La scuola, com’è. E come non ve l’hanno mai raccontata.

In Letteratura, Weekend

Fuori dagli stereotipi, tre voci della narrativa italiana – che nella scuola lavorano e hanno lavorato – raccontano la vita, gli errori, la quotidiana resistenza, le mancanze, la necessaria riprogettazione di un immaginario fuori dalle pose ottocentesche e dalle sciatterie di tanta narrazione decostruttiva. Suona la prima campanella dell’anno: è tempo di ragionare. E poiché le novità editoriali sul tema sono tiepide, ecco tre titoli sul presente nostro prossimo: da tenersi per bene sotto gli occhi, sul cuore, e nel cervello.

Edoardo Albinati, Uscire dal mondo (Rizzoli)

L’umanità non è mai un atto neutrale. L’umanità non può peccare di ingenuità.
Edoardo Albinati torna nei luoghi raccontati nel suo potente romanzo Maggio selvaggio: è di nuovo il carcere la dimensione estrema nella quale la scuola (e i legami che la scuola inevitabilmente porta con sé) si fa corridoio del possibile cambiamento, a proprio rischio, e a volte innescando stravolgimenti micidiali.


C’è, da una parte, l’apparire statico di chi è in restrizione, che non può che presentare agli occhi di altre vite congelate nella medesima condizione della carcerazione sempre la medesima maschera: 

“Ragazzo A percorre i sentieri dall’inferno al cielo all’inferno, fa avanti e indietro cento volte al giorno, e questo lo sfinisce. Non è difficile prevedere che prima o poi, in uno dei due posti, ci rimarrà. Probabile sia l’inferno. Lo frequenta da quando aveva dodici anni. È il destino di chi cresce da sé, e pur di sopravvivere diventa capace di superare qualsiasi prova, e si acquatta fingendo di sonnecchiare con un occhio mezzo aperto, e appena può ruba da mangiare, impara a far ridere i superiori, schiavizza gli inermi, e sputa e inganna e fugge, attraversando come una salamandra il fuoco e il gelo.
Indenne? Non proprio”.

E poi, dall’altra, c’è chi – come accade agli insegnanti che lavorano nelle carceri – vive nell’intercapedine tra ciò che è (fermissimamente) dentro e ciò che (continuativamente) evolve fuori.

In questa condizione si trova la prof di Matematica – una che in carcere ha fatto tutta la sua vita di insegnante, che ha imparato a camminare dentro l’inevitabile ruvidità della galera senza perdere la capacità di comprensione, che finisce periodicamente preda di perenni interrogazioni sul senso del suo mestiere. E che, proprio in virtù di tutto questo, ha appreso (cosa fondamentale e pericolosissima) la più necessaria competenza professionale che il suo ruolo le richiede:

“la vista speciale che hanno acquisito coloro che lavorano abitualmente con gente rovinata: una vista retrospettiva, o quintessenziale, capace di estrarre viva e splendente la figura originaria da rottami umani. In altri tempi si sarebbe detta l’anima. Com’era una volta, come doveva essere stata, prima che…”

Come di consueto, Edoardo Albinati (che nel carcere di Rebibbia lavora come insegnante da molti anni) è maestro nell’arte di far convivere crudezza e attenzione, empatia e ambiguità, riuscendo sempre a preservare i suoi personaggi dal pietismo, mentre costringe il lettore a compromettersi.

Il linguaggio all’osso, tecnico e brutale della galera (scopino, perquisa, ministeriale), fa da quinta alla vicenda del primo lungo racconto della raccolta Uscire dal mondo: una storia scolastica esemplare dagli esiti, per nulla scolastici, imperdonabili.
In sottofondo l’esclusione come tema con variazioni, per impercettibili spostamenti: il confinamento, la restrizione, la solitudine, la malattia, lo svantaggio sociale – filo invisibile tirato lungo ognuno dei racconti che compongono questo libro.

Mariapia Veladiano, Oggi c’è scuola (Solferino)

Ecco un libro che si prende la briga di fare un discorso impopolare – e che, proprio per questo, dovrebbe essere lettura obbligata per tutti quei cervelli che di scuola e sulla scuola decidono. Perché ci vogliono una visione, una capacità di contesto, un tempo di valutazione, un imprescindibile senso di realtà per ragionare dell’istituzione che disegna il destino di una società: soprattutto (e in questo sta la forza mite e rivoluzionaria di questo breve saggio) quando si parte da una idea costruttiva, come quella che Oggi c’è scuola si propone di disegnare.

Bisogna innanzitutto mettere in chiaro cosa non è questo saggio di Mariapia Veladiano, che a scuola ha lavorato come insegnante prima e come Preside poi: prima di tutto, non si tratta del libro teorico di una persona che della scuola scrive senza esserne stata parte integrante (e questo, anche se pare paradossale, è un punto di vista eccezionale tra i titoli che al mondo scolastico vengono dedicati in Italia); in secondo luogo, questo è un libro che non accetta riduzioni: si parla di un sistema di valori alto, come deve (dovrebbe) essere per porre le basi del benessere sociale:

Andare a scuola è un passaggio di libertà e insieme di uguaglianza. Una conquista. La scuola è uno spazio reale e simbolico. Rappresenta l’impegno dello Stato per l’uguaglianza dei cittadini.

Le parole di riferimento che Mariapia Veladiano rivendica sono, proprio per questo, volutamente molto impegnative: uguaglianza, partecipazione, libertà, bene comune.

La scuola è il luogo del noi. Se c’è un luogo in cui si sperimenta il potere buono del collaborare al bene comune, questo è la scuola

Non c’è capitolo nel quale il rapporto con il presente vissuto da insegnanti e studenti, con la vita reale e le reali difficoltà quotidiane non emergano chiedendo conto dell’urgenza di un pensiero comune sul tempo che la scuola sta vivendo: un tempo segnato dalla pandemia, che ha disvelato disuguaglianze, abbandoni, fragilità e nuove patologie.
Non è possibile ignorare la lacerazione, e non è possibile neppure rimandare una rilettura delle necessità (umane, sociali e didattiche, prima ancora che valutative): in tempi complessi, afferma Veladiano, serve una cosa ben precisa: una scuola “di livello altissimo, ma non elitaria”.

Gaja Cenciarelli, Domani interrogo (Marsilio)

Per chi pensa, da ormai trent’anni, che “la scuola deve insegnare un lavoro”, finalmente un libro in cui si racconta di cosa significhi vivere in una scuola in cui il lavoro si è già preso una intera generazione di ragazze e ragazzi, masticandoseli per bene e digerendo come scorie non necessarie sogni, volontà e delicatezza (buoni, al massimo, da farci concime per le aiuole).

No che non siamo in un aureo liceo, e neppure in qualche avveniristico complesso ultima generazione: dentro Domani interrogo c’è la normalissima bruttura delle aule sbrecciate e dei corridoi fiochi, dei banchi pittati e dei corpi che ci entrano sempre recalcitranti. Ci sono la dismisura, la vita che morde sulle caviglie, i silenzi, la ferocia, l’amore, la brutalità.

E poi c’è tutto quello che è il crinale su cui cammina chi ha scelto questo mestiere, e che in questo mestiere campa cercando di guadagnarsi ogni giorno il motivo per non perdersi, per non far perdere, per non sentirsi già perduto.

“Ha litigato con la sua classe. È come una lite tra innamorati. Si sente tradita, incompresa. Amore. Una parola troppo complessa, con infinite implicazioni sentimentali che lei detesta, e che non c’entrano con questa situazione. Qui non c’è romanticismo, qui c’è mancanza di rispetto, ferocia. Non ci sono due persone, ma una comunità. Dov’è l’amore, qui? Che amore è? La professoressa infila nella borsa il cellulare e si avvia verso l’uscita. Eppure, riflette, si sente tradita e ferita. Ma questo non è l’amore romantico, è l’amore della resistenza. Questo è l’amore che resta, che non scappa, che fa male, è l’amore a perdere, che non sarà mai ricambiato, l’amore che deve accompagnare e non pretendere, l’amore che ti prende a parolacce; questo è anche l’amore egoista, che salva in primo luogo chi lo prova, anche se è fatto di parole maledette come la violenza. È la versione più impossibile dell’amore, che pur perdendo pezzi ogni giorno resta sempre intero, perché chi se ne frega se si spezza, visto che poi ritorna intatto”.

La questione che muove il romanzo di Gaja Cenciarelli è il tema di questo tempo: a cosa serve la scuola? Ovvero: chi, a diciotto anni, ha già la schiena piegata, di cosa ha più bisogno: di firmare la propria resa, o di imparare (imparare) lo scarto possibile?

Una coraggiosa storia di amore, e di salvezza.

(Visited 1 times, 1 visits today)