Il caudillo al potere e il poeta indeciso

In Cinema

“Lettera a Franco”, Il nuovo film di Alejandro Amenabar (“The Others”, “Mare dentro”) racconta la Guerra di Spagna a Salamanca. Dove nel 1936 è rettore il grande scrittore e filosofo Miguel de Unamuno, che dapprima sposa le ragioni degli insorti, guidati da Franco, visti come restauratori necessari dell’ordine. Solo alla fine giudicherà insopportabile il loro culto della violenza e della morte, di cui sono vittime anche alcuni suoi amici. E in un pubblico, tardivo discorso prenderà le distanze

Alejandro Amenábar, regista di Lettera a Franco, è nato a Santiago del Cile poco più di 50 anni fa. La madre, spagnola, aveva accompagnato anni prima in Sudamerica la sorella, il cui marito fuggiva dalla repressione del regime di Francisco Franco. Ma quasi subito gli è toccata in sorte anche un’altra fuga, stavolta all’indietro, verso la Spagna, per il pericolo di conseguenze sulla sua famiglia del colpo di stato, nel 1973, di Augusto Pinochet. Sta dunque probabilmente nella sua vicenda personale il primo seme di questo progetto, che arriva nelle sale italiane con tre anni di ritardo sull’uscita mondiale e il passaggio al Festival di Toronto. Però il racconto dell’insurrezione militare del 1936, vista qui da Salamanca, città dove il protagonista, il grande scrittore, filosofo e poeta Miguel de Unamuno (Karra Elejalde) era rettore dell’Università, benché sullo schermo metta in mostra il generale Franco (Santi Prego) e il suo braccio destro Josè-Millan Astray (Eduard Fernandez) non privilegia il tragico evento, che ha condizionato 40 anni di vita spagnola ed europea. Piuttosto è il ritratto di un grande indeciso, di un intellettuale che troppo tardi capisce, dopo molti tentennamenti e compromissioni nati anche per garantirsi un buon tenore di vita, il carattere reazionario e dittatoriale del governo che si andava consolidando e che via via, nel corso del film, porterà dal carcere fino alla morte molti dei suoi più cari amici. Fino a spingere Unamuno, nella scena madre conclusiva, a una esplicita requisitoria contro Franco e i suoi generali. I quali preferiranno comunque, vista la sua grande notorietà in patria e nel mondo, minimizzare la cosa limitandosi a licenziarlo dall’incarico accademico per confinarlo, nei pochi mesi di vita che gli resteranno da vivere, in una disperata ma pur sempre orgogliosa solitudine.

La storia della lunga dittatura è ancora un nervo molto scoperto nella società e nel cinema iberici (l’ha dimostrato con grandissima poesia il recente Madres Paralelas di Pedro Almodovar). E, com’è avvenuto con il fascismo in Italia, ancora non si sono probabilmente fatti i conti fino in fondo con la profondità, anche inconscia, delle idee che diedero vita e caratterizzarono quella triste stagione. La scelta di Amenabar è quella di far emergere tutto questo nella figura di un uomo simbolo, che dapprima sceglie di aderire alla fazione di chi promette di mettere ordine in una realtà che anche a lui pare confusa, caotica. E solo quando ormai non c’è modo di rimediare, si accorge e denuncia il male che sta in quella “cura”. Più che aderire al regime, nel film lo scrittore è disposto a patteggiare, con il caudillo e i suoi uomini, un ritorno alla normalità, ai veri valori spagnoli, e questo sembra rispondere più ai lati caratteriali della sua personalità che alle reali convinzioni politiche e filosofiche. E’ più il disperato bisogno di un settantenne che sogna la calma e lo studio nelle sue aule silenziose, e per questo è disposto a non porsi domande scomode.

Lettera a Franco è così anche la storia, probabilmente abbastanza vicina al vero, di una classe intellettuale non troppo coraggiosa e ancor meno disponibile verso quanto di nuovo il Novecento stava proponendo. E insieme di un individuo il cui ego lo porta a negare, per orgoglio, anche l’evidenza. “Io non voglio lasciarmi incasellare, perché io, Miguel de Unamuno, come ogni altro uomo che tende alla piena coscienza, costituisco una specie unica”. Così si rifugia nei valori del passato, forse nemmeno tutti così condivisi. Ma infine trova nel culto della violenza e della morte, tipici del franchismo, una linea di confine non valicabile. Una prospettiva umana e teorica inaccettabile. “Questo è il mio tempio!”, urla con rabbia tra le mura della “sua” università di fronte al gotha del nuovo regime destinato a vincere, e a governare a lungo. Ma non più con il suo consenso.

Sul piano storico Amenabar racconta un Franco più strategico e meno uomo d’azione della tradizione più diffusa. Impostando la guerra civile come un omaggio cristiano alle Crociate e alla Reconquista riesce a dare epicità alla sua “impresa”, benché non fosse poi neanche così cattolico, e questo lo aiuta nella conquista del potere. Con la stratagemma di una clausola istituzionale (sarebbe stato capo di stato finché fosse durata la guerra, e il film in originale si intitola infatti Mientras dure la guerra, Finché dura la guerra) che finì per restare in vigore, garantendogli la guida del Paese, fino al 1975, poco prima della sua morte. Accanto a lul spicca il generale José Millán-Astray, interpretato con forza da Eduard Fernández, che per questo ruolo ha vinto un Goya nel 2020 (il film ne ha avuti altri quattro per costumi, trucco, produzione e direzione artistica, con diciassette nomination in tutto).

L’intento popolare, a tratti didattico del film rimanda all’impronta americana del cinema recente di Amenábar, di cui si ricordano i notevoli The Others e Mare dentro, però rischia in generale di appiattire il discorso storico, e da questo punto di vista il film non pare del tutto riuscito. Anche perché molti profili psicologici restano in superficie, e lo spettatore rimane lontano dalle vicende dei personaggi, che scorrono davanti ai suoi occhi in una ricostruzione cui manca un po’ l’anima. Tutto questo nonostante la buona direzione degli attori e la sconsolata incertezza che Karra Elejalde dà al suo protagonista, il cui risveglio, la cui riscossa morale e politica conclusiva stride col precedente disegno del carattere. Per il pubblico è forse una liberazione, ma che può anche causare una buona dose di disorientamento. 

Lettera a Franco di Alejandro Amenábar con Karra Elejalde, Eduard Fernández, Santi Prego, Nathalia Poza, Fernando Valverde, Luis Bermejo, Patricia Lopez Arnaiz 

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