In scena sotto teca, Baliani: “Un’occasione per dar vita a un nuovo teatro parsimonioso”

In Teatro

foto © LUCIO DIANA

“Potevamo ricominciare come sempre”, dice Marco Baliani “invece il teatro deve raccontare l’oggi” ad Ancona, quattro giovani attori si espongono sottovetro per raccontare una cosa che si chiamava teatro

foto © LUCIO DIANA

Una piazza, due teche di vetro. Quattro attori. Così ha scelto di tornare in scena Marche Teatro, ad Ancona, nella piazza antistante al Teatro delle Muse. Siamo chiamati alla distanza, abbiamo sperimentato la fallibilità? E allora ecco L’attore nella casa di cristallo. Quattro giovani e talentuosi interpreti, tutti marchigiani, vanno in scena due per volta, due repliche a sera, fino al 28 giugno, per farsi simbolo di quello che questi lunghi mesi hanno lasciato in dote e suggerimento per quel che sarà. A guidarli Marco Baliani, cui abbiamo posto qualche domanda sul significato di un interessante esperimento drammaturgico che da questo difficile periodo scova un’occasione di ripensarsi.


Qual è stata la genesi del progetto, e del tuo coinvolgimento?
Velia Papa me l’aveva proposta come una performance, mettere due attori in due teche, da ascoltare in cuffia. Da seguire in maniera quasi casuale, per qualche minuto per poi andarsene, con gli attori chiamati a proseguire in loop, ricominciare e ricominciare. Con le distanze di sicurezza però, questo non è possibile. Così abbiamo scelto di costruire una drammaturgia in cui immaginiamo attori in via d’estinzione, che non hanno più un rapporto col pubblico e sono rinchiusi in due scatole di cristallo come fossero allo zoo, dando modo agli spettatori di ricordarsi com’era una cosa che si chiamava teatro. Una evidente metafora della situazione attuale.

Gli attori interpretano “ciò che ricordano del loro antico mestiere: brandelli di testo, passi di danza, brani di canzoni, per non perdere la memoria”. L’attore si rappresenta non come creatore ma come prigioniero di una parte, condannato alla ripetizione, che cerca di non perdere almeno quello…

Condannato alla ripetizione, sì. L’ha inventata Beckett, L’ultimo nastro di Krapp è la coazione a ripetere dell’attore. Infatti loro sono dentro una partitura che io ho costruito. Sono quattro testi, ciascuno ruota intorno a un tema, e quello di Petra Valentini è proprio l’attore, l’attrice. Comincia toccandosi, ma la parete non rimanda l’immagine: lei non sa più chi è, e comincia a farsi domande. Chi siamo? Chi sono io? Come faccio a riflettermi, a riflettere? Sono monologhi molto spezzati in cui il teatro entra per frammenti e ricordi: Lady Macbeth, Elvira…

Ma dentro questo spazio, l’attore è prigioniero o sotto teca, come un oggetto prezioso? 

Si può intendere in entrambi i modi, coesistono. Lei dice di sentirsi come le farfalle quando puntate con gli spilli ma “almeno sono irrigidite nella formaldeide. Io invece sento ancora, come faccio a esprimermi? Ma è quello che tutti abbiamo sperimentato in quarantena, quando ci siamo abituati a ripetere gesti da ospedale o da crociera. Una routine che alcuni  ha salvato e altri ha dannato. Questi attori sono costretti in due metri per due, da cui non vedono gli spettatori, non sanno nemmeno se ci sono. Sanno solo che quando si accendono le luci sopra di loro iniziano a riattivare la memoria della loro coazione, però non sono nemmeno sicuri che sia questo. Giacomo Lilliù ad esempio si occupa del tema della fine, e comincia con gli inchini, certo di essere alla fine. E dalla fine il suo monologo si interroga sul come si arriva a un finale, sulla propria fine, sulla fine di Desdemona. Eleonora Greco, invece, che è una danzatrice, tenta di uscire dalla gabbia attraverso la memoria del corpo, che le permette di essere la più postiva anche dentro a un acquario Infatti si identifica con la medusa vista da bambina. Sono, questi, frammenti personali che mi hanno dato gli attori, memorie personali intorno a cui ho dato forma al testo. Michele Maccaroni invece si confronta con l’amore impotente, senza contatto, quello che non riesce a dare il bacio. Sono passaggi che ci riguardano. Si parla di respiro, di abbraccio, di carezza, di contatto, di saliva, di sudore, di tutto quel che è diventato pericoloso.

Un racconto di attori “in via di estinzione”. Quale avrebbe potuto essere il ruolo del teatro in quella fase e quale sarà ora?

Ho sempre pensato che il teatro si debba occupare della contemporaneità, anche quando va in scena la tragedia greca. Non attualizzare, ma essere compresenti, essere in presenza della contemporaneità. Il teatro deve tentare di raccontare sempre quel che stiamo vivendo, nei modi più diversi possibile. Abbiamo tentato di costruire una drammaturgia che ci riguarda. Avremmo potuto riaprire semplicemente contingentando gli accessi, ma mi sembra una soluzione povera. Il teatro – se vuole essere specchio in una società che non si rispecchia più perché ha paura di incontrare l’altro – deve occuparsi di oggi e provare a raccontarlo. Lo si può fare anche con Edipo re, non è detto che i contenuti debbano essere direttamente legati al momento. Ma il teatro è chiamato a trovare metafore, simboli potenti che ci raccontino. Io non credo si possa rifare il teatro di prima. Il teatro e la società sono cambiati. Si parla di normalità senza il coraggio di dire che la normalità non tornerà. Bisogna uscire dalla logica con cui siamo andati avanti fino ad ora, cominciare a pensare ecologicamente, in tutti i campi del sapere. Bisogna ragionare con e di parsimonia, su un teatro povero. Cinque attori saranno pericolosi, non ci potranno essere baci, abbracci, tutto il teatro ottocentesco e novecentesco, almeno per ora. La clausura e quello che è successo ci devono portare a un pensiero parsimonioso nei confronti del mondo.

Hai accettato il progetto, insomma, per costruire un nuovo teatro?

Sono riuscito a continuare una ricerca personale di postnarrazione. Un linguaggio che è dentro anche a questi quattro testi. Ho potuto continuare a lavorare sull’idea che l’attore non possiede più l’intera opera. Rifletto da tempo sull’attore senza più una storia da raccontare, senza più l’autorità per possedere una storia dall’inizio alla fine. Ora i quattro attori non hanno più una storia da raccontare, hanno dei lacerti. Dei frammenti. È tutto disperso, ma questa dispersione può essere molto interessante sul piano drammaturgico e simbolico. Se la viviamo come perdita e nostalgia del prima siamo spacciati.

Quale è o può essere il valore dell’assenza per questa narrazione? Sembri fare riferimento a qualcosa che che manca non come perdita ma come possibilità

Deve essere un motore propulsivo, l’assenza, non una situazione di catastrofe, apocalittica, da cui non c’è uscita. Altrimenti siamo solo vinti.

 In questo spettacolo l’attore è chiamato a farsi scegliere
Ti viene data una cuffia e hai due canali. Tu puoi scegliere quale seguire, ma hai solo mezzora di tempo. Se ascolti l’uno, il due non lo puoi sentire. Gli spettatori quindi vanno via sapendo di aver perso metà del racconto.

Ricorda l’Orestea di Ronconi andata in scena a Milano in piazza la notte dell’allunaggio, in cui ogni personaggio si muoveva su carrelli autonomi ed era lo spettatore a scegliere chi e come seguire. Qual è  Il valore di questo rapporto uno a uno? 
Esperimenti ne sono stati fatti tanti, e dentro questa performance c’è tutto quel teatro, sicuramente quell’esperienza ha a che fare con lo stesso principio: l’attore ha dentro un mondo, tu puoi decidere se ascoltarlo o meno, come una sorta di jukebox estremamente attivo. È il discorso sull’attore di Camus nel Mito di Sisifo: l’attore è l’essere più assurdo del mondo perché ha innumerevoli vite e le vive tutte senza essere nessuna. È questa sua dimensione specifica che prende ad esempio del concetto di assurdo nel suo senso più totale. È una possibilità di parcellizzare, di scegliere, che spiazza lo spettatore. C’è una dimensione performativa che ricorda Marina Abramovic, perché gli attori dentro le teche immaginiamo restino lì. Quando gli spettatori si allontanano lo vedono che gli interpreti restano dentro, quando la seconda recita comincia loro ricominciano e sono già lì, quando tutti se ne vanno loro rimangono lì. È naturalmente simbolico, ma il simbolo rimanda a una performance di vita. Sei davvero rinchiuso in quello spazio, in carne e ossa, sotto osservazione di chiunque passi. Può succedere anche che lo spettatore si metta a fare zapping, si faccia catturare da qualcosa che accade, o lo sguardo non segua quello che ascolta. 

Anche la modalità di costruzione e preparazione di questo testo è stata diversa?
Ho fatto le prove via Zoom, ciascuno dalla propria casa. Dal punto di vista registico è una novità, perché io sono abituato a lavorare fisicamente, coi corpi, col contatto, a suggerire mostrando. Un’esperienza più fredda, ma anche un esercizio di immersione totale. Il grado di concentrazione a cui il mezzo li costringeva ci ha permesso di costruire un testo di mezz’ora in una settimana, qualcosa di impossibile altrimenti. La mia vicinanza virtuale, occhi negli occhi, li costringeva a costruire la memoria, le rifrazioni dell’interpretazione sensoriale. Un lavoro che ha più a che fare con Strasberg e l’Actor Studio che col teatro, intorno alle microvariazioni dell’attore. Alzare una mano, provare a toccare immaginando una parete che non c’era….e che nel momento in cui è diventata tangibile ha permesso di creare ancora. Privazioni che hanno creato il loro essere privati.

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