Fuggire ieri, migrare oggi: da un piccolo libro una lezione di empatia

In Letteratura, Weekend

Le lettere, la sua agendina blu: su questa base Valeria Gandus ha scritto ‘Un angolo di pace’, storia di suo padre, commerciante ebreo, che scappa in Svizzera nel 1943 come altri 28mila. Da leggere, con lo sguardo alle frontiere di oggi, sempre più ostili a chi migra

Valeria Gandus in un certo senso è, come molti di noi ebrei della generazione post-bellica, figlia della Svizzera. Una madre abbastanza efficiente, non molto amorevole, molto severa, ma pur sempre madre, nei confronti della quale si prova se non affetto almeno riconoscenza. Ah, se non ci fosse stata la Svizzera, angolo di pace!
Ogni famiglia passata per quel confine, nell’autunno del 1943, ha la sua storia: le lacrime, le risate, le tragedie, la paura, il freddo, la fame, la fatica. In Un angolo di pace. Un ebreo in fuga nella Svizzera del ’43 , Valeria ha ricostruito, con il taglio vivace della cronista quella della sua famiglia paterna, grazie a una grande quantità di lettere e anche a una preziosissima agendina di pelle blu sulla quale suo padre Riccardo Gandus, commerciante rovinato dalle leggi razziste, annotava i momenti cruciali della vita.

È la storia di una famiglia fortunata nella sfortuna: passarono tutti indenni, godettero di buona salute. Come ricorda l’autrice, nel corso del conflitto furono 28.000 gli ebrei accolti dalla Svizzera durante la guerra, ma altrettanti furono respinti alla frontiera o traditi dai contrabbandieri che dopo averli depredati li consegnarono nelle mani degli aguzzini. È una storia che può permettersi di essere a tratti sorridente, e di andare a raccontare, oltre agli aneddoti buffi, anche i dispiaceri personali, i disagi, le malinconie che nelle storie più tragiche vengono messi da parte, oscurati dal drappo nero e soffocante del lutto.
Il grande cruccio del padre di Valeria, in Svizzera, è il pensiero che la sua Stellina, la sua Herry che non è ebrea ed è rimasta in Italia, lo abbia dimenticato. Passi la fatica del lavoro fisico (anche mio padre, profugo in Svizzera, sacramentava ogni volta che si ricordava quei mesi da boscaiolo forzato, lui che era un omino minuscolo e magro, buono solo per il lavoro di concetto), passi il tormento della fame che si fa sentire in molti campi, passi l’aperta ostilità di alcuni rispettabili cittadini elvetici, che alcune volte rasenta lo scontro, ma le pene d’amore quelle no, sono davvero insopportabili.
E forse questo piccolo, documentatissimo libro può avere un effetto secondario imprevisto, ovvero quello di ricordarci quanto sa di sale lo pane altrui. Noi nati dopo il 1945 in questa piccola parte di mondo non abbiamo vissuto la paura che una guardia ci fermi, rispedendoci tra le braccia del nemico, non abbiamo vissuto la fame della guerra: sono tormenti che possiamo cercare di immaginare, ma non sono incisi dentro di noi. Ma il dolore e l’ansia per un amore lontano li conosciamo (“Conto i minuti, le ore, i giorni, i mesi come potrebbe contarli un condannato in galera. Quando potrò tornare Herry mia? Quando ci potremo riabbracciare per dirci quello che forse ancora mai c’eravamo detti?”). Conosciamo il disagio di un ambiente estraneo e incomprensibile: ora ridiamo dello sgomento e dell’irritazione di Riccardo, ebreo molto poco osservante, quando si ritrova in un campo di piissimi ebrei polacchi, ligi a ogni precetto, ma riusciamo, in effetti, a immaginarci al suo posto. Conosciamo, per piccoli incidenti, il malessere che ci può dare il sentirci sporchi, laceri, in disordine. E dunque magari potremo mostrare più empatia nei confronti di chi oggi bussa a una frontiera, anche se non esibisce segni di violenze, se non ha alle spalle uomini armati, se non ha magrezze spettrali da mostrare, se non ha le stigmate della povertà estrema.

In apertura, pietra di confine tra Italia e Svizzera