Glass, Riley e Reich: i Sentieri Selvaggi del minimalismo

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I tre giganti della musica contemporanea americana riletti dall’Ensemble diretto da Carlo Boccadoro. Steve Reich il 29 settembre alla Casa degli Artisti

FOTO © GIOVANNI DANIOTTI

Ricominciare da zero. Vale un po’ per tutti ultimamente, anche per Carlo Boccadoro e i suoi Sentieri selvaggi che in queste settimane alla Casa degli Artisti, sempre di martedì, conducono il pubblico in una full immersion di musica minimalista con il ciclo Extreme Minimalism: tre incontri sulla trinità Glass, Riley e Reich – il terzo, su Reich, sarà il 29 settembre alle 18:30 con replica alle 21:30. 

Non è un caso che, nel 1998, il progetto di Sentieri selvaggi sia partito proprio dal minimalismo americano, nel Teatro di Porta Romana che oggi non c’è più: una stagione cominciata con la prima mondiale di Proverb di Steve Reich, proseguita con A madrigal opera di Philip Glass e conclusa con il mitico In C di Terry Riley, sorta di manifesto del minimalismo americano, brano che fonde la statica dei bordoni – accompagnamento di una nota per l’intera durata del pezzo – alla dinamica dei suoi tape loop, con la cosiddetta “accumulazione di ritardo”. 

Ma torniamo al presente. La Casa degli Artisti ha qualcosa dei loft newyorkesi in cui negli anni sessanta si ascoltavano per la prima volta i lavori di Glass e Reich. Boccadoro tra un brano e l’altro spiega, racconta, coinvolge il pubblico, lo appassiona svelando curiosità biografiche dei compositori, le loro idiosincrasie, sempre con umorismo affettuoso. Ma soprattutto riesce nell’impresa di entrare nel dettaglio musicale facendosi capire dai non musicisti ma appagando al tempo stesso gli addetti ai lavori. 

Tra le rivoluzioni musicali del secolo scorso, il minimalismo è forse il movimento che ha prodotto più risultati, e che è stato più accettato, giungendo a esiti al limite del mainstream, da Dylan a Eno ai Radiohead, dalle colonne sonore di Michael Nyman alla musica d’atmosfera delle sale d’aspetto. In pratica si tratta di uno dei pochi cammini della musica contemporanea che abbia avuto un seguito, che non si sia trovato di fronte a un muro, riuscendo persino a comunicare con il pubblico. 

Tutto ebbe inizio a partire dagli anni sessanta, dalle esperienze del Theatre of Eternal Music di La Monte Young, che Terry Riley sentì rimanendo folgorato come di fronte “al sole che sorge sul Gange”. Alla prima del già citato In C, ad accompagnare Riley al piano elettrico c’era Steve Reich, che in seguito avrebbe mostrato la strada a un giovane compositore rientrato da Parigi dopo aver studiato con la mitica Nadia Boulanger, Philip Glass. I due divennero amici, Glass scrisse il suo Two pages for Steve Reich, poi naturalmente litigarono e il brano da quel momento si chiamò solo Two pages.

Questo in estrema sintesi. Ma quando era ancora lontano il successo planetario del minimalismo, che prima che uno stile è una filosofia, un modo di percepire il suono, il tempo e il mondo, qualche dolore c’è stato: non basta usare la tonalità per essere ben accolti. Lo sa bene Reich, che scatenò uno scandalo degno del Sacre di Stravinsky quando il suo Four Organs fu eseguito nel 1973. Boccadoro su questo punto è illuminante. “Il minimalismo nasce come avanguardia estrema”, diceva al pubblico l’altra sera al concerto su Glass. Difficile da credere oggi, se si pensa ai prestiti della musica new age, alla musica d’atmosfera, ai Cacciapaglia, Allevi o peggio. Al contrario non è difficile accorgersi che c’è qualcosa di crudele nella concezione di questi brani, forse persino qualcosa di sadico, anche se non vorremmo mai dare ragione alla signora che poco meno di cinquant’anni fa prese a scarpate il palco della Carnegie Hall per interrompere l’esecuzione di Four Organs.

Il senso di questi concerti di Sentieri selvaggi è quasi filologico: un ritorno alla fonte pura del minimalismo, per trasmettere l’arditezza di questi lavori, anche grazie alle rarissime tastiere dal suono irregolare e instabile messe a disposizione da Giovanni Mancuso, collezionista di strumenti di quegli anni, oggi introvabili. “Erano strumenti economici che non avevano niente di sofisticato, impossibili da bilanciare” spiega Boccadoro a proposito delle tastiere che Glass usava prima di Einstein on the Beach, quindi prima che diventasse uno dei compositori più famosi di tutti i tempi. 

Dopo più di un’ora di brani di Glass o di Riley, si capisce cosa Brian Eno intendesse quando diceva che la ripetizione è una forma di cambiamento. Il minimalismo sembra lavorare in analogia con la natura più intima del suono, con la sua struttura ondulatoria, periodica, sinusoidale. Ma non si tratta solo di calcolo matematico, a dispetto dei nomi delle differenti tecniche dei tre compositori. Gli sfasamenti di Reich, l’additività di Glass, i loop di Riley hanno a che fare con la visione dei paesaggi americani infiniti, con gli echi di un treno alla deriva tra le vallate che si danno il cambio da costa a costa. È la dilatazione spaziale che suggerisce quella temporale, e nelle interminabili ripetizioni che non conoscono sviluppo, senza inizio e senza fine, chiunque cade in uno stato di trance in cui diventa sensibile al minimo cambiamento. Qualsiasi novità apparentemente insignificante viene percepita come una rivoluzione, come un colpo di scena irresistibile. Così i concetti di rapidità e lentezza, di sorpresa e noia, di ricerca e contemplazione, sembrano improvvisamente coincidere in un gioco spaziotemporale raffinatissimo. Come scrive Alex Ross, “un procedimento freddo e distaccato assume furtivamente un aspetto di intensa emotività”. 

Foto © Giovanni Daniotti

Tutti gli esecutori, da Andrea Rebaudengo a Paola Fre, da Piercarlo Sacco a Mirco Ghirardini, da Aya Shimura a Elena Favilla e tanti altri, sanno riempire questa musica di passione e di vita, a dispetto dei suoi implacabili meccanismi. I programmi presentano soprattutto brani degli anni sessanta, quindi della fase più intransigente del minimalismo, quando i compositori stessi intendevano ripartire dagli elementi più semplici e meccanici, in cerca di uno zero kelvin del suono. Ma alternati a questi ci sono lavori di circa vent’anni dopo, che mostrano l’evoluzione nascosta in quei procedimenti, a cui non manca una vena persino romantica.

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