Nel regno della madre: una lettura femminista

In Weekend

La mostra di Palazzo Reale emoziona e interroga: troppo poco spazio alle lotte e al pensiero delle donne sull’ambivalenza della maternità

Antefatto

Arrivo in bici a Palazzo Reale, impaziente di vedere la mostra La Grande Madre di cui Cultweek ha già parlato qui : mi sono messa persino il rossetto più rosso che ho, la mia pittura di guerra per presentarmi più bella e più forte al cospetto di quelle opere d’arte. Cammino sui ciottoli e alzo gli occhi: sventola lo stendardo della mostra che riporta una delle celebri foto di feti di Nilsson. Mi blocco: mi colpisce forte l’idea che il soggetto di questa “grande madre” sia un feto, un ribaltamento di prospettiva rispetto a quello che mi aspettavo. Proseguo, decisa a non farmi influenzare, e vengo fermata da un usciere: «Dove va?» «A La grande madre» «Sola?», mi chiede con aria stupita. Lo stesso stupore lo ritrovo alla cassa: «Vorrei un biglietto» «Uno? È sola?».

E sola mi incammino nel regno della madre.

La maternità è sempre stata, soprattutto nelle riflessioni femministe, un’importante cartina di tornasole per analizzare i rapporti di potere e di esclusione, per mostrare stereotipi e svelare immaginari. La maternità è stata tematizzata in maniera ambivalente, sempre in bilico tra il senso di potere che riusciva ad offrire e l’idea che da essa dipendesse il ruolo subordinato delle donne, condannate ad un legame di cura e dipendenza con i figli.  Mary Wollstonecraft sottolineava le contraddizioni di una società che ritiene le donne inferiori e deboli e le priva dell’educazione e della cittadinanza, ma allo stesso tempo permette loro di educare i figli, compito tra i più nobili e i più utili: proprio da questo paradosso inizia la storia politica delle donne. Questo doppio carattere della maternità, di catena e potenza, è il terreno privilegiato di un potere biopolitico continuamente sospeso tra istinto e educazione, natura e tecnica. Massimiliano Gioni, presentando la mostra, ha parlato molto di potere – quello “creativo delle donne” e quello di “Stati, padri e padroni” sulle donne – immaginandolo come un filo che lega tutte le opere.

Gioni, che la mostra l’ha curata, sembra dirci, come il Mefistofele del Faust, che non c’è una strada tracciata per raggiungere le Madri e, infatti, le 29 sale si susseguono quasi come fossero una cartografia, come se le opere degli e delle artiste fossero un paesaggio da percorrere seguendo la brochure che descrive ciò che si ha davanti senza indicare sentieri. A differenza che in Goethe però, dove troviamo le Madri – plurali e plurivoche, la mostra è  invece dedicata a La Madre – singolare e astratta – quasi a mitigare quel senso di vertigine che potrebbe prendere di fronte alle molte, e spesso contraddittorie, immagini offerte.

Parlare de La Madre mitiga anche il gesto di dare spazio a immagini non rassicuranti della maternità, che hanno abitato e abitano l’arte del ‘900, ma che forse hanno avuto minore diffusione in Italia, luogo ancora molto legato alle retoriche del materno. In questo senso la mostra ha il grande pregio di mostrare opere di artiste che in Italia si sono viste poco (da Judy Chicago a Sherrie Levine, passando per Rineke Dijkstra e Ida Applebroog per citarne alcune) ma che, inserite in questo percorso, rischiano di essere fagocitate ancora una volta dalla retorica della Madre, riportandoci sempre e di nuovo a quelle sale dove Freud analizza i legami edipici. Accanto ad alcune immagini di grande autodeterminazione, come Interior Scroll di Carolee Schneemann, che riproduce una performance in cui l’artista estrae una pergamena dalla vagina, si trovano esempi della pervasività dello sguardo maschile sulle donne e la gravidanza. Una delle immagini più forti della mostra è, forse, Hanging Birth di Nicole Eisenman in cui si vede, dipinta in stile rinascimentale, una donna che partorisce pur essendo impiccata ad un albero, mentre intorno diverse figure maschili la scrutano. Questo sguardo maschile emerge in tutta la sua forza anche nelle fotografie del 1965 di Nilsson, che ritraggono un feto di 18 settimane come se fluttuasse nel cosmo, senza alcun riferimento al corpo della donna. Nella stessa sala, quasi in un gioco di specchi, si trova anche Beverly Edmier di Keith Edmier: un scultura in resina e silicone rosa che ritrae la madre dell’artista intenta ad osservare il feto che porta in grembo attraverso il suo ventre traslucido.

Il percorso  parte dalle avanguardie e arriva fino alla contemporaneità con l’obiettivo, come si legge nella presentazione, di ricostruire una “narrazione trasversale del ventesimo secolo, esplorando i miti e i cliché del femminile, e dando vita a una complessa riflessione sulla figura della donna come soggetto e – non più solo – come oggetto della rappresentazione”. E questo è ciò che più stride della mostra: davvero per riflettere sulla figura della donna come soggetto non possiamo che mettere in scena La Madre?

La sala dedicata al femminismo sembra porre proprio questo quesito, ma quasi scompare in mezzo ai 127 tra artisti e artiste che compongono la mostra, alle opere che, a volte, riguardano semplicemente le donne e agli eventi collaterali, come la performance su Instagram che chiede alla mamme di farsi fotografare in mostra mentre insegnano a camminare ai propri figli (maschi). E, mi viene da aggiungere: il femminismo può essere ridotto ad una sala e un decennio? Certo, la mostra ha l’obiettivo di mettere in luce i cambiamenti nel rapportarsi al genere e alla sessualità, ma l’impianto rischia di farli sembrare i risultati di un’evoluzione naturale e non di lotte e teorie che si sono incarnate nelle vite e nelle opere d’arte. In qualche modo, nella complessità della mostra, le opere che aprono degli squarci sui vissuti delle donne e sulle ambivalenze della maternità sembrano la manifestazione di uno spirito del tempo che ha abitato il secolo scorso e non il sintomo dei movimenti politici e delle prese di coscienza che dalla fine del ’700 hanno scosso la scena pubblica.

Nelle sale dedicate alle avanguardie, dove è difficile orientarsi anche perché le opere un po’ si perdono tra gli stucchi e gli arazzi di Palazzo Reale, tra Dalì e le macchine di Picabia, compare Violette Nozières, 18 tanto emancipata da vivere da sola e lavorare in ufficio che avvelenò i genitori dichiarando di averlo fatto perché il padre la violentava da quando aveva 12 anni. A lei i surrealisti dedicarono disegni e poesie e la brochure riporta i versi di Paul Éluard: “Violette ha sognato di disfare/ E ha disfatto / L’orrendo nodo di serpi dei legami di sangue”.

Uscendo dalla mostra, densa e a tratti emozionante, e rivedendo il feto sulla facciata, non posso non pensare che La Grande Madre non disfa questo nodo di serpi, ma forse perché, nonostante il femminismo, ne siamo ancora strette.

Immagine di copertina: Marco De Scalzi. Courtesy Fondazione Nicola Trussardi, Milano

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