L’eterno ritorno alle falde del ghiacciaio. Gabriele Romagnoli, “Sogno bianco”

In Letteratura

Vedere con gli occhi la fine di un luogo, mentre intorno ci si uccide di guerra, o di sfruttamento economico, o di incapacità di conservare ciò che ha valore – e che, una volta perduto, è perduto per sempre. Il nuovo romanzo di Gabriele Romagnoli attraversa cento anni e della montagna fa un racconto anti epico e per nulla banale: la frontiera di una bellezza ultima che, proprio per la sua lontananza, è esposta all’aggressione e allo stravolgimento. Tra la prima guerra mondiale, il boom economico, il progetto ambiziosissimo di una funivia in alta quota, un papa sciatore, si disegnano le coordinate di un domani nel quale il vuoto si fa feroce: un “Sogno bianco”.

Circolare, come un ritorno eterno.
In tre movimenti (e un prologo, che ne anticipa la direzione e chiude il cerchio), un’anima attraversa tre epoche: è sempre Andrea, prima soldato durante la Grande Guerra, poi inquieto spirito solitario che dai margini vive il boom economico (e lo sboom della politica e dell’etica), infine donna in un futuro prossimo che inventa nuove forme di resistenza e di ribellione. Una creatura sensuale ed androgina, enigmatica e inquieta, come l’Orlando di Virginia Woolf, quando, nella sua trasposizione cinematografica, guarda direttamente in camera, e interpella ognuno degli occhi che assistono, dall’altra parte, alla sua storia, costringendo a divenirne parte.

È il romanzo di un ghiacciaio quello che Gabriele Romagnoli decide di raccontare nel suo ultimo libro, Sogno bianco (pubblicato da Rizzoli): la narrazione di un rapporto perennemente sbilanciato tra uomo ed elemento naturale che porta avanti, insieme, una riflessione sul tempo che ridimensiona ogni prospettiva, di imperio.

Calchiamo sulla terra le ombre di quelli che sono passati prima di noi, scriveva Thomas Mann in Giuseppe e i suoi fratelli, e così accade per il ritorno ciclico dell’anima di Andrea Darman, incarnata nei suoi inconsapevoli discendenti, sistematicamente orbati della conoscenza dei propri padri, le cui teste il ghiacciaio continua a occupare, sempre.

Se solo ti fermavi un attimo a guardarla, la montagna ti catturava e vinceva la sua guerra. Il ghiacciaio era la sua arma più potente. Gli uomini dovevano, da qualunque posizione, abbassare gli occhi, schermarsi contro il riflesso, sudditi di quel regno fuori dal tempo. La divinità è luce, nient’altro. L’umanità è materia, è accumulazione o scarto, presenza e deterioramento. La luce sfugge. Quando non c’è più è solo perché è andata altrove. Il ghiacciaio illuminava la terra di giorno e il cielo di notte. Il biancore è soltanto una prima impressione, se lo guardavi a lungo vedevi scintille di giallo, lame di verde e, ovviamente, l’azzurro con i suoi contorni, ma contorni di cosa? Non era possibile definire dove finiva, non era un’epoca, databile, non una regione, confinabile. Se aveva misure le negava allo sguardo ravvicinato: ci si poteva soltanto perdere. Vinceva lui.

Confine di guerra, teatro di sangue, luogo di tregua, strumento di pena, oggetto di conquista, terra fragile e tremenda, dimostrazione di aggressione alla natura, simbolo di resistenza: la Marmolada – cui il ghiacciaio M si ispira – è un ultimo angolo di mondo. Imperscrutabile, terribile e bellissimo.
Nel 1917, in questo non-luogo finale ed estremo, gruppi di uomini si fronteggiano nel nome di una guerra che si prende il loro tempo e i loro corpi, mangia il loro futuro, impone dolori inimmaginabili e separazioni crudeli: una violazione dalla doppia valenza, su un confine che è, nella pratica quotidiana del conflitto, sempre più nome e sempre meno significato, fino a divorare le vite dei singoli, stravolti dall’esperienza diretta del male inventato dall’uomo.

Sono, le truppe stanziate in quell’ultimo angolo di mondo, la rappresentazione di una Italia che si riconosce tra distanti: ragazzi che non hanno mai visto la neve, giovani che non hanno mai conosciuto l’amore di una famiglia, cervelli convinti di trovare una identità combattendo.
Tornare indietro è semplicemente impossibile, e a mano a mano che le loro vite si intrecciano emerge insieme alla loro consapevolezza del presente anche quello che è uno dei temi forti di questo romanzo: il peccato (im)mortale dello spreco – del tempo, della natura, della felicità.

Avevamo tutto. E non lo sapevamo. La storia della nostra vita. Di qualunque vita, fermata nel momento prima della caduta. Qualunque cosa si avesse, era tutto perché era sufficiente. E sufficiente è tutto.

Il ghiacciaio che si prende la vita di Andrea Darman consente a suo nipote di sopravvivere grazie alle scorie belliche rilasciate nel suo ritirarsi: sono gli anni Ottanta, la guerra è qualcosa che si scrive al passato nei libri di scuola, quella terra tanto contesa è diventata ciò che è sempre stata, periferia di periferia. E scalpita per agganciare il turismo, il progresso, la modernità.

Un altro Andrea, spirito solitario e ribelle, calpesta gli stessi sentieri del nonno mai conosciuto: la sua casa è un rifugio in alta quota, pieno dei cimeli raccolti da suo padre, nato già orfano del proprio, che, quando era ancora un bambino, li rivendeva a studiosi e turisti.
Sulla montagna il nuovo Andrea Darman ha fatto tutta la sua vita: conserva la memoria del tempo accompagnando sui sentieri della Grande Guerra turisti in cerca di qualche brivido esotico o macabro, si è fuggevolmente innamorato, e nel frattempo prova a venire a patti con il nuovo assedio combattuto sui fianchi del massiccio questa volta non con armi, ma a colpi di soldi.
Gli assalti sono ciclici, e la fame di popolarità, di contemporaneità – in mancanza di visione a lungo termine, e di capacità di pensieri complessi della comunità tutta – spinge chi in quei luoghi abita a svendere tutto al miglior offerente: pure i papi, quando dalla montagna partono per insediarsi sul trono di Pietro, o quando alla montagna salgono in tuta da sci, diventano affare.

Ed è ancora una questione di confini e divisioni tra genti a mettere in moto la sfida cruciale; la costruzione di una nuova funivia diventa strumento di conquista e di affermazione, ma sarà anche l’ennesimo avviso inascoltato: non si incide una ferita sulla terra senza che qualcosa non torni indietro.

Gabriele Romagnoli passeggia nel tempo e intreccia una storia di eredità etiche ed emotive: tre piani temporali (e due intervalli) uniscono la passione di Andrea Darman, soldato sul fronte alpino nella grande guerra, all’atto devozionale della sua ultima discendente, che porta il suo stesso nome, il cui fronte di battaglia è invisibile e pervasivo, ed è quello della difesa dell’ambiente. Perché il ghiacciaio, non scalfito dalla guerra tra uomini, si ammala e nel frattempo soccombe nel più feroce, cieco e cinico conflitto dentro cui l’umanità spavaldamente cammina: quello che, nell’incuria e nel cinismo dell’immediato sfruttamento economico, si accanisce contro il mondo che è dato – cioè, in ultima analisi, contro sé stesso.

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