Gergiev gioca col magnetismo alchemico della Dama di picche

In Musica

Da stasera alla Scala l’opera più misteriosa e seduttiva di Čajkovskij. Il capolavoro, tratto da un racconto di Puskin, più che dell’ossessione per il gioco parla del destino come potenza ingovernabile. E il grande direttore russo, sul podio a dirigere un autore assolutamente “suo”, sa come aggiungere magia a magia

Un altro tocco di magia si allunga su La dama di picche, opera che da sola fibrilla di mistero: Valery Gergiev si è davvero sciolto dal Covid che lo ha tenuto lontano dalle prove di uno degli spettacoli che nessuno spettatore della Scala con sani principi estetici e vitale passione sarebbe disposto a perdere. Fugando ogni dubbio, Gergiev sale stasera sul podio del capolavoro di Čajkovskij, autore assolutamente “suo”, promettendo di dirigerne le cinque recite.

L’orchestra ha finora lavorato con un fido assistente, Timur Zangiev (ventisette anni), di cui si dicono grandi cose. Arrivare al debutto di una produzione uno o due giorni prima non è insolito per Gergiev. E questo aggiunge magia alla magia di questo direttore che, con un gesto davvero minimo, una matita in mano, a volte nemmeno quella, ci costringe a contemplare il mistero che avvolge la trasmissione del pensiero dal direttore all’orchestra. In che modo Gergiev riesca a far lievitare e poi deflagrare la musica in qualunque condizione e con qualsiasi complesso lavori, è qualcosa che si consegna ai segreti di un magnetismo alchemico da cui Píkovaja Dáma – la Donna di picche, meglio che la Dama – è attraversata.  Quel che da stasera si ascolterà sotto le sue dita e nel lampo dei suoi occhi potrebbe, dovrebbe, ripetere il miracolo di Čhovanščina (anno 2019), forse accrescerlo.  Disgraziatamente nei giorni in cui, per impulso di Vladimir Putin, che di Gergiev è grande sostenitore, l’Europa rischia quello che in settant’anni sembrava un incubo esorcizzato. 

L’opera
Alla sensibilità del nostro tempo i libretti d’opera sembrano spesso materia retorica e inerte. La Dama di picche non corre il rischio. Già prima di essere santificata dalla musica di Čajkovskij, Píkovaja Dáma è una modernissima novella di Puškin (1834) e un soggetto di pura suspence che conquista come la sceneggiatura di uno di quei film, girati da sconosciuti o debuttanti, che Alfred Hitchcock teneva sotto il suo cappello in una celebre serie (in questi giorni su TopCrime) scandita da una musichetta contagiosa che pochi forse sanno essere un pezzo da intenditori: la Marcia funebre per una marionetta di Gounod, anno 1872.

“Tre carte. Tre carte. Tre carte”: il destino di Hermann, tenore, protagonista di Píkovaja Dáma, risuona nei tre rintocchi di due parole che attraversano come un’ossessione i tre atti della terza opera tratta da Puskin, dopo Onegin e Mazepa, decima e penultima scritta da Čajkovskij nel 1890, tre anni prima di morire. (Molti 3 dentro e fuori questa storia). 

Hermann è dominato da un’idea fissa: carpire alla vecchia Contessa (mezzosoprano), ieri “Venere moscovita” in Francia, oggi “acida strega” a San Pietroburgo, quel che forse un patto con il diavolo le aveva consegnato in un letto di Parigi: il segreto delle tre carte che fanno saltare il banco e consegnano a chi le gioca la vincita dei sogni e una nuova vita, forse. Quello cerca Hermann, ufficiale del Genio, erede di una piccola fortuna, straniero (il suo nome è German, tedesco) e “povero” nella Russia dei ricchi nobili con cui condivide feste e salotti: un riscatto sociale.  Hermann s’innamora di Liza, che in Puškin è povera quanto lui, “badante” della Contessa, e in Čaikovskij è invece la ricca nipote dalla quale pensa di non avere chances di essere ricambiato (“Liza è nobile, non potrà mai essere mia”). Lei invece, promessa a un principe eroticamente molto simile al Don Ottavio di Mozart, lo ricambia e lo ama, condividendo per diversi motivi e in momenti diversi lo stesso destino: morire suicida. 

Najmiddin Mavlyanov (Hermann) e Asmik Grigorian (Liza). Foto Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala

Liza si annega disperata nelle acque della Neva, quando in un incontro notturno scopre che Hermann la desidera solo per avere da lei la chiave della stanza della Contessa ed estorcerle, pistola alla mano, il segreto delle tre carte ricevuto in giovinezza dall’amante, conte di Saint-Germain, alchimista, misterioso uomo di vasta cultura e sinistri poteri.  Hermann si toglie la vita alla fine dell’opera, al tavolo da gioco, quando dopo il tre e il sette si troverà misteriosamente in mano, invece che l’asso, una Donna di picche, carta “nera” per definizione, e con quella la condanna a perdere tutto:  la partita, l’amore, la vita.  

La Dama di picche è anche un’opera di contraddizioni. Hermann non è un giocatore; non è consumato dalla febbre di Aleksej Ivanovic, che Dostoevskij aveva immaginato, narrando anche di sé, nel Giocatore (1866): 33 anni dopo che la Donna di Puskin era diventata di “gran moda”. (Quanti Tre). 

Hermann è prudente, non tocca il capitale e nemmeno gli interessi, non gioca perché teme il gioco: “non posso permettermi di sacrificare il necessario per rischiare il superfluo”. Parole che leggiamo in Puškin, dalla cui novella molto proviene e molto si distacca il libretto di Modest Čajkosvkij, fratello di Pëtr Il’ič.  L’ossessione delle tre carte è l’illusione di cambiare il corso della vita con uno schioccare di dita. Malattia attualissima.

La Dama di picche di Čajkosvkij non è un’opera sul gioco ma sul destino come potenza ingovernabile. Il Fato era del resto la vera ossessione di Čajkosvkij che, incline alla melanconia e alla depressione, lo demonizzava come “forza nefasta che impedisce il nostro slancio verso la felicità”. Molte sinistre attrazioni ci muovono verso quest’opera.

Lo spettacolo
“Vengo dal teatro di prosa – dice Matthias Hartmann, regista del nuovo spettacolo della Scala -, perciò non uso imporre un prodotto dall’alto: lo costruisco insieme agli attori, ai cantanti con cui mi trovo ogni volta a lavorare”. E nel cast, tutto di madrelingua russa, Hartmann ha la fortuna di avere in Asmik Grigorian non la “rivoluzionaria ragazza punk” che si aspettava, ma un soprano di vocalità strepitosa e una donna di intelligenza non solo scenica rara, oltre che bellissima. “Con lei ci siamo confrontati di continuo, anche durante le pause. Asmik, oltre che essere capace di saltare su un tavolo senza neanche prendere lo slancio, è dotata di un senso dello humour straordinario, che appiana le difficoltà e fa sembrare tutto naturale. Anche quando i punti di vista divergono e pensi di non avere idee, la soluzione arriva sempre perché lo scopo è comune. Le idee si costruiscono o si decostruiscono insieme a tutti”. Pragmatismo che promette bene per la drammaturgia di uno spettacolo in cui Hartmann si avvale di Volker Hintermeier per le scene, Malte Lübben per i costumi, Matthias Märker per le luci, Paul Blackman per le coreografie (necessarie nella scena della festa in cui i due Čajkosvkij, Modest e Pëtr, aggiungono perfino la visita della zarina Caterina, tra citazioni settecentesche in cui non poteva mancare Mozart).

“Tutto ciò non impedisce che ci sia un’idea, un concetto” – avverte Hartmann. E al progetto di questa Dama dà un tocco decisivo l’aver dato al personaggio della Contessa un rilievo che in genere non ha, diverso dal profilo geriatrico e assente. “In genere questo ruolo viene affidato a cantanti in fine carriera. Con Julia Gertseva mi sono trovato davanti non solo una grande cantante ma anche una donna bellissima. Avrei potuto lavorare con il trucco, riempirla di rughe. Ho scelto invece di descrivere la Contessa come una donna che vive nel sogno della sua bellezza passata”. 

Julia Gertseva (la Contessa) e Najmiddin Mavlyanov (Hermann). Foto Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala

Non basta: in scena prenderà corpo anche il Conte di Saint-Germain, che nel racconto e nel libretto è solo citato come il mago che, per una notte d’amore, regala alla Contessa il segreto delle tre carte e le restituisce il patrimonio perduto al gioco. “L’abbiamo portato in palcoscenico – rivela Hartmann -, perché aiuta a risolvere diversi problemi del libretto”. 

Visivamente lo spettacolo, annunciato in bianco e nero, promette anche di mettere il pubblico in una dimensione “attiva”. Le scene sono la combinazione di “otto colonne a sezione triangolare, in cui la combinazione di diversi elementi a specchio lasciano il pubblico libero di immaginare”.

Perfino la disposizione d’animo dei tre protagonisti evoca forze vitali e un tantino occulte. Il giovane e prestante Najmiddin Mavlyanov debutta alla Scala come Hermann girando incantato gli occhi su decori, soffitti e lampadari di un teatro visto solo nei libri e sognato nella piccola Samarcanda in cui è nato (Uzbekistan). Asmik Grigorian si commuove al pensiero che i suoi genitori si siano conosciuti proprio all’Accademia della Scala e, se non fosse successo, lei forse nemmeno ci sarebbe. Julia Gertseva, l’unica del cast a esprimersi in un raffinato italiano “di pensiero”, ricorda che quando prendeva l’autobus per andare a studiare canto, a San Pietroburgo, lungo la Prospettiva Nevskij passava davanti al palazzo in cui viveva la dama che diventò modello per il personaggio della Contessa, e che davanti a quella casa morì Čajkosvkij. 

Non è fantasia: la Dama di picche ha sempre avuto la forza di addensare simboli, inquietudini e premonizioni di cui l’anima slava si nutre e in cui si riconosce da sempre. E questa è la Russia che amiamo, non quella che in questi giorni recita una pessima e già vista commedia tragica sul palcoscenico del mondo.

Teatro alla Scala Pëtr Il’ič Čajkovskij La dama di picche. Direttore Valery Gergiev, regia di Matthias Hartmann (23 febbraio; repliche: 5, 8, 13, 15 marzo)

Foto di copertina: Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala

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