovati a tavola a Cinecittà con loro due e Beppe. Fabrizio sbuffava perché non parlava inglese e temeva di essere frainteso. Ma Mick Jagger fu un lord, non faceva la star, era in veste di principe consorte.

Come ricordi la tua infanzia bresciana, prima che la musica entrasse nella tua vita?
Ero molto ignorante, mentre mia madre comprava molti libri, era la sua passione, però lei purtroppo vedeva poco, allora cominciò a comprarli per me, che ero figlio unico. Li comprava a rate dai rappresentanti che a volte battevano la provincia porta a porta. Ho ancora tutte le collezioni di quei classici, che cominciai a leggere. Leggevo e fantasticavo, giravo per casa gesticolando, al punto che i miei si erano preoccupati che stessi diventando matto. London, Conrad, Mark Twain, libri di viaggi, le enciclopedie, mi facevano sognare di partire e girare il mondo, che immaginavo meraviglioso, chiuso nella mia cameretta. Il momento più bello della mia giornata diventò la notte perché si spegneva la luce e io nel buio potevo immaginare di essere ovunque. Questa cosa mi è rimasta, ancora adesso sono un uccellaccio notturno.

A proposito di viaggi, a De André il concittadino Cristoforo Colombo non è mai stato simpatico, tutt’altro. Per dire, il 12 ottobre del ’92, nel pieno delle celebrazioni per il cinquecentesimo anniversario della scoperta dell’America, si rifiutò di salire sul palco con Bob Dylan nel concerto genovese che ne santificava le imprese.
Se lo guardi dal punto di vista storico, Colombo è stato l’inizio della fine di tutte le civiltà autoctone dell’America. Era emissario di un impero, quello spagnolo, che ovunque sia andato ha lasciato terzo mondo, perché se ci pensi le ex colonie inglesi stanno dominando o domineranno il mondo, le ex colonie spagnole sono tuttora terzo mondo, questo perché la cultura spagnola era quella dell’arraffare, portare via e non lasciare niente, tra l’altro con questo uso vessatorio della religione, della croce, che veniva imposta e non proposta, erano i missionari con la spada. Questa cosa ad uno come Fabrizio non poteva piacere di certo, perché lui aveva questa grande passione per gli indiani, per le culture autoctone, quindi Cristoforo Colombo faceva parte dei nemici.

La tua carriera musicale è decollata giusto 50 anni fa, dopo il tuo arrivo a Milano nel ’68, come poi hai raccontato un po’ nel libro Foto di gruppo con chitarra del 2009.
La mia prima casa fu un appartamento di studenti, dove scoprii che il mio compagno di stanza era il capo del servizio d’ordine del movimento studentesco, per cui fui catapultato di colpo in prima fila. Contemporaneamente suonavo nei night club, quelli con lo striptease le entrainause, con un pubblico in parte di malavitosi, quindi vivevo questa doppia Milano. Quella era l’epoca dei Turatello e dei Saccà, la città era un’altra cosa, il centro città era pieno di prostitute, corso Europa pullulava, e noi musicisti frequentavamo tutti gli stessi posti, pensioni, locali. Poi con il primo disco che feci, subito primo in classifica, boom, cambiò tutto.

Stai finalmente preparando un tuo nuovo disco, puoi anticipare qualcosa?
Il titolo ancora non è deciso, dovrebbe uscire a maggio 2019, a circa 20 anni dal precedente. Sono peggio di Fabrizio, lui faceva un disco ogni 6 anni, io ogni 12. Per tanti anni, lavorando per altri, ho messo da parte brani miei, quasi dimenticandomeli. Alla fine mi sono deciso a scegliere i migliori e a metterli insieme. Quindi è come se mi accingessi a pubblicare un Greatest Hits di album mai usciti.

*Versione integrale dell’intervista realizzata per il programma di Sky “L’uomo della domenica” (puntata su Genova, disponibile on demand), che ne contiene alcuni passaggi.

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