C’era una volta il lavoro. E c’è ancora

In Arte

Abbiamo fatto una gita a Bologna per la seconda edizione della biennale Foto/industria: tra vecchi nomi e nuove scoperte, ne vale decisamente la pena

Per l’intero mese di ottobre, Bologna dedica i suoi spazi più belli, palazzi storici, cappelle, gallerie, molti di solito inaccessibili al pubblico, a mostre dedicate a Foto/Industria, cioè al lavoro in tutte le sue forme. In un periodo di recessione, in un periodo in cui si parla solo di finanza e di tecnologie digitali, sembrerebbe qualcosa di retrò mettere a fuoco la parola produzione fino a comprendere l’intera filiera: dalla creazione al riciclo. Invece, l’impatto – conoscitivo, estetico, politico, anche emotivo – è fortissimo; niente nostalgia, né noia.

Sarà che ci troviamo di fronte a qualcosa di vero, reale: la fabbrica, l’operaio, il minatore, i porti, le stazioni, il territorio inquinato o pazientemente disegnato dall’agricoltura, e non ci siamo più abituati. Li abbiamo dimenticati, tutti presi e persi di fronte agli universi virtuali degli schermi dei nostri computer e smart-phone. Sarà che le scelte di Francois Hébel, direttore artistico, e dei curatori ci hanno proposto temi insoliti e fotografi bravissimi, sia i famosi che le ‘scoperte’, proponendoci un viaggio che apre lo sguardo su mondi e modi apparentemente diversi, ma non necessariamente di confine.

Luca Campigotto, Arsenale di Venezia, 2000. © Luca Campigotto.
Luca Campigotto, Arsenale di Venezia, 2000. © Luca Campigotto.

Le mostre, tutte gratuite, sono moltissime, ben quattordici; si impone quindi una selezione e un taglio draconiano, necessariamente soggettivo, incompleto e ingiusto. Si potrebbe cominciare con Gianni Berengo Gardin, L’uomo, il lavoro, la macchina: è in questa precisa sequenza che Berengo definisce il suo interesse. Vediamo l’intelligenza, l’abilità, l’orgoglio dell’operaio, del tecnico che fa funzionare, crea meravigliosi meccanismi, cattedrali di tubi. Interessante che committenti fossero proprio le grandi industrie, come l’Ansaldo, l’Olivetti, la Dalmine, per cui Berengo lavorava in assoluta libertà narrativa, riuscendo sempre a coniugare sguardo artistico con necessità di informazione.

Anche il tedesco Hein Gorny lavorava per la grande industria tra gli anni ’20 e ’30. Nelle sue immagini costruisce piante di città, labirinti, torri, mettendo in fila biscotti Balsen o gomme da cancellare Pelikan; stupefacente equilibrio tra razionalismo Bauhaus e nuova oggettività del prodotto industriale. Raffinata proposta pubblicitaria combinata con informazione sociale.

Winston Link, La locomotiva. Hot Shot in direzione est, Laeger, West Virginia, 1956. © The Estate of O. Winston Link, courtesy Robert Mann Gallery.
Winston Link,
La locomotiva. Hot Shot in direzione est, Laeger, West Virginia, 1956. © The Estate of O. Winston Link, courtesy Robert Mann Gallery.

Una scoperta che rende davvero felici è l’americano Winston Link. Fa fotografie notturne delle ultime linee ferroviarie a vapore che attraversavano gli Stati Uniti alla fine degli anni ‘50. Le locomotive irrompono nel paesaggio, attraversano le piazze, fanno da sfondo a scene di vita familiare, a drive-in. E’ il primo a costruire le scene come in un set cinematografico, con un’attrezzatura tecnica imponente, soprattutto per l’illuminazione. Incredibile che sia stato quasi dimenticato. C’è una spiegazione molto da noir nella biografia di Winston Link: nel 2001 la moglie l’ha ammazzato, è in prigione e le foto sotto sequestro o scomparse. La mostra è stata faticosamente costruita grazie al prestito di un amico gallerista e di alcuni collezionisti.

Edward Burtynsky, Super Pit n. 1, Kalgoorlie, Australia Occidentale, 2007.© Edward Burtynsky, courtesy Nicholas Metivier Gallery, Toronto / Howard Greenberg Gallery and Bryce Wolkowitz Gallery, New York.
Edward Burtynsky,
Super Pit n. 1, Kalgoorlie, Australia Occidentale, 2007.© Edward Burtynsky, courtesy Nicholas Metivier Gallery, Toronto / Howard Greenberg Gallery and Bryce Wolkowitz Gallery, New York.

Dalla locomotiva fantasma, passiamo alla prua di una nave, al braccio di una gru, al cumulo di cavi. Occupano due terzi dell’immagine. Diventano arti monumentali di un macchinario ancor più gigantesco. Si stagliano – coi loro riflessi metallici – nel buio dei porti, nelle foto di grande formato di Luca Campigotto.

La vista si allarga, diventa visione aerea di aree segnate dal lavoro dell’uomo, dalle fabbriche, dagli scarti industriali nelle foto di Edward Burtynsky. E’ una specie di racconto, di documentazione sociologica, paesaggistica, ecologica di meraviglie – come risaie di Bali, saline, piante di città, cave di marmo – e di orrori – come scarti di nichel, discariche. L’uomo ha segnato, disegnato amorosamente, deturpato la terra: tutto nel bene e nel male reca la sua impronta.

 

Foto/Industria, Bologna ‘15, a cura di Francois Hébel, fino al 1 novembre 2015

Immagine di copertina: Gianni Berengo Gardin, L’industriale Alberto Alessi, i designer Achille Castiglioni, Enzo Mari, Aldo Rossi, Alessandro Mendini, Milano 1989. Courtesy Gianni Berengo Gardin/Contrasto

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