Problema da Misantropo: più si ama qualcuno, meno lo si lusinga

In Teatro

Depuis 1666, ancora una volta un Molière capace di rievocare intimissime debolezze e autentiche ambiguità. Al Teatro Elfo Puccini, fino a domenica 25 marzo, andrà in scena Il Misantropo. Dopo Medico per forza, Dispetto d’amore e Le intellettuali, Monica Conti ci riprova, intrappolata con il suo pianoforte a lato del proscenio, con un adattamento e una regia da vedere

“Non fa per me chi ama tutto il genere umano”, pronuncia sentenzioso l’Alceste del diciassettesimo secolo. Chissà che cosa avrebbe detto oggi Jean-Baptiste Poquelin nel rivedere sulla scena la sua più nota commedia triste, quella de Il Misantropo, stavolta curato dalla regia di Monica Conti e recitato con le parole ben pesate della nota traduzione d’autore di Cesare Garboli.

Dopo tre secoli e mezzo di misantropia instillata nel teatro, la drammaturgia molieriana ora sopraggiunge in compagnia di una pasticca di purissimo odio, talmente amara da preoccupare con acutezza ogni strato sociale. Scritto nel 1666, cabala ed esoterismi satanici a parte, Il Misantropo è la celebre vicenda di un uomo che si scioglie come un cero acceso per autocommiserarsi. Dopotutto Alceste, argutamente interpretato in questa pièce da Roberto Trifirò, è un santo incompreso, un illuso che crede ancora nel sacro mistero della sincerità. Sincerità e verità però non sono mai facili, mai fonti di cosmiche purezze. Ed è per questa ragione che Molière decise di accoppiare il suo protagonista al contrappeso influente e bonario dell’amico Filinte (Davide Lorino), il primo ad aiutare l’Alceste-preda-del-mondo e l’ultimo a lasciarlo in pasto al suo solipsismo.

Tutti gli altri personaggi, come sappiamo, sono la farsa degli eccessi, il dagherrotipo di una società che è mutata per i pregi, ma non per i vizi. Un bravo Nicola Stravalaci interpreta Oronte, il cortigiano adulatore, la macchietta saccente che infastidisce e provoca, cimentandosi nella stesura di un sonetto artificioso, la critica spietata e sincera del protagonista. Flaminia Cuzzoli è la ventenne Celimène, la “nichelina” a due facce, che sparla boriosa per far piacere agli altri, e persino a noi, curiosi di origliare scoops e storielle macchiate di briosa superficialità.

La regia ha inoltre deciso di plasmare Eliante (Giuditta Mingucci), Arsinoè (Stefania Medri), Acaste (Stefano Braschi) e Clitandro (Antonio Giuseppe Peligra), sprezzando giustamente il buon senso e dando massimo risalto alle relazioni psico-sociali di una mandria malsana, che non riesce a rinsavire dalle isterie e che fa del proprio cuore la cambiale di una sprofondata solitudine.

Lo spazio scenico è semplicissimo, scuro come la bile del protagonista. Viene giocata – purtroppo ancora una volta – la carta delle panchine multiformi che si trasformano in tavoli, assi di legno, armi, scudi e chi più ne ha più ne metta… Il soppalco rialzato sul fondo è straniante, un luogo di danze frenetiche che simboleggiano le debolezze e i confini mentali interrotti dei personaggi, mentre calcano benissimo ogni angolo, superando frequentemente la quarta parete.

Non convincono appieno alcuni intermezzi “musicali”, e per quanto riguarda l’apporto fonico, i rumori distraggono fin troppo il pubblico che si ritrova sovente disorientato.

La processione di foglie sparse sul palco, a sancire il passaggio di scena tra luogo chiuso e luogo aperto, è una pantomima che tende a una ridondante meccanicità. Dalla fotografia singolare ed elegante, suoni a parte, la scena con i candelieri accesi regala al penultimo atto un momentaneo effetto radical-chic.

Piacevole all’occhio e all’orecchio, ma forse un po’ troppo invadente è la presenza a bordo scena di Monica Conti mentre strimpella saltuariamente qualche melodia al pianoforte; è difficile per un regista stare dietro le quinte, anche se qui tutto sommato la comparsa riesce abbastanza bene.

I costumi sono invece una purissima ode alla semplicità. Colori saturati e grigi, linee e forme nette, niente rotondità, se non quelle muscolari degli attori. La costumista Roberta Vacchetta convince per la scelta sobria e neutra. Un tocco di mesta limpidezza che contrasta con il nero della scenografia.

Uno spettacolo tratto da un testo eterno, biblico e potente. Per tutti coloro che non hanno ancora capito che a dire il vero si rimane soli e a mentire pure. Come consigliava Dorothy Parker, tanto vale vivere…

Foto tratte da www.elfo.org

Il Misantropo, fino a domenica 25 marzo al Teatro Elfo Puccini

(Visited 1 times, 1 visits today)